Non sono parole mie, ma le sposo. Dunque:
“”Buonismo”. Secondo lo Zingarelli indica un “atteggiamento bonario e tollerante che ripudia i toni aspri del linguaggio politico”. Ma, sarà per il rapido successo che ha avuto – è nel vocabolario solo dal 1995 – “buonismo” ha progressivamente assunto un significato diverso, sempre meno “buonista”. Nel linguaggio del centrodestra è diventato sinonimo di pappamolle.
L’accusa di “buonismo”, infatti, è temuta. Lo dimostra l’uso preventivo che di questo termine viene fatto nel centrosinistra. Interessante, in proposito, una dichiarazione (Agenzia “Dire”, 3 gennaio) dall’assessore alle Pari opportunità di Reggio Emilia che, nell’annunciare il passaggio dal forfait al contatore nel computo della spesa elettrica dei campi nomadi, ha tenuto a chiarire di aver agito “in base a una logica di inclusione” e non “in base a una logica buonista”.
Il “buonismo” senza specificazioni è una rarità. Le primarie del partito democratico hanno spinto in vetta alle classifiche il “buonismo veltroniano” (che, non è difficile prevederlo, nella prossima campagna elettorale sarà uno dei tormentoni del centrodestra in tema di sicurezza pubblica). Ma il luogo privilegiato delle accuse di “buonismo” è il tema dei diritti degli immigrati.
Incrociando “buonismo” con “Bertolini” nelle agenzie di stampa dell’ultimo mese, si ottengono ben quindici documenti e, se si ripete la stessa ricerca su Google, si raggiunge la ragguardevole cifra di 1540 pagine. Isabella Bertolini, vicepresidente dei deputati di Forza Italia, utilizza il “buonismo” come il prezzemolo. Nelle ultime tre settimane ha ammonito il ministro della salute Livia Turco ad abbandonare il “solito buonismo irresponsabile”, ha denunciato il “buonismo della sinistra radicale” e il “buonismo accattone” del governo che contestava il provvedimento del sindaco di Milano Mary Poppins Moratti per l’epurazione dei figli degli immigrati irregolari dagli asili. Nell’ultimo caso, la Bertolini ha trascurato il fatto che il “buonismo” promana dalla Costituzione della Repubblica e dalla Convenzione sui diritti del fanciullo.
“Ogni tempo ha il suo fascismo”, diceva Primo Levi, avvertendo che i nuovi fascismi si diffondono “in modi sottili”. “Basta col buonismo” è il nuovo manganello col quale si menano i richiami alle norme costituzionali e anche all’umana pietà. E’, in fondo, la sostituzione del “me ne frego” (dichiarazione che almeno richiamava la propria responsabilità personale) col “perché non te ne freghi, babbeo?” E’ il nuovo olio di ricino dello squadrismo mediatico shakerato con un po’ di analfabetismo civile.
E’ il momento – prima che l’accusa di “buonismo” si estenda a chi conduce gli interrogatori senza applicare gli elettrodi ai testicoli del teste – di ricondurre l’aggettivo all’originario ambito definito dallo Zingarelli e rispondere per le rime a chi associa il “buonismo” alla semplice rivendicazione dei diritti fondamentali.
Magari ricordando come è stata ottenuta l’affermazione di quei diritti. E spiegando che, se sono “buonisti” i risultati, devono essere considerati tali anche gli autori: i famosi “buonisti della Resistenza”. O magari tornare anche più indietro, ai “buonisti” della Rivoluzione francese. O ricordare certi atti feroci compiuti per cacciare via dall’Italia chi negava quei diritti. Per esempio, a Roma, nel 1944, da Rosario Bentivegna e Carla Capponi, i noti “buonisti” di via Rasella. In definitiva – per usare un linguaggio che certamente ai “non buonisti” risulterà più chiaro del “culturame” costituzionalista – cominciare sempre a ricordare, ogni volta che se ne ha occasione, che anche i “buonisti”, a volte, nel loro piccolo, si incazzano.”
Non sono parole mie, dicevo. Le ha scritte Giovanni Maria Bellu nel 2008, ma tornano tragicamente attuali, ammesso che abbiano smesso di esserlo negli ultimi otto anni. All’accusa di buonismo se ne possono aggiungere altre tre: politicamente corretti, benaltristi, ideologici. In sequenza, non hanno significato alcuno, se non quello del tentativo di annichilire l’interlocutore costringendolo in una casella data.
Buonista. Dunque cieco, dunque appartenente a una solerte schiera di signore d’età che, durante la riunione del circolo di lettura, atteggiano la boccuccia a cuore compatendo i poveri immigrati e sorseggiando tè alla cannella. L’immagine non è mia, è la summa di decine di vignette e commenti non solo degli ultimi dieci giorni, quando l’affaire Colonia ha fatto esplodere paure trasformandole in divisioni, ha appannato lucidità e fomentato isteria. Non riesco a usare altri termini, anche se potreste trovarli ingenerosi e altrettanto spregiativi. Ma cosa devo pensare, quando parte dei femminismi si scanna pubblicamente su Facebook, e sullo stesso luogo acuti studiosi si lasciano andare ad anatemi contro il buonismo, appunto, e se ti opponi, banalmente, ti cancellano, o bannano, in quella follia da social che ci congela in una rumorosissima solitudine?
(In proposito, nell’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco, c’è una frase da imparare a memoria: “Non saranno le guerre di religione o la lotta di classe a far saltare in aria tutto, ma la meningite elettronica, l’irritabilità costante in cui sono immersi tutti quanti”).
Provo allora a ricordare il contesto di quel 2008. Pochi mesi prima, Giovanna Reggiani venne uccisa a Roma da un muratore rumeno. Scattò quella che in un appello, Il triangolo nero, definimmo “criminalizzazione di massa”.
Buonisti, fu la risposta, in molti casi. Ma in molti altri no.
E oggi, mi chiedo, un appello così sarebbe possibile? O non sarebbero maggiori le reazioni di chi scambia per buonismo/benaltrismo/politicamente corretto/ideologia la banalissima difesa dei diritti? O forse, in tempi in cui i diritti degli altri non ci interessano e al massimo ci si muove per quelli che ci toccano da molto vicino, cadrebbe semplicemente nel vuoto?
(Io lo rifarei, comunque. Lo rifaccio, lo rifacciamo, perché altro non c’è da fare, a meno di non voler morire dentro, e di non trascinarci da uno sdegno all’altro, da uno status all’altro, fino a consumarci).
A proposito degli antecedenti storici del termine “buonismo”, è d’obbligo la citazione di un articolo di Silvana Calvo, che ne traccia la diretta discendenza dall’analoga nozione di “pietismo” invalsa nella pubblicistica del ventennio.
I fascisti usavano la parola “pietismo” non nel senso proprio (movimento di riforma religiosa formatosi in ambito protestante nel sec. XVII), bensì in un significato che è, di fatto, sovrapponibile all’attuale concetto di “buonismo”.
Questo l’articolo:
http://www.hakeillah.com/1_14_11.htm
Grazie, semplicemente grazie
E’ da giorni che rimuginavo sullo stesso tema, ma non avevo trovato parole adeguate nemmeno per spiegarlo a me stesso.
Ora queste parole ci sono, e vedrò di usarle il più possibile.
In occasione della promulgazione delle leggi razziali mussolini conio` lo slogan “Discriminare non vuol dire perseguitare”, a dimostrazione del fatto che i fascisti non scherzano quando si tratta di giocare con le parole(ricordato questo vorrei che i media cripto-nazi la piantassero di far passare il messaggio per cui le persone di sinistra considerano reati di poco conto, anzi quasi auspicabili in virtu` di una comprensione bonaria,il furto e le rapine negli appartamenti, invisi invece alle “persone perbene”)