BIBLIOGRAFIA DISARMATA: MANLIO CANCOGNI E LA CAPITALE CORROTTA-NAZIONE INFETTA

Manlio Cancogni (1916-2015). Le parole possono essere più efficaci di un’arma? No, risponderanno in molti, e forse molti altri risponderanno sì. Questi sono giorni di fuoco, fuoco vero, dove molte zone di Roma vanno in fumo e anche le bancarelle di libri usati: il che, per molti, sarà poco significativo, ma quando i libri bruciano, come sono bruciati quelli della Pecora elettrica, la libreria nello stesso quartiere in cui si è sviluppato l’incendio di sabato, qualcosa luccica in fondo al cuore,  che sia significativo o meno.
Dunque, mi torna in mente un giornalista e scrittore che nel Novecento provò a usare le parole per cercare qualcosa che gli era caro, la verità. Manlio Cancogni firmò uno degli articoli che hanno fatto la storia di questo paese:  uscì sull’Espresso dell’11 dicembre 1955, a pagina 3, con il titolo “Quattrocento miliardi”. Il titolo in copertina era “Capitale corrotta=nazione infetta”. Lo trovate qui. Parlava di speculazione edilizia. Così:

“La procedura è sempre la stessa. Una ditta affiliata a Vaselli, per esempio mettiamo alla Società Palazzine Valadier, costruisce un piccolo blocco di abitazioni all’estremo di un terreno di cui il conte è proprietario; un’altra società, non meno fittizia, fa analogo lavoro all’altra estremità. Di colpo l’area che si trova in mezzo alle due zone costruite sale di valore. La città si estende da quella parte. Le grandi ditte costruttrici allora vendono e lasciano costruire alle piccole.Con questi metodi, sollecitati dalla speculazione sulle aree, l’edilizia romana non ha cessato di svilupparsi. Dai 26.673 vani costruiti nel ’50 si è passati ai 41.881 del ’52 e ai 75.127 del ’54. La media annua in questo periodo è stata di 46.762. la più alta in tutta Italia. Sono alloggi i cui fitti vanno da un minimo di 30-35.000 lire per appartamenti di tre vani dove la fabbricazione ha carattere intensivo, a massimi che toccano le 100.000 nelle palazzine o nei villini delle zone favorite. Abbiamo detto l’edilizia romana, ma avremmo dovuto precisare: l’edilizia romana privata. La situazione di quella pubblica infatti è molto meno brillante.

In sette anni l’Ina-Case che dovrebbe assicurare ai meno abbienti fitti economici mai superiori alle 10.000 lire al mese ha allestito soltanto 6300 alloggi pari a 31.110 vani. L’Istituto Case Popolari non ha nemmeno raggiunto queste cifre. E tuttavia è proprio in questo campo che la richiesta è enorme. Vi sono nella città 66.467 alloggi con un indice di affollamento superiore alle due persone per vano. Vi vive il trenta per cento della popolazione. In 25.000 alloggi l’affollamento supera le tre persone per vano. Poi ci sono le 28.000 famiglie che vivono nelle baracche, spesso in vista, come accade per il campo Parioli, delle zone di lusso dove più sfrenata è stata la speculazione sulle aree che li condanna a quella vita miserabile.

Volendo risolvere in dieci anni il problema della casa per i romani (oltre all’eliminazione delle baracche e alla riduzione dell’affollamento è necessario sostituire le case logore e provvedere alle 35.000 persone che ogni anno affluiscono nella capitale) l’ufficio statistica del Comune ha calcolato che bisognerebbe costruire 80.000 vani all’anno. L’edilizia privata è quasi arrivata, nel ’54, a questa cifra. Ma essa offre un prodotto che si rivolge a tutt’altro mercato. E, monopolizzando a suo profitto le aree, impedisce che un’edilizia economica abbia il suo naturale sviluppo.”

Leggetelo tutto, poi pensate all’oggi, poi ricordate quella famosa intervista che Pasolini rilasciò a Furio Colombo il 1 novembre 1975, a una manciata di istanti dalla sua morte, e che ripensando a questi giornimi sembra così terribilmente presente:
“La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare?
E’ come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.”

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