C’è stata, tanto per cambiare, una polemica il giorno dopo l’assegnazione del premio Campiello (ad “Alma” di Federica Manzon), e la polemica medesima, su cui non entrerò qui in dettaglio, o non subito, mi suggerisce una serie di considerazioni certamente non nuove né originali, ma altrettanto certamente prese molto poco sul serio da una parte di chi legge, scrive, fa critica, e una parte di quella parte purtroppo si aggrappa alla battuta, all’hashtag ripetuto fino allo sfinimento, all’irrisione. Non mi soffermerò su questo. Né, almeno per oggi, sull’antica questione, decine di volte affrontata qui, secondo la quale il riconoscimento dell’autorevolezza delle scrittrici crea problemi e spesso putiferi. Ci arrivo.
Per ora, vorrei partire dai luoghi che, con non frequenti eccezioni, molta critica letteraria disdegna. Uno dei più intelligenti e colti critici e traduttori di letteratura fantastica, Edoardo Rialti, ha pubblicato su Minima&Moralia la sua lectio tenuta domenica a Fantastika, dove ha ricevuto il drago d’oro per la sua attività di traduttore. Se alle parole Fantastika e drago alcuni si sentiranno male, il problema è tutto loro, e resta significativo. Scrive dunque Rialti:
“Ricordate la scena d’apertura del Tonio Kroger di Mann, col protagonista alle medie che racconta all’amico Hans lo scuotimento che lo ha preso dentro nel leggere il Don Carlos di Schiller. “Ci sono momenti così esaltanti, dovresti vedere” gli dice e prova a rievocare con parole sue la scena del pianto del re, come potesse fargliela accadere lì davanti …Lo facciamo tutti, in continuazione. Vogliamo rivestirci di ciò che amiamo, come esso ci ha attraversati, così vogliamo che esso continui a fare, a passare attraverso di noi, mescolato al ritmo del nostro fiato, alla cadenza della voce, ai gesti che ci suscita. Cosa sono i cosplayer se non l’eco del loro grande santo patrono, Don Chisciotte, il lettore che forse ha preso più seriamente di chiunque altro ciò che leggeva e si è mosso nel mondo cercando quanto trovato sulla pagina? La sua è una nostalgia attiva che si fa gesto, immedesimazione, ricerca del mondo secondario in quello primario, sotto il cielo comune a tutti. Tutti noi lettori di storie siamo dunque traduttori, conduttori di questa tensione elettrica”.
Ora, temo che la questione riguardi proprio la categoria “lettori di storie”, che da qualche anno a questa parte vengono declassati a lettori ingenui e di bocca buona, quelli (e quelle, soprattutto) che mandano in classifica o incoronano testi che letterariamente e soprattutto linguisticamente sono poveri, volutamente facili per compiacere chi legge. Non sono certa che sia così. Missitalia di Claudia Durastanti, per fare un esempio, è un romanzo di storie e non è in alcun modo facile e ne cito solo uno, per ora. Di contro, come notava con intelligenza una commentatrice sull’altrettanto intelligente post di Helena Janeczek, non è vero che ci sia un immaginario romanzesco femminile che sta sostituendo quello maschile, come scrive oggi Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera. E’ vero invece che ci sono sempre più scrittrici che raccontano storie, e storie che riguardano il mondo, e sempre più scrittori che raccontano se stessi. In sé, non è un bene e non è un male: è un fatto, e ci sono libri meravigliosi fra quelli maschili e intimisti e libri mediocri fra quelli femminili che raccontano storie, come è normale che sia. Ma forse questo fornisce una spiegazione diversa del successo delle autrici rispetto alla litania “si premia una donna perché è politicamente corretto” o “si premia una donna perché affronta un tema alla moda o gradito alla vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia”. Le virgolette non si riferiscono a un particolare intervento ma alla summa di una serie di interventi, nessuno si offenda.
Semmai, io trovo un po’ noiosa, più che offensiva, questa dicotomia fra etica a estetica. Jean Paul Sartre, ai tempi, preferiva ricordare che “lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato”. Ed esistono gli scrittori e le scrittrici che affrontano magistralmente l’implicazione scrivendo libri perfetti esteticamente. Per me, come ho detto domenica scorsa a Dozza ricevendo il mio drago, una di quelle scrittrici è Ursula K. Le Guin, che forse molti di coloro che giudicano non hanno letto, anche se è riuscita a suscitare ammirazione persino in Harold Bloom, che non è mai stato tenero.
Dunque? Dunque per ora mi fermo qui, sperando che la discussione prenda una piega diversa dall’accusa di semplificazione, o peggio di essere tutte Sintara Golden (lo scrivo io prima che piombino altri), stereotipo della scrittrice politicamente corretta e dunque di successo raccontata in American Fiction. Le cose sono molto più complicate di quanto non si creda: gli stessi lettori e lettrici non sono più classificabili in ingenui e avvertitissimi, sono una miscellanea di nicchie, in un paese dove leggere è una nicchia. Far loro torto, e ripetere che non capiscono la vera bellezza (sottotesto) non porta, temo, da nessuna parte.
Ci torno, come è ovvio.