BOOKTOKER, LETTRICI E LA RANA IN SPAGNA

Ciclicamente, scoppia una polemica sulle lettrici e i social. L’ultimissima riguarda le booktoker, e mi perdonerete se non entro nel dettaglio (un poco di sconcerto me lo tengo: perché chiedere a Natalia Aspesi – da qui è partita la polemica – di parlare di booktoker significa andare a cercare proprio la polemica, perché è evidente che alla grande Natalia alcuni territori non interessano, ma pazienza).
Ancora una volta, però, approfitto per parlare dell’icona stessa della lettrice,  quanto mai gradita agli scrittori di ogni tempo, che si compiacciono della fedeltà e della passione femminile nei confronti dei libri. Perché queste benedette lettrici saranno anche strapazzate a più riprese, e da non pochi scrittori: ma senza di loro quegli stessi scrittori, come sappiamo, non venderebbero. Quindi, anche se parecchi sguardi critici si rabbuiano pensando a queste ragazzacce che secondo loro leggerebbero solo Erin Doom e se alcuni scrittori sfacciati dicono quello che molti pensano in silenzio, deprecando “le professoresse che affollano i festival”, le lettrici servono.
Esiste, insomma, una mistica della lettura femminile che viene esibita orgogliosamente per avvalorare una certa, dolciastra superiorità morale e intellettuale delle donne sugli uomini.  Che brave, le donne, che brave: leggono. Magari leggeranno me, è il pensiero sottinteso di chi inghiotte il disprezzo (non tutti, per carità, non sempre: non pochi, però).
In tutti, tutti i rapporti sulla lettura si dice che le donne leggono più degli uomini, che le ragazze leggono più dei ragazzi, le bambine più dei bambini. Non trovo nulla di confortante in questi dati. La lettura dovrebbe essere incrementata fra le donne e gli uomini. Non c’è nessun potere nell’essere Sante Lettrici nel momento in cui, quando i critici (maschi) parlano del canone dei primi vent’anni del secolo inseriscono solo una manciata di scrittrici. Possibilmente morte, eh. C’è solo uno status che fa comodo: agli scrittori, alle case editrici, solo ingannevolmente alle lettrici stesse.
“I gruppi di lettura, i reading, i resoconti delle vendite ci ripetono tutti la stessa storia: quando le donne smetteranno di leggere, il romanzo morirà” (Ian McEwan, Guardian, ottobre 2005)
Detto questo: cosa facciamo, noi lettrici, per uscire fuori da quella Mistica un tantino ipocrita quando ci rappresentiamo come tali? Perché prima di parlare di mercato editoriale e di come il medesimo abbia astutamente fatto propria la presenza delle book-instagrammer e book-blogger e book-toker, mi interessa questo. Chi diciamo di essere quando ci diciamo, e ci presentiamo come lettrici? Siamo consapevoli del gioco simbolico in cui ci infiliamo o no? Se la risposta è positiva, benissimo: ognuna è libera di agire ogni ruolo. Se la risposta è negativa, forse abbiamo un problema: ed è quel problema che ci fa fotografare un libro in circostanze estetiche confortevoli e rassicuranti, fra dolci e bevande. E non, per dire, in un barile di chiodi. Come mi scriveva una giovane e intelligente amica, “l’unico motivo per cui si fotografano i libri in un ambiente confortevole è che (ovviamente) sono più esteticamente gradevoli le tazze dei chiodi. E, soprattutto, funzionano tantissimo su Instagram. Se questo si inserisce in un simbolismo, non ne ho idea: probabile che funzionino su Instagram appunto perché richiamano un cliché. Ma il motivo principale è quello di acchiappare i like. Se un giorno il trend di Instagram puntasse sui chiodi, immagino che tutte si convertirebbero ai chiodi”.
Buffo, no? Tutti cercano le lettrici, anche se da qualche parte, nel cervello rettile di qualcuno, magari di qualche generale best-sellerista, resta l’idea che il mondo era più bello quando le donne non leggevano. Quando si deve dar corpo a un incubo, come fa ne Il racconto dell’ancella Margaret Atwood, ci si immagina che alle donne venga tolto quel che hanno conquistato nei secoli: fra le altre cose, la lettura. A Gilead le donne non leggono, e quando alcune delle Mogli, capitanate da Serena Joy, proveranno – nella serie – a rivendicare almeno il diritto di leggere i sacri testi, finirà male. Atwood ha sempre dichiarato di non aver scritto nulla che non sia già avvenuto nella nostra storia, nei secoli passati. Vero. Quando, nel 1801, il poeta e polemista Sylvain Maréchal propose di vietare la lettura alle donne in quanto perniciosa, lo fece paventando le idee contagiose e ridicole che i libri potevano instillare nei teneri cervelli delle lettrici. Una cinquantina di anni dopo, Emma Bovary sarà perduta proprio da quei romanzi sentimentali che tanto amava leggere.
Molti anni dopo, nel 2001, Mario Vargas Llosa scriverà, a parer mio sgomento, della schiacciante maggioranza (“da goleada”) delle lettrici. Fra le righe, si propone di spiegare ai non lettori uomini che la letteratura non è un passatempo, non è un abbellimento ” che si possono permettere coloro che dispongono di molto tempo libero per lo svago”. Ovvero, le donne. Come dirà Francesca Serra nel saggio Le brave ragazze non leggono romanzi, “è l’uomo che ha bisogno di una letteratura “degradata” per potersi pavoneggiare da bravo intellettuale; è il mercato che ha bisogno di una donna bulimica che divori romanzi uno dopo l’altro”.
Il mercato, esatto. Quando si affermano i blog, e poi si affermano i social, e trionfa Instagram e infine TikTok dimostra che è persino possibile recuperare alle classifiche libri pubblicati trent’anni fa, quell’idea della lettrice ornamentale, tutta sentimento e istinto e cura nei confronti degli autori, in contrapposizione a una critica che sempre meno denota curiosità e sempre meno incide, soprattutto, sulle vendite, il mercato editoriale drizza le orecchie.
All’inizio degli anni Dieci, gli editori cominciano a corteggiare le book-blogger, che sono in maggioranza giovani donne. Anche gli scrittori lo fanno,naturalmente, e continuano a farlo (esistono book-blogger che si affermano nella piccola cerchia letteraria italiana semplicemente parlando benissimo di tutti i libri. Chi può resistere?). E le book blogger, molto spesso (ma non sempre) accettano il corteggiamento, all’inizio ignare che rappresentano non  la nuova frontiera, ma l’ultima spiaggia. Significa  che nell’estrema difficoltà di ottenere recensioni e segnalazioni da carta e televisione, dato l’altissimo numero di novità pubblicate quotidianamente, si sogna (brividi, brividi!) “il passaparola della rete”. Oh bello. E chi lo fa il passaparola? I blogger. E chi sposta le vendite? I blogger.
Bene, quella gratificazione di cui le case editrici fanno mostra verso molti blog (e che va dalle copie dei libri inviate – non a tutti e non sempre – gratuitamente, a quelle messe a disposizione per i give away –che è una pratica di marketing diffusa non solo per i libri, ma per qualsiasi prodotto,  sì, prodotto, di cui i blog e gli youtuber si occupano, dai rossetti ai foulard) viene utilizzata da quasi tutte le aziende per coinvolgere quello che fino a ieri era un consumatore e oggi, gli vien detto, è parte attiva nel processo. Per quanto riguarda i book blogger,  si usano le loro recensioni per gli strilli di copertina, e si saluta con democratica compiacenza il loro ingresso tra i votanti dello Strega: in quanto blogger, naturalmente.  Poco conta che  i book blog non spostino davvero le vendite: in Italia, checché se ne dica, i market movers sono ancora Che tempo che fa, o qualunque programma di prima serata che accolga un libro, e il Premio Strega, piaccia o meno. E in Italia, oggi, si vende poco, pochissimo, anche in questo caso checché se ne dica e vi dicano.
Lo stesso discorso vale per Instagram e, con forza maggiore, per TikTok. Le booktoker vengono corteggiate da quotidiani, inserti culturali, festival letterari, promettendo visibilità e tenendo però (parlo di editori quotidiani eccetera) il coltello, dal punto di vista economico, dalla parte del manico.
La cosa bella è che, almeno da quel che vedo, le booktoker se ne infischiano. Continuano a parlare dei libri che le interessano, e non importa se si tratti di Madeline Miller o di Donna Tartt (oddio, donne: paura, eh?), perché è una balla gigante il fatto che leggano “romance”, a meno di non definire “romance” pure l’Odissea, quella vera, non la sua rielaborazione.
In poche parole, le lettrici che agiscono sui social sono e devono  restare libere di scrivere di quel che desiderano e fotografare i libri che vogliono e fare video su qualsivoglia romanzo. Il problema è a monte, ed è nel disperato tentativo di renderle tutte  fra loro omogenee ed etichettabili nella definizione di consumatrici: di pagine come di margarina  o tettarelle per l’allattamento, in caso di account che si occupano di cibo o maternità. La questione delle book influencer  non può essere trattata come caso a parte: rientra nel complesso delle strategie promozionali che riguardano il web, laddove si insiste fino allo sfinimento sul concetto del “tu non consumi, tu crei”. E dove, fino allo sfinimento, si vorrebbe uniformare l’idea delle booktoker come lettrici spontanee, istintive, calde quanto la critica ufficiale (maschile in grandissima parte) è, o si pone come chirurgica e consapevole.
E’ vero? No.
Quanto a coloro che le corteggiano sperando in una recensione, anche qui la faccenda è vecchia: molta critica maschile non rinuncia all’antico piacere che provò Henry Higgins nell’insegnare a Eliza Doolittle a intonare a perfezione “La rana in Spagna gracida in campagna” (era My Fair Lady, da Pigmalione, naturalmente). E’ brava, è merito mio.
Ricapitolando. Da una parte, le lettrici non amatissime ma utili, anche quando si fanno comunicatrici sui social portando soffi tiepidi di speranza agli editori. Dall’altra, le scrittrici che nei canoni non entrano, anche quando il loro valore viene premiato: perché, forse forse, resta il sospetto di eccessivo sentimentalismo nei loro testi, anche quando sono affilati e formalmente imprevedibili.
Perché il discorso fatto fin qui dovrebbe avervi fatto intuire dove voglio arrivare: come si è detto, esiste un immaginario che riguarda, ancora oggi, le lettrici e le scrittrici. Quell’immaginario si plasma (ancora oggi, di nuovo) su un’idea che ritiene entrambe piacevoli, sentimentali, confortanti, rilassanti, utili nel primo caso e, in un modo diverso, nel secondo (oh, invitiamo una scrittrice donna altrimenti pare brutto, oh, assegniamo un premio letterario “nell’era del metoo”, così siamo in tendenza).
Naturalmente non è sempre così, naturalmente esistono le eccezioni, esistono i critici attenti che leggono  le autrici (quelle che già non conoscono, intendo), esistono molte  book influencer che studiano il testo che recensiscono più del set fotografico, e che prima o poi, a seconda dell’umore e del proprio divertimento, cambieranno anche quel set, scegliendo i barili di chiodi di cui si parlava all’inizio, o una mortadella, o una confezione di analgesici invece delle marmellate e delle posate d’argento o recensendo McCarthy insieme ad Hanya Yanagihara.
Quel che voglio dire, insomma, è che forse, nonostante tutto, incasellare le lettrici non è più così semplice, grazie alla Dea.

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