David Grossman (1954). Non le mie parole, stavolta, ma quelle di un grandissimo scrittore. Che nel 2010 ricevette il Premio della pace da parte dell’Associazione degli editori e dei librai tedeschi alla Fiera del libro di Francoforte. E pronunciò questo discorso.
“Quando ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore sapevo di voler raccontare la storia di Israele che da più di cento anni – ancor prima che diventasse una nazione – si trova in uno stato di guerra. E sapevo che l’avrei raccontata attraverso la storia privata, intima, di una famiglia.
Sarete forse d’accordo con me che il vero grande dramma dell’umanità è quello della famiglia. E ognuno di noi è un personaggio di questo dramma in quanto in una famiglia è nato. Ai miei occhi i momenti più significativi della storia non sono avvenuti sui campi di battaglia, in sale di palazzi o di parlamenti bensì in cucine, in camere da letto matrimoniali o in quelle dei bambini.
In A un cerbiatto somiglia il mio amore ho cercato di mostrare come il conflitto mediorientale proietti sé stesso, la sua brutalità, sulla fragile e delicata sfera familiare e come, inevitabilmente, ne modifichi il tessuto.
Ho cercato di descrivere la lotta che persone intrappolate in questo conflitto, o in un qualunque scontro violento e protratto, devono sostenere.
È la lotta per mantenere il sottile e complesso intreccio dei rapporti umani e sentimenti di tenerezza, di sensibilità, di compassione, in una situazione di durezza e di indifferenza nella quale il volto del singolo viene cancellato. A volte paragono il tentativo di preservare questi sentimenti nel pieno di una guerra a quello di camminare con una candela in mano durante una violenta tempesta.
Concedetemi ora di condurvi, con una candela in mano, in mezzo a questa violenta tempesta.
Se mi chiedeste cosa mi auguro per il conflitto israelo-palestinese la mia risposta, ovviamente, sarebbe che finisse al più presto, si risolvesse e regnasse la pace. Ma forse allora insistereste a chiedere: «E se le ostilità dovessero andare avanti ancora a lungo, quale sarebbe il tuo più grande desiderio?». Dopo aver provato una punta di dolore per questa domanda risponderei che in quel caso vorrei imparare a essere il più possibile esposto alle atrocità e alle ingiustizie, grandi e piccole, che il conflitto crea e ci presenta ogni giorno, e non chiudermi in me stesso o cercare di proteggermi.
Per me essere uomo in uno scontro tanto prolungato significa soprattutto osservare, tenere gli occhi aperti, sempre, per quanto io riesca (e non sempre ci riesco, non sempre ho la forza di farlo). Però so di dovere almeno insistere, per sapere ciò che succede, cosa viene fatto a nome mio, a quali cose collaboro malgrado io le disapprovi nella maniera più assoluta. So di dovere osservare gli eventi per reagire, per dire a me stesso e agli altri ciò che provo. Chiamare quegli eventi con parole e nomi miei, senza farmi tentare da definizioni e da termini che il governo, l’esercito, le mie paure, o persino il nemico, cercano di dettarmi.
E vorrei ricordare – e spesso è questa la cosa più difficile – che anche chi mi sta di fronte, il nemico che mi odia e vede in me una minaccia alla sua esistenza, è un essere umano con una famiglia, dei figli, un proprio concetto di giustizia, speranze, disperazioni, paure e limitatezze.
Signore e signori, oggi mi conferite questo prestigioso “Premio della pace”, e della pace voglio parlare. È indispensabile parlarne, insistere a parlarne, soprattutto in una realtà come la nostra. È importante praticare una rianimazione costante e intensa alla coscienza terrorizzata e paralizzata di israeliani e palestinesi per i quali la parola “pace” è quasi sinonimo di illusione, di miraggio, se non addirittura di trappola di morte.
Dopo cento anni di guerre e decenni di occupazione e di terrorismo la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi non crede infatti più nella possibilità di una vera pace. Non osa nemmeno immaginare una situazione di pace. È ormai rassegnata al fatto di essere probabilmente costretta a vivere in una spirale infinita di violenza e di morte. Ma chi non crede nella possibilità della pace è già sconfitto, si è autocondannato a una guerra continua. Talvolta occorre ricordare – e di certo su questo autorevole palcoscenico – ciò che è ovvio: le due parti, israeliani e palestinesi, hanno il diritto di vivere in pace, liberi da occupazioni, dal terrorismo, dall’odio; di vivere con dignità, sia a livello del singolo che come popoli indipendenti in un loro stato sovrano, di guarire dalle ferite provocate da un secolo di guerre. E non solo entrambe le parti hanno questo diritto, hanno anche un estremo bisogno della pace, un bisogno vitale.
Non posso parlare di cosa si aspettino i palestinesi dalla pace. Non ho il diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro, dal profondo del cuore, che conoscano al più presto un’esistenza di libertà e di sovranità dopo anni di schiavitù e di occupazione sotto turchi, inglesi, egiziani, giordani e israeliani; che costruiscano la loro nazione, uno stato democratico, in cui crescere i figli senza paura, godere di una vita normale, di pace, e di quanto essa può offrire a qualunque essere umano. Posso però parlare dei miei desideri e delle mie speranze di israeliano e di ebreo.
Ai miei occhi la parola “pace” non definisce soltanto una situazione in cui finalmente la guerra, con tutte le sue paure, sarà finita e Israele manterrà buoni rapporti con i suoi vicini. La vera pace, per Israele, significherà un nuovo modo di essere nel mondo, la possibilità di guarire lentamente da distorsioni causate da duemila anni di diaspora, di persecuzioni, di antisemitismo e di demonizzazione. E forse, fra molti anni, se questa fragile pace resisterà, se Israele rafforzerà le basi della propria esistenza e potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale umano, spirituale e culturale, anche la sensazione di estraneità esistenziale, di isolamento, che l’uomo ebreo, che il popolo ebreo, prova in mezzo ad altri popoli, svanirà.
Con la pace Israele avrà finalmente dei confini, cosa non da poco, soprattutto per un popolo che per gran parte della sua storia è stato disperso in altre nazioni e molte sue tragedie sono derivate proprio da questo. Pensate: ormai da 62 anni Israele non ha confini definitivi. Le sue frontiere sono instabili, vengono modificate, allargate o ristrette, a ogni decennio. Nel nostro mondo chi non possiede dei confini chiari è paragonabile a chi vive in una casa i cui muri ondeggiano e la terra trema costantemente sotto i suoi piedi. A chi non possiede una vera casa.
Nonostante la sua grande forza militare Israele non è ancora riuscito a infondere nei suoi cittadini il senso di naturale serenità di chi si trova al sicuro nel proprio paese. Non è riuscito – ed è questa la cosa tragica – a guarire gli ebrei da un’amara sensazione di fondo: il disagio di chi non si sente quasi mai a casa nel mondo.
E dopo tutto Israele è stato creato per essere rifugio degli ebrei e del popolo ebreo. Era questo il sogno che ha portato alla sua creazione. Ma fintanto che non ci saranno la pace, dei confini definitivi e concordati e un vero senso di sicurezza noi israeliani non avremo la casa di cui siamo degni e di cui abbiamo bisogno. Non ci sentiremo a casa nel mondo.
Di sicuro ve ne rendete conto: certe parole, pronunciate da un ebreo israeliano in Germania, hanno una cassa di risonanza come in nessun’altra parte del mondo. Ciò di cui parlo, i termini che uso, i palpiti della memoria che questi risvegliano, provengono dalla ferita della Shoà e a essa fanno ritorno. Molto di quanto avviene in Israele, sia in ambito privato (nei rapporti di un uomo con sé stesso, con la sua famiglia, con i suoi amici), sia in quello pubblico, politico e militare, intrattiene un discorso complesso con la Shoà, con il modo in cui questa ha forgiato la coscienza ebraica e israeliana. Anche le cose che dico qui, nella Paulskirche, sede del primo parlamento tedesco democraticamente eletto nel 1848, le mie parole, come un colombo viaggiatore della Shoà, tornano sempre “laggiù”, a quei giorni.
Ma al tempo stesso, e senza fare paragoni inaccettabili tra situazioni storiche completamente diverse, io rammento a me stesso che qui, in Germania, si può anche vedere come un popolo è in grado di risollevarsi non solo dalla distruzione fisica ma dal superamento di ogni limite e freno, dallo sgretolamento di ogni senso di umanità, e di impegnarsi a rispettare i valori dell’etica e della democrazia e di educare i giovani all’idea della pace.
Ma torniamo alla realtà del Medio Oriente: solo la pace potrà curare Israele dalla profonda paura che palpita nei cuori dei suoi cittadini riguardo al futuro del loro paese e dei loro figli. Credo che non ci sia al mondo un altro stato che viva una tale angoscia esistenziale. Quando leggete sul giornale che la Germania ha grandi progetti per il 2030 la cosa vi sembra logica e naturale, ma nessun israeliano farebbe progetti così a lungo termine. Quando penso a Israele nel 2030 provo una stretta al cuore, come se avessi profanato un qualche tabù concedendomi di immaginare un futuro tanto lontano….
Solo la pace darà a Israele una casa, un domani, generazioni future. E solo la pace permetterà a noi israeliani di vivere una situazione, o sensazione, mai provata prima: quella di un’esistenza stabile.
Chi è stato esiliato, deportato, perseguitato, cacciato ripetutamente per gran parte della sua storia, chi ha errato sospeso tra la vita e la morte per migliaia di anni, può solo aspirare a un’esistenza stabile e sicura nella propria patria. Aspirare a sentirsi un popolo radicato nella propria terra, con confini protetti e riconosciuti dalla comunità internazionale, accettato dai vicini, in buoni rapporti con loro e integrato nel tessuto delle loro vite, con un futuro davanti e finalmente a casa nel mondo.
Eccomi qui a parlarvi della pace. È strano. Io che non mai conosciuto un solo istante di vera pace in vita mia, vengo a parlarne a voi? Eppure ritengo che proprio ciò che so della guerra mi dia il diritto di farlo.
Già da molti anni la mia vita, i miei libri, si dipanano in un questo miscuglio di guerra, di paura delle sue conseguenze, di ansia per Israele e per i miei cari che ci vivono, di lotta per il diritto ad avere una vita privata, intima, non eroica, in una situazione spesso monopolizzata dal conflitto, dalla tempesta, dalla candela.
E quanto più conosco profondamente la distruzione e la devastazione di una vita in uno stato di guerra, più sento il bisogno di scrivere, di creare, come se questo fosse un modo di rivendicare il mio diritto all’individualità, di dire “io” anziché “noi”.
La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega anche la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino.
La letteratura, non solo scrivere libri ma anche leggerli, è l’opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all’individuo, al suo diritto di essere tale e al destino che condivide con l’intera umanità. La letteratura è lo stupefazione per l’uomo, per la sua complessità, la sua ricchezza, le sue ombre.
Quando scrivo cerco di redimere con tutte le mie forze ogni personaggio dalla morsa dell’estraneità, della banalità, degli stereotipi, dei cliché, dei pregiudizi. Quando scrivo lotto, talvolta per anni, per cercare di capire ogni aspetto di una figura umana, per essere lei.
C’è un che di tenero, quasi materno, nel modo in cui uno scrittore cerca di percepire con tutti i suoi sensi i sentimenti e le emozioni del personaggio che crea. C’è un che di vulnerabile e di sprovveduto nella sua disponibilità a dedicarsi senza difese ai personaggi di cui scrive. È forse questo ciò che di grande può offrire la letteratura a chi vive in uno stato di guerra, di alienazione, di discriminazione, di povertà, di esilio, di sensazione che il suo “io” venga continuamente calpestato: la capacità di restituirci un volto umano.
Signore e signori, ho aperto questo discorso parlando di come ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore. Forse sapete che il romanzo narra di un soldato israeliano che parte per la guerra e la madre, in ansia per il figlio, fugge di casa perché un’eventuale brutta notizia non la raggiunga.
Tre anni e tre mesi dopo avere cominciato a scrivere il libro è scoppiata la seconda guerra del Libano in seguito a un improvviso attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana in ricognizione entro i confini di Israele. La sera di sabato 12 agosto 2006, poche ore prima del cessate il fuoco, mio figlio Uri è stato ucciso insieme a suoi tre compagni, l’equipaggio di un carro armato, da un razzo lanciato da Hezbollah.
Dirò solo questo: pensate a un ragazzo sulla soglia della vita, con tutte le speranze, l’entusiasmo, la gioia di vivere, l’ingenuità, l’umorismo e i desideri di un giovane uomo. Così era Uri e così erano migliaia di israeliani, palestinesi, libanesi, siriani, giordani ed egiziani che hanno perso, e continuano a perdere, la vita in questo conflitto.
Al termine della settimana del lutto ho ripreso a scrivere.
Quando a un uomo capita una tragedia una delle sensazioni più forti che prova è quella di essere esiliato da tutto ciò in cui credeva, di cui era certo, dalla storia di tutta la sua vita. All’improvviso niente è più scontato.
Per me, tornare a scrivere dopo la tragedia è stato un atto istintivo. Avevo la sensazione che così facendo avrei potuto, in un certo senso, tornare dall’esilio.
Ho ripreso a scrivere. Sono tornato alla storia che, stranamente, era uno dei pochi luoghi della mia vita che ancora potevo capire. Mi sono seduto alla scrivania e ho cominciato a riannodare i fili lacerati della trama. Dopo qualche settimana ho sentito per la prima volta, con un certo stupore, il piacere di scrivere. Mi sono ritrovato a cercare per ore una parola che descrivesse con esattezza un preciso sentimento. Mi sono reso conto di non potermi accontentare di un termine che non rispecchiasse fedelmente quel sentimento. A tratti mi stupivo che qualcosa di tanto piccolo accentrasse a tal punto la mia attenzione quando il mondo intorno a me era crollato. Ma non appena trovavo la parola giusta avvertivo una soddisfazione che pensavo non avrei più provato in vita mia: quella di fare qualcosa come si deve in un mondo tanto caotico. Talvolta mi sentivo come chi, dopo un terremoto, esce dalle macerie di casa, si guarda intorno, e comincia a impilare un mattone sull’altro.
E mentre scrivevo a poco a poco riaffiorava in me il piacere di immaginare, di inventare, lo stimolo del gioco e della scoperta che palpitano in ogni creazione. Inventavo personaggi, soffiavo in loro la vita, il calore e la fantasia che non credevo più ci fossero in me. Davo loro una realtà, una quotidianità. Ritrovavo dentro di me il desiderio di toccare tutte le sfumature di un sentimento, di una situazione, di un rapporto. E non temevo il dolore che talvolta questo contatto provoca. Riscoprivo che scrivere è per me il miglior modo di combattere l’arbitrarietà – qualsiasi arbitrarietà – e la sensazione di essere una vittima impotente dinanzi a essa. E ho imparato che in certe situazioni l’unica libertà che un uomo ha è quella di descrivere con parole sue il proprio destino. Talvolta questo è un modo per non essere più una vittima.
E questo è vero sia per il singolo che per le comunità, i popoli. Mi auguro che il mio paese, Israele, trovi la forza di riscrivere la sua storia. Di porsi in maniera nuova e coraggiosa dinanzi al suo tragico passato e ricrearsi da esso. Mi auguro che tutti noi troveremo la forza necessaria per distinguere i veri pericoli dai potenti echi delle sciagure e delle tragedie che ci hanno colpito in passato, per non essere più vittime dei nostri nemici o delle nostre angosce e per arrivare, finalmente, a casa.
Grazie e shalom
(Traduzione di Alessandra Shomroni)