BIBLIOGRAFIA DISARMATA: THE SCYTHE

The Scythe (1943). C’è un racconto di Ray Bradbury che segue una strada simile a quella intrapresa da Ursula Le Guin per Omelas. Responsabilità individuale e collettiva. E fato, certamente. C’è un uomo che viaggia con la sua famiglia. Non hanno soldi, non hanno neanche più benzina. Ma c’è una casa sulla loro strada, e il cadavere di un vecchio su un letto, e una falce posata contro il muro. E un foglietto, con cui Drew Erickson, il protagonista del racconto, apprende che potrà ereditare tutto, a patto di tagliare il grano, perché in quella terra  il grano cresce in modo discontinuo, e soprattutto marcisce appena viene tagliato. In cambio, avrà casa, animali, cibo per la propria famiglia. L’uomo, dunque, falcia, e il grano ricresce, velocissimo, e marcisce, e ricresce. Ogni giorno. Infine, l’uomo capisce cosa significa falciare. Qui la parte finale del racconto. Traduzione di Renato Prinzhofer.

“Il fuoco, soddisfatto, si mise con comodo a divorare tutto.
Drew corse tutt’intorno alla casa dieci volte, solo, cercando di trovar modo d’entrare. Poi sedette dove il fuoco gli arrostiva il corpo e attese, finché le pareti non crollarono con schianti irregolari, finché non cadde l’ultimo soffitto, coprendo il suolo di calcinacci fusi e di assicelle bruciacchiate. Le fiamme morirono, si alzò il fumo soffocante e venne lentamente l’alba. Non c’era più niente, soltanto ceneri e un acre odore di fuoco sotto la cenere.
Senza curarsi del calore che sgorgava dalle travi livellate, Drew entrò fra le macerie. Il buio era ancora troppo profondo per consentirgli di vedere bene. La luce rossa mandava bagliori sulla sua gola sudata. Era come uno straniero in un paese nuovo e diverso. Qui… la cucina. I resti carbonizzati della tavola, delle sedie, la stufa di ferro, le credenze. Qui… il corridoio. Qui il soggiorno e poi, là, c’era la camera da letto dove…
Dove Molly era ancora viva.
Dormiva fra le travi cadute, i pezzi arroventati di metallo e di fil di ferro a molla.
Dormiva come se non fosse successo niente. Ai suoi lati erano posate le sue piccole mani bianche, cosparse di scintille. Il viso sereno dormiva con un’assicella fiammeggiante posata attraverso la guancia.
Drew s’arrestò, non credendo ai suoi occhi. Fra le macerie fumanti della sua camera da letto, lei giaceva su un luccicante letto di scintille con la pelle intatta, col petto che si alzava e abbassava nel respiro.
«Molly!»
Viva e addormentata dopo l’incendio, dopo che le pareti erano cadute ruggendo, dopo che i soffitti le erano crollati addosso e le fiamme avevano divampato tutt’intorno a lei. Gli fumavano le scarpe, mentre si spingeva avanti fra i mucchi di macerie fumanti. Avrebbero potuto bruciargli i piedi fino alla caviglia senza ch’egli non se n’accorgesse.
«Molly!»
Si chinò sulla moglie. Lei non si mosse né l’udì, e non parlò.
Non era morta. Non era viva. Semplicemente, giaceva circondata dal fuoco che non la toccava né le faceva alcun male. La sua camicia da notte di cotone era striata di ceneri, ma non bruciata.
I capelli bruni posavano su un guanciale di tizzoni roventi. Le toccò la guancia: era fredda, fredda in mezzo all’inferno. Le labbra semisorridenti tremolavano al respiro leggero.
C’erano anche i bambini. Egli scorse, dietro un velo di fumo, due piccole figure che dormivano acciambellate fra le ceneri.
Egli portò fuori tutt’e tre, fin sui margini del campo di grano.
«Molly. Molly, svegliati! Bambini! Bambini, svegliatevi!»
Respiravano; ma non si movevano, continuavano a dormire.
«Bambini, svegliatevi! Vostra madre è…»
Morta? No, non morta; ma…
Scrollò i bambini quasi che la colpa fosse loro. Non ci badarono: erano occupati dai loro sogni. Li rimise giù, e rimase in piedi accanto a loro, con viso segnato da profonde rughe.
Adesso sapeva perché avessero continuato a dormire in mezzo all’incendio, e dormissero ancora. Sapeva perché Molly giaceva lì e basta, senza voler mai più ridere.
Il potere del grano e della falce.
Era previsto che le loro vite terminassero ieri, 30 maggio 1938. Erano state prolungate solo perché egli si rifiutava di falciare il grano. Sarebbero dovute perire nell’incendio. Era stabilito che fosse così. Ma, poiché egli non aveva usato la falce, nulla poteva toccarle. Una casa era stata distrutta dalle fiamme, ma quegli esseri continuavano a vivere, bloccati a metà strada, non morti, non vivi. Semplicemente… aspettando. In tutto il mondo, migliaia erano come loro; vittime d’incidenti, d’incendi, di malattie, suicidi, aspettavano, dormivano come Molly e i bambini.
Incapaci di morire, incapaci di vivere. Tutto ciò, perché un uomo aveva paura di mietere la messe matura. Perché egli credeva di poter smettere di adoperare la falce, di non falciare mai più.
Abbassò gli occhi sui bambini. Il lavoro andava fatto ogni giorno e ogni giorno, senza mai arrestarsi e continuando, senza mai soste e invece mietendo, mietendo, per l’eternità.
“E va bene”, egli pensò. “E va bene. Userò la falce.”
Non disse addio alla sua famiglia. Si girò, con un’ira che cresceva lentamente, trovò la falce, si avviò a passo rapido, poi trotterellando, poi di corsa, con lunghe falcate attraverso il campo, delirante, sentendosi nelle braccia la bramosia quando il grano gli flagellava le gambe. Lo attraversava d’impeto, urlando. Si fermò.
«Molly!» gridò, e alzata la lama calò il colpo.
«Susie!» gridò. «Drew!» E calò di nuovo la lama.
Udì un grido. Non si voltò a guardare la casa distrutta dal fuoco.
Allora, singhiozzando senza freno, si levò sopra la messe e falciò ancora e ancora, a destra e a sinistra, a destra e a sinistra.
Apriva enormi squarci nel grano verde come nel grano maturo, senza scegliere, senza curarsene, bestemmiando, ancora, ancora, imprecando, ridendo e la lama si levava nel sole, ricadeva nel sole con una falciata fischiante. Giù!
Bombe recavano rovina a Londra, Mosca, Tokio.
La lama oscillava con furia mentecatta.
E si accendevano i forni di Belsen e di Buchenwald.
La lama cantava, bagnata di cremisi.
E i funghi vomitavano soli accecanti a White Sands, a Hiroshima, a Bikini, e su attraverso i cieli continentali della Siberia.
Il grano cadeva in una pioggia di lacrime.
Tremavano la Corea, l’Indocina, l’Egitto, l’India; si sommoveva l’Asia; l’Africa si destava nella notte…
E la lama continuava a sollevarsi, a piombar giù, troncando con tutto il furore e la rabbia d’un uomo che ha perduto troppo e più non si cura del bene o del male che può fare al mondo.
Tutto ciò appena a qualche chilometro dalla grande autostrada, scendendo una stradaccia a fondo naturale che non conduce in alcun luogo: appena a qualche chilometro da un’autostrada intasata dal traffico diretto in California.
Di quando in quando, a distanza di anni, un macinino esce dall’autostrada e va a fermarsi sbuffando davanti alle macerie carbonizzate d’una casetta bianca dove la strada di terra battuta finisce, per chiedere indicazioni al contadino che gli occupanti dell’auto scorgono poco lontano, quell’uomo che lavora freneticamente e senza soste, notte e giorno, nei campi sterminati di grano.
Ma da lui non si avrà né aiuto né risposta. Il contadino in mezzo al campo ha troppo da fare, nonostante che siano passati tutti questi anni; è troppo occupato ad abbattere e recidere il grano verde, anziché quello maturo.
Drew Erickson continua, va avanti con la sua falce, con la luce dei soli accecanti e uno sguardo di fuoco incandescente negli occhi che non dormono mai. E avanti, avanti.”

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