Trovo molto, molto interessante l’intervista rilasciata da Angelo Guglielmi ad Antonio Gnoli, su Repubblica di oggi. Ci sono un paio di passaggi che la dicono lunga anche sullo stato attuale della critica italiana, pregiudizi inclusi. Raccomando la parte su Calvino, per esempio. E quella, finale, sul Mito. Buona lettura.
Negli ottant´anni di Angelo Guglielmi si nascondono almeno quattro vite: quella del critico letterario, del direttore della terza rete televisiva, del presidente dell´Istituto Luce e infine dell´assessore alla Cultura per il comune di Bologna. Non male, si potrebbe aggiungere, magari pensando ai destini di certi uomini di potere che in qualche modo cadono sempre in piedi. Ma poi, pensandoci bene, si ha l´impressione che Guglielmi non appartenga a una vera e propria nomenclatura culturale: non ha barattato potere contro servitù. Si ha l´impressione che sessant´anni fa quel signore dalla testa magra, il volto affilato e gli occhiali che incessantemente vanno su e giù tra il naso e la fronte era lo stesso di quello che oggi incontro nella sua casa romana. E sessant´anni sono anche l´arco di tempo nel quale Guglielmi ha dato vita alla sua militanza di critico. Alcuni dei suoi contributi sono stati raccolti nel libro Il romanzo e la realtà (esce oggi da Bompiani, pagg. 384, euro 21).
Impegnativo Il romanzo e la realtà, un titolo quasi d´altri tempi.
«Si tratta di un filo che corre lungo tutto il libro e si basa sulla convinzione che la realtà non è un fatto ma un concetto. Negli anni Cinquanta gli scrittori come Pratolini raccontavano la realtà sociale e politica, negli anni Sessanta Arbasino e Sanguineti sollecitati dal grande Gadda, guardavano alla realtà come invenzione linguistica, negli anni Ottanta, con Tondelli per esempio, si annuncia il ritorno alla realtà dell´esperienza».
Prima che vada avanti che ne è di Moravia? È stato lo scrittore per eccellenza. Ma per lei è come se fosse invisibile.
«Non è vero. Era un uomo al quale non sfuggiva il nuovo ma aveva il torto di adoperare, come diceva Gianfranco Contini, una lingua grigia. Prenda La noia, un romanzo molto sopravvalutato. Lì Moravia avverte l´irrompere della crisi delle ideologie, ma le metafore che adopera per raccontarla sono ridicole. È stato lo scrittore più intelligente che io abbia mai conosciuto. Ma non si rendeva conto che l´intelligenza va tradotta in termini di lingua e di struttura».
Però anche voi del “Gruppo63” – oltre a lei, Eco, Giuliani, Arbasino, Sanguineti e altri – ve la prendevate con il romanzo tout court, ne dichiaravate un po´ troppo affrettatamente la fine.
«Quando ne sostenemmo la scomparsa, intendevamo che era morto il romanzo ottocentesco. E volevamo essere conseguenti, auspicando un romanzo senza trama, che non raccontasse, scritto di parole che non dicono ma fanno».
Diciamo la verità, pretendevate romanzi con pochissimi lettori, il contrario di quello a cui ogni scrittore normale aspira.
«Non nego che sia così. Legavamo la qualità del romanzo alla sua illeggibilità. Pensavamo che essere leggibili voleva dire cedere al facile, al consolatorio».
A forza di guardarvi le spalle da Cassola, vi siete persi Tondelli sul quale non ci siete andati leggeri.
«Apparve improvvisamente, come quei ciclisti che escono dalla curva. A noi interessavano i non romanzi. Tondelli, invece, scrisse un romanzo con una trama. Lo liquidammo senza coglierne le novità».
Che cosa esattamente vi sfuggì?
«Ci chiedevamo come si poteva scrivere un romanzo che avesse un senso. Avevamo accolto con curiosità Altri libertini, dove c´era una storia ma sfasciata e con tanti buchi. Poi arrivò Rimini, che ci parve il classico romanzo da spiaggia. Solo col tempo ne scoprii le ragioni più nascoste che sono poi quelle formali. Rimini oggi mi appare come un romanzo strutturalmente animato da un grande sforzo narrativo».
Fino a dove può spingersi il ripensamento o l´autocritica di un critico?
«Non ci sono limiti. L´errore, la sottovalutazione come pure la sopravvalutazione, fanno parte dell´azione di un critico. Ancora oggi sono convinto che Moravia fosse un grande scrittore ma senza una lingua adeguata».
E Pasolini?
«Con lui c´era una forte inimicizia. A mente fredda, posso dire che i suoi romanzi erano scadenti. Salverei solo Petrolio per il suo carattere inconcluso. Ma sono certo che se lo avesse portato a termine sarebbe stato brutto come gli altri. Non saprei cos´altro salvare di Pasolini. Anche Le ceneri di Gramsci soffrono di larghi margini di retorica. È stato però un grande comunicatore, un moralista estraneo alla tradizione laica dei moralisti francesi, ma appartenente alla schiera, diffusa in Italia, dei predicatori alla Savonarola, i cupi ammonitori».
Un altro cupo ammonitore fu Fortini. Com´erano i vostri rapporti?
«Inesistenti. Mentre con Moravia e Pasolini ci scontravamo, Fortini era un estraneo che ogni tanto ci tirava addosso delle palate di cacca».
Non andavate d´accordo neanche con Citati e Garboli.
«Non ci frequentavamo. Citati ebbe il merito, come noi del resto, di sdoganare Gadda, di farlo uscire dalla banalità che fosse un rondista. Quanto al resto pensavamo che scrivesse aspirando a un´idea di alto, di sublime».
È una semplificazione. E Garboli?
«Ci sembrava che entrasse nel romanzo senza pregiudiziali. E se amava La storia della Morante che noi detestavamo, però sapeva leggere i testi, sapeva entrarci dentro. Però se devo dire quale fosse l´immagine che Garboli aveva della letteratura non saprei cosa rispondere».
Era l´immagine di se stesso.
«Infatti si dice che non fosse un critico ma uno scrittore senza romanzo».
Ha ancora senso la difesa del critico che analizza, squarta, ricuce e poi stila il referto?
«Finche esiste gente che scrive romanzi esisteranno critici pronti a giudicarli. Siamo figure minori, servili, legate alla sorte del romanzo».
Qual è l´ultimo grande romanzo che ha letto?
«Se parliamo di grandi romanzi e non dei brodini con i quali di regola ci nutriamo direi Fratelli d´Italia. Con quell´opera Arbasino inventa una lingua stracciata, flessibile e che si conforma al disordine, al non senso che ha invaso i comportamenti e le ideologie. Timbra così la modernità».
Per essere così sofisticato, qualcuno si può sorprendere degli anni che ha trascorso in televisione.
«È un mezzo diverso. Non ho mai rifiutato di fare la televisione. Ma ho avuto l´accortezza, o forse la furbizia, di fare grandi ascolti che non comunicassero sgradevolezza e volgarità. Diciamo che l´ironia fu la mia compagna di banco. Quando nel 1994 la sinistra, convinta di vincerle, perse le elezioni, noi della terza rete fummo accusati, insieme a Mani pulite, di essere gli artefici di quel tonfo. Dovevamo fare una rete riverente?».
Pensa alla odierna televisione?
«Non lo so, ma so che rispetto ad allora oggi farei un´altra televisione. Forse quel tasso di sbeffeggiamento non avrebbe più senso, anche perché non c´è giornalino che non pratichi questo genere. Allora lavoravamo in un periodo in cui stava finendo un certo tipo di mondo: via la guerra fredda, via l´Unione Sovietica, via il centro sinistra. Una grande trasformazione stava cancellando il vecchio».
E voi eravate lì a dare una mano al nuovo?
«Una mano a modo nostro. Non credo che la cultura possa aiutare direttamente la società, come ha immaginato il neorealismo contro cui, a un certo punto, lo stesso Calvino si è ribellato. Lui ebbe la felice idea di scegliere il tema fiabesco, l´inesistente per raccontare l´esistente. E questo ne ha fatto uno scrittore europeo».
Da come parla sembrerebbe che per lei esistono lettori di serie A e di serie B.
«Ci sono diversi gradi di assorbimento di un libro, di un autore. La lettura è anche aiutata da ciò che circola nell´aria. Non esistono i fatti, ci sono le interpretazioni, le atmosfere che vanno captate. Prenda Dante: quante persone crede che l´abbiano veramente letto? Pochissime, però tutti hanno una qualche percezione della sua grandezza».
Quei “tutti” amano scrittori meno sofisticati, meno illeggibili. Lei che rapporto ha con il basso della letteratura?
«Non ho pregiudizi. Dipende dall´offerta. Per esempio Camilleri o Carofiglio sono realmente interessanti, anche se coprono una domanda molto allargata di lettura. Di altri non saprei. Ci vuole un minimo di ragione per leggere un libro. Qualcosa, se pur piccola, deve spostare. Altrimenti non ne vale la pena».
Ma il romanzo, come se lo immagina lei, è morto o no?
«Il romanzo è un genere obiettivamente in crisi. Yehoshua sostiene che responsabile della crisi del romanzo europeo è la democrazia la quale, con la sua vocazione egualitaria, ha reso impossibile la figura dell´eroe. Quando si uscirà da questa crisi? Quando inventeremo, lo dice Eco, una nuova mitologia, giacché quella della partenza e del ritorno, è stata vissuta dall´intera civiltà occidentale ed è ormai definitivamente consumata».
Concordo su molti giudizi – anche se eh, non è proprio un simpaticone :)) – però spero che la questione Calvino non sia pensata come un aut aut, perchè io sono grata al neorealismo. E il fantastico per conto mio è di molto più difficile: per un Calvino ci sono una barcata di cosarelle molto meno interessanti.
“Quando inventeremo, lo dice Eco, una nuova mitologia, giacché quella della partenza e del ritorno, è stata vissuta dall´intera civiltà occidentale ed è ormai definitivamente consumata».
Beh, mi sembra che negli ultimi 10 anni circa (mi riferisco all’Italia) i tentativi, più o meno riusciti, vadano proprio in quella direzione, no?
Dall’ultima parte si capisce che Antonio Gnoli non legge fantasy. 😉
Siamo di fronte al tipico reperto archeologico-letterario novecentesco: il critico elitario. Non è questione di concordare – o discordare – su un punto o su un altro. E l’approccio a essere – oramai! – paleonarrativo.
Tuttavia, vista la scarsa influenza sul mercato letterario, lasciamolo pur dire. Almeno possiamo farci quattro risate genuine – così difficili di questi tempi – su Moravia “grande scrittore ma senza una lingua adeguata”! Ah ah ah! Ancora gli rodono, ai critici nostrani, i milioni di copie che ha venduto il Grande Raccontatore… però, quanta acrimonia, ragazzi.
Secondo me è vero che Moravia non aveva una lingua adeguata. E non per difendere Guglielmi, ma ho come l’impressione che il numero di copie vendute dal grande raccontatore non sia proprio il primissimo dei suoi pensieri. Mi affascina che, anche di fronte a un tipico reperto archeologico-letterario novecentesco, se un critico fa una critica si vada a tirare fuori l’invidia. Chiara, quanta acrimonia. Secondo me ti rode che a ottant’anni ancora pubblichi libri, lo intervistino, possa sfoggiare il suo cv impressionante.
Scherzo eh.
(Io comunque sono grata a Guglielmi soprattutto per la sua Rai3).
Non toccatemi Moravia, che mordo. Riguardo alla lingua, il problema non si pone nemmeno. Moravia aveva – ha – una chiarezza, nel senso francese del termine, una chiarezza di scrittura intendo, tale da doppiare totalmente ogni questione linguistica. Un sapientissimo non-stile, insomma, che la dice lunga sull’umiltà di uno dei più gradi scrittori del novecento.
Per quanto riguarda la scarsa fortuna critica di Moravia in Italia. Non è questione di soldi, ovviamente, ma di invidia sì, lo ripeto. Tanto è vero che in Francia Morava è osannato, mentre da noi i professorini come Guglielmi lo stanno facendo cadere nel dimenticatoio. Grazie al cielo, vive nel cuore e nella mente dei suoi lettori…
Per me è così, e non modifico il primo, il secondo e il terzo mio giudizio: Rimini è un romanzo da spiaggia, all’epoca da gettare nella spazzatura. Ma dopo il decennio di ‘L’uomo che guarda’ e Orcynus Orca, una rottura con gli gli anni 70 bisognava aspettarsela. Il grande sforzo narrativo che gli riconosce Guglielmi a proposito di Rimini a me parve piuttosto un sentito sberleffo agli ‘ismi’ dei 70. Ci mancavano Villaggio, la Grandi e Pippo Santoanastaso e il quadro era perfetto.
E però quando si affronta Tondelli, specialmente sul versante della scoperta di nuovi talenti, il discorso si fa complesso, non possiamo cioè non pensare a un solco tracciato e poi sempre più approfondito. Dobbiamo a lui, per citare il primo esempio che mi viene, se alla fine degli 80 compaiono gli Antò, con tutto quello che consegue sul piano dell’invenzione di una lingua fatta di ‘parole che fanno’. In questo suo passaggio avverto un chiaro recupero di due decenni di narrativa, quanto meno sul piano formale. Non mi sembra casuale, insomma, che citi Camilleri come autore tra i più interessanti fra quelli attuali.
Che poi: quale Camilleri? il 40tenne del primo romanzo pubblicato da Lolli, il 60enne di Il birraio di Preston o l’80enne di Montalbano?
Concordo pienamente con Chiara. E non dimentico il Moravia dell’incipit di Gli indifferenti (“Entrò Carla.”), un gioiello che fa mercato a sé e traccia un nuovo modo di concepire il romanzo. Aveva letto ‘Chiamatemi Ismaele’?
E mentre il Gruppo 63 faceva esplodere il romanzo a partire dalla trama, la narrativa non ideologizzata, in altri paesi, annaffiava la pianta della narrazione… e i risultati si vedono ancora oggi!
Oh sì… “Entrò Carla”. Magnifico.
Moravia è proprio il più sprovincializzato – insieme a Calvino, ma su versanti diversissimi – degli scrittori italiani.
Chiara, hai ragione da vendere. So’ professorini, appunto.
difatti è proprio così, Paolo S. In Italia si scambiò il termine “complessità” con “illeggibilità”, con la catastrofe narrativa che ne consegue…
Datemi un Franzen italiano! Un Paul Auster! Un Marias! – e mi sto ancora tenendo su un registro possibile… mica ho chiesto un DeLillo o un Saramago.
Sacrificare la tanto bistrattata trama è stato un delitto. Il penitenziagite di Umberto Eco è stato Il nome della rosa… Non mi ero mai soffermato a pensare a Salvatore come ‘creatura’ del Gruppo 63, però che la lingua babelica sia della creatura deforme e suscitante pietà… ok, mi fermo prima di dire cavolate — l’ho letto l’ultima volta nel 1996, quel romanzo.
Io mi domando una cosa, ogni tanto, quando penso ai critici letterari.
Ma hanno mai letto La storia infinita?
Davvero il ruolo di un critico è essere quello di giudice, di essere fedele servitore legato alle sorti del romanzo?
Io non lo so. Non sono un critico letterario. Però mi domando dove vada a finire il piacere della lettura, di vivere un’avventura, dell’infilarsi sotto le coperte con il lumino acceso e lasciarsi trasportare in altri mondi.
Cosa c’è di male, se si sogna leggendo?
Il sogno di ogni critico non dovrebbe essere quello di Bastiano Baldassare Bucci, ovvero un libro senza mai fine? Di una storia infinita?
Fermo Ekerot!
Sento già la voce che mi chiama.
Quello è il sogno del lettore non del critico!.
Ma perché: il critico non è un lettore più appassionato e preparato e sensibile e in grado di accedere a Fantàsia con maggiore facilità degli altri?
… erano ragazzi intelligenti, ma Pasolini e Fortini tutta la vita. E pure “La Storia”, un esempio di romanzo senza epigoni. Il suo compagno, invece… bè, su Moravia invece non capisco – sarà un mio limite – tutto questo entusiasmo di chiara e altri commentatori. Registro, con stupore, che esistono fan di Moravia, esistono ancora!, ma il tempo è galantuomo: non lo legge più nessuno. Non ha resistito. E questo è un fatto, per quanto ancora modificabile, ovvio. A me Moravia è sempre parso un uomo più intelligente e dotato quando parlava e scriveva dei libri degli altri che non quando pubblicava i propri. Non mi viene in mente un romanzo che tenga il confronto con quanto facevano gli altri nello stesso periodo (da Gadda a Pasolini, D’Arrigo o Calvino, tanto per citare alcuni scrittori che sono stato citati qui).
Ricordo una bellissima lezione all’università, molto divertente, in cui il nostro professore – non dirò chi per evitare polemiche – ci lesse la famosa “passeggiata” ne “Gli indifferenti”, invitandoci a resistere dall’addormentarci. 😀
1. Da Fratelli d’Italia son passati 47 anni. In questo mezzo secolo Angelo Guglielmi (Venerabile Maestro) ha allevato generazioni di allievi all’Università, ha diretto una rete televisiva nazionale, fatto l’assessore alla cultura, scritto saggi critici, collaborato a riviste culturali, e immagino avrà consigliato direttori di collana. Se tutto questo non è servito a darci un romanzo migliore (non perché sia cattivo Fratelli d’Italia: perché ogni 25-30 un grande romanzo sarebbe giusto aspettarselo), allora Guglielmi dovrebbe fare un pelino di autocritica (appena appena, eh) sulla sua capacità di svolgere il ruolo di intellettuale organico. Sarà colpa dei massimi sistemi cinici e bari, ma il Venerabile Maestro che voleva cambiarli, questi massimi sistemi, mai una volta che abbia detto: se sbaglio vado a casa.
2. Tondelli (Giovane Speranza) come il ciclista che esce dalla curva all’improvviso. Si, certo: per chi il ciclista lo aspetta seduto sulla seggiolina sotto le tribune, o alla televisione, non certo per chi segue per davvero la corsa. Questa del ciclista che appare all’improvviso è una versione riveduta e poltrona dell’invasione degli Hyksos.
3. «La mitologia della partenza e del ritorno è stata vissuta dall’intera civiltà occidentale ed è ormai definitivamente consumata». Sì, come no: David Foster Wallace (Giovane Speranza) mica scriveva per un pubblico occidental-democratico, e Cormac McCarthy (Venerabile Maestro) com’è noto giocava a carte con Melville e Hawthorne.
4. L’intervistatore chiede lumi e conferme su Pasolini, Cassola, Fortini, Moravia, Tondelli: giusto per sentirsi dire le stesse cose di una qualunque intervista a Guglielmi di 3, 5, 10 anni fa. Chiedere se Guglielmi ha qualcosa da rimproverarsi su Bassani (Venerabile Maestro), che almeno si sentiva rispondere qualcosa di nuovo, era troppo ardito?
L’intervistatore non mi è piaciuto molto nella domanda sul “basso della letteratura”, ma su questo argomento è come sparare sulla Croce Rossa.
“L’inesistente per raccontare l’esistente” riguardo Calvino mi sembra una dimostrazione di quanto diceva WM4 il 29 aprile nei commenti di “Uno sguardo nella nicchia”: “Durante il secolo scorso si è imposta un’egemonia del realistico che accetta il fantastico solo in forma di 1) allegoria del reale; 2) allucinazione privata o passaggio onirico/psicanalitico”.
C’è una sola cosa più deprimente di un’ennesima replica dello spettacolo.
Lo spettacolo della critica.
Sulle egemonie, benché culturali, ho sempre molti dubbi e ondivaghi pensieri perché a me l’individuo molecolarizzato comincia proprio a rompere (e citerei Camilleri e i cabasisi…), tutto sparato di qua o di là e non sappiamo più chi seguire dove. E guarda caso i WM sono un collettivo…
“Agostino” è uno dei romanzi della mia adolescenza letteraria (anche se non ho letto altro di Moravia, confesso), per cui… Inoltre, già solo a vedervi citarlo continuamente, mi fate venire una gran voglia di leggerlo, finalmente. E chissà se reggo.
Altri dubbi su Tondelli, letto un po’ di più che Moravia: avrà scavato solchi, dissodato le patrie lettere postmoderne ma anch’io ricordo “Rimini” come un libro piuttosto scadente. Anche gli Anto’ non li adoro. Via, sarò una vittima dell’egemonia realistica.
“Legavamo la qualità del romanzo alla sua illeggibilità. ”
Mi colpisce moltissimissimo questa sintesi.
Ok, oggi si fa presto a storcere il naso, del senno di poi ecc.
Però…
Leggendovi si ha quasi la certezza che la vocazione pedagogica sia un vizio parecchio diffuso. Livori o difese, Tondelli o Arbasino? Moravia e Morante?
Giocate senza stare a rimestare, quanta acrimonia; ricordate il piacere del testo?
Ma è proprio in nome del piacere del testo che qui si bacchettano i professorini!
o per il piacere della bacchetta?