A proposito di impegno e letteratura. Chiunque abbia letto i giornali, o l’equivalente, in questi giorni, sa perfettamente che ci troviamo in un punto tragicamente critico della nostra storia, e che si torna (ma si è mai smesso?) a parlare di nucleare. Ora, nel tempo, gli scrittori e le scrittrici ne hanno a loro volta parlato.
In ordine sparso.
Paria dei cieli di Isaac Asimov. Cronache del dopobomba di Philip K. Dick. Metro 2033 di Dmitry Gluchowsky. Ken il Guerriero di Tetsuo Hara. Ferragosto di morte, Il superstite, Il mondo senza nessuno di Carlo Cassola. Angela Carter, I buoni e i cattivi. Per quel che riguarda King, almeno Pomeriggio del diploma (in Al crepuscolo) e Tuono estivo (in Il bazar dei brutti sogni).
Lascio fuori decine di romanzi, film, manga, fumetti che chi è nato negli anni Cinquanta ha visto, letto, meditato. Eravamo i bambini nati e cresciuti con lo spauracchio della Bomba. Come scrive proprio King in Danse macabre:
“La «cosa» è il primo film degli anni Cinquanta a mostrarci lo scienziato nel ruolo del Pacificatore, quella creatura che per ragioni vili o malintese aprirebbe le porte del Giardino dell’Eden e lascerebbe entrare tutti i mali (all’opposto per così dire di quegli Scienziati Pazzi degli anni Trenta che morivano dalla voglia di aprire il vaso di Pandora e lasciar uscire tutti i demoni: è una differenza significativa, ma alla fine i risultati sono gli stessi). Il fatto che gli scienziati fossero costantemente denigrati nei film di horror tecnologico degli anni Cinquanta (un decennio in cui sembrava che interi eserciti di uomini e donne in camice bianco dovessero essere messi alla porta) non deve sorprenderci se ricordiamo che fu proprio la scienza a consentire che la bomba atomica arrivasse nel Giardino dell’Eden, prima come tale, poi come arma da montare sui missili. L’uomo e la donna medi, in quegli spettrali otto o nove anni che seguirono la resa del Giappone, avevano sentimenti schizoidi nei confronti della scienza e degli scienziati: riconoscevano di averne bisogno ma allo stesso tempo odiavano le cose da loro create. Da una parte c’era il loro amico, quel ragazzino pulito e attivo, Reddy Kilowatt; dall’altra, poco prima di vedere La «cosa», veniva proiettato un cinegiornale dell’esercito che mostrava una cittadina proprio come la nostra che veniva vaporizzata da un’esplosione nucleare”.
Alle elementari ci raccontavano la storia di Sadako, che aveva due anni quando la Bomba colpì Hiroshima e che provò a non morire di leucemia realizzando mille origami a forma di gru (ma non ci riuscì). Quando siamo diventati giovani donne e giovani uomini ci dissero che non potevamo bere latte, mangiare insalata, sdraiarci sui prati perché era esplosa una centrale nucleare a Chernobyl.
Abbiamo dimenticato.
E ancora.
Alberto Moravia. Che fu uno dei protagonisti degli anni in cui il pacifismo si ampliava, diveniva una possibilità concreta. Anni che sono culminati in quel 2003 quando in tutto il mondo si svolsero le grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq – 110 milioni in piazza in oltre 600 città – e il New York Times titolò a tutta pagina che il movimento pacifista era «la seconda potenza mondiale». Chissà ora.
Ma torniamo a Moravia. Che inizia a scrivere contro la guerra e contro la bomba atomica dopo il viaggio del 1982 in Giappone e la visita a Hiroshima: ne nasceranno tre inchieste per L’Espresso e infine il saggio L’inverno nucleare.
Di più. Quando venne eletto europarlamentare indipendente nelle liste del Pci (era il 1984), Moravia cercò subito una via politica per battersi contro l’atomica. Così scrisse (ed era il 9 settembre 1984):
«Consulto il libro dei trattati europei per cercare qualche cosa che riguardi il pericolo atomico, per scongiurare il quale mi sono candidato al Parlamento Europeo. Ma l’atomo almeno in questo libro, è visto soltanto come fonte pacifica di energia. Tuttavia è anche vero che esiste una commissione per la protezione dell’ambiente, che è dopo tutto, qualche cosa che sfiora il pericolo atomico, perché subito dopo la minaccia nucleare, viene quella ecologica. Anzi la minaccia ecologica è già in atto; la fine della Terra è già cominciata…».
Nel 1986 esce, appunto, L’inverno nucleare, dove Moravia insiste a lungo sulla necessità di evitare “il suicidio dell’umanità”. “Sono uno scrittore”, diceva, “e mi è sembrato naturale servirmi della scrittura per combattere una guerra di liberazione dalla guerra”.
La guerra, aggiungeva, doveva diventare un tabù, come l’incesto: “Basta con l’epica del dolore e con il fascino della guerra. E’ comodo d’altro canto abituarsi alla guerra senza morti vicino, senza spari intorno, senza bombardamenti sopra di noi. Ma ciò che fa più paura non è tanto la teoria della guerra, bensì l’ideologia della guerra”. E ancora: “La bomba atomica non è stato un incidente di percorso della nostra civiltà. In realtà ne è parte integrante. È giunto il momento che gli uomini prendano coscienza di quanto i conflitti possano essere inutili e distruttivi e della necessità di bandire la guerra dalle attività del genere umano. È necessario, per la salvaguardia della vita, creare il tabù della guerra. Come da sempre esistono altri tabù, che ci difendono dal caos e dall’autodistruzione, si potrebbe instaurare tra gli uomini questa nuova convenzione sociale”.
“Qualcuno di noi a quel tempo chiamò Carlo Cassola una Liala del 1963. Fu una battuta provocata da qualche osservazione di un giornalista. E ricordo abbastanza bene le circostanze nelle quali fu fatta cadere, se non sbaglio da Edoardo Sanguineti. Eravamo nella platea di un teatro a Palermo, durante le prove di uno spettacolo che sarebbe andato in scena nel corso della Settimana musicale. Proprio la Settimana in cui fece clamorosa apparizione il Gruppo 63. Eravamo lì per questo, e tutte le provocazioni erano buone. Non ricordo esattamente, invece, se qualcuno tirò fuori il nome di Bassani e se la battuta fu quindi corretta in Cassola e Bassani sono le Liale del 1963. Fatto sta che andarono in giro, da allora in poi, entrambe le versioni. Bassani si adirò, e non aveva tutti i torti. Quanto a Cassola, non ho mai saputo niente di sue reazioni in pubblico. Quello che posso dire è che la poetica di Cassola non interessava minimamente gli scrittori del Gruppo 63. Ciò che infastidiva era, a quel tempo, la critica belante, la quale voleva far passare Cassola a viva forza per grande scrittore e maestro di non so che stile (forse lo stile asciutto e dimesso, parola che ricorre anche nelle enciclopedie, puntualmente, alla voce Cassola Carlo). Di fronte alla critica belante, forzando anche noi i toni, non era male opporre che Cassola era un autore di Romanzi Rosa. Quella crudele battuta è stata tante volte riesumata, spesso per pura malignità, che si è quasi perduto il senso della verità che conteneva. Ne feci una desolata verifica nel 1976, quando uscì L’ antagonista e ne parlai in queste pagine. Cassola avrebbe voluto disinfestare il romanzo, purgarlo di tutto ciò che è bassamente romanzesco: l’ intreccio, le idee, le connotazioni sociologiche e storiche, le impurità del linguaggio, le situazioni definibili. Avrebbe voluto scrivere un romanzo puramente poetico. Ma il puramente poetico, se mai è esistito, oggi non lo puoi cercare più. Vagheggiarlo dimessamente colora la scrittura di rosa spento. Vorrei provare a rileggere Il taglio del bosco. Dopo tanti anni, quei racconti saranno svaniti o avranno ancora uno sfuggente bouquet?”
E comunque Cassola. Nome da partigiano, Giacomo. Antifascista. Pacifista. Nel 1976 pubblica Il gigante cieco, dove scrive dell’importanza di una rivoluzione culturale per evitare l’estinzione dell’umanità (“Io non so se certe persone influenti si siano accorte che stiamo andando verso l’abisso”). L’anno successivo fonda la Lega per il Disarmo. Nel 1978 pubblica “Il superstite”, primo romanzo della “trilogia atomica”. Protagonista un cane, Lucky, unica creatura sopravvissuta al disastro nucleare. Rizzoli rifiuta di pubblicare gli altri due libri: “Ferragosto di morte” esce nel 1980 per i tipi di Ciminiera. Protagonista è il padrone di Lucky, lo scrittore Ferruccio Fila, scampato alla catastrofe ma con solo cinque giorni di vita davanti a sé per l’effetto delle radiazioni. Il romanzo verrà accolto male. Uscirà comunque, nel 1982, il terzo capitolo della trilogia, sempre per Ciminiera: “Il mondo senza nessuno”. La terra è ormai vuota. Solo alberi, vento, mare.
In un passo de “Il gigante cieco” scrive:
“Il sonno della ragione partorisce i mostri, fu detto già in epoca romantica. Noi di mostri abbiamo una conoscenza molto più approfondita di quei nostri antenati. Fascismo, nazismo, stalinismo, la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, per fortuna sono alle nostre spalle; il nazionalismo e il militarismo purtroppo no, così che abbiamo davanti una prospettiva anche più terrificante di quelle passate: una terza guerra mondiale o una catastrofe ecologica che distrugga la vita del pianeta”.
Io sono cresciuta, peraltro, leggendo il “rosa spento” di Cassola, che è stato uno dei miei iniziatori alla lettura. Ma forse ero un’ingenua e un po’ sciocca ragazzina che non sarebbe piaciuta al gruppo 63. Pazienza.