CENTO, E POI MENO VENTIDUE

Su la testa: l’Italia ricomincia da te non è il centosettantottesimo partitino della sinistra: è un gruppo di pensiero, di azione e di pressione trasversale nel quale fin dalla nascita convergono persone di provenienza, età, professione e cultura diverse, il cui obiettivo comune è stato mettersi insieme per non rassegnarsi – appunto – né all’astensione né all’eterno ricatto del ‘meno peggio’.
Nessuna delle oltre cento persone che hanno dato vita a Su la testa: l’Italia ricomincia da te ricopre o ha mai ricoperto ruoli politici di rilievo: la grandissima maggioranza, anzi, non è mai stata iscritta a nessun partito e ha votato «un po’ dappertutto» a sinistra. Molti invece hanno già “fatto politica” indirettamente: nelle associazioni, nei quartieri, nei movimenti, attraverso la Rete o in altri modi.”
Sono una dei cento: se volete saperne di più, qui c’è il sito. Con molto, molto altro.
A proposito di “altro”.  Sabato sono stata alla Bibliofest di Napoli.  Dove, oltre ad aver ascoltato bellissime riflessioni su lettura e biblioteche, ho anche appreso che Napoli medesima è a meno ventidue. Ventidue librerie chiuse in tempi recentissimi (e, se non sbaglio, c’è anche la chiusura FNAC imminente). Insisto su un punto: se la cultura non viene messa al centro dei programmi politici, non se ne esce. Fissazione? Anche. Per fortuna ho conosciuto un bel po’ di fissati.Per esempio, ecco cosa ha scritto Diego Guida, storico libraio ed editore napoletano, presente alla Bibliofest, per l’edizione napoletana di Repubblica:
“Comprare  e leggere libri non sembra essere una priorità per gli italiani. L’editoria ed il mercato editoriale stanno vivendo una profonda fase di trasformazione, in cui la parola crisi risuona oramai a chiare lettere sia dal punto di vista commerciale che culturale. Eh, sì, perché quando si parla di libri e di editoria, bisognerebbe innanzitutto avere chiaro in testa che si parla di un settore strategico su cui investire e non di un qualcosa di immateriale che è destinato solo ai pochi interessati.eggere, certamente è un’attività personale, individuale; editare e pubblicare è invece un comparto industriale tramite cui esercitare attività d’impresa. Sono questi gli attori di un mondo assai particolare in cui ci si scambiano modi di pensare, di interpretare la realtà, “spazi” in cui è possibile costruirsi un percorso di vita, sperare, sognare, confrontarsi su idee e progetti, condividere ideali e prospettive. Qualunque sia il modo con cui ci si contatta, con un libro di carta, così come attraverso un e-book.
Un mondo, comunque, assai diverso da tanti altri, proprio perché raggiunge l’animo di chi legge ed esprime il bisogno di chi scrive, un ambito da cui non bisogna affatto rifuggire, anzi dove è necessario ed indispensabile investire ed impegnarsi anche per costruire un modello anche adeguato ai nuovi strumenti di comunicazione.
Cosa ci accade intorno, invece? Che da qualche tempo il mondo del libro è divenuto il settore, il “luogo” su cui abbattere la scure dei tagli ai bilanci in nome della più sfrenata spending review: e ciò è riscontrabile dai bilanci delle stesse imprese editoriali, da quelli degli enti pubblici e dei loro impegni politici e finanziari, fino alle priorità del lettore non assiduo che di comprare libri, soprattutto in questi tempi di crisi, non pensa proprio più.
Eppure, se anche solo banalmente volessimo riprendere la descrizione di editoria della prestigiosa Enciclopedia Treccani, leggiamo: «Industria che ha per oggetto la pubblicazione e la diffusione di libri, periodici e in genere di opere a stampa… In senso moderno l’editoria nacque all’inizio dell’800 con l’applicazione dei metodi industriali alla produzione e alla commercializzazione su larga scala delle opere a stampa», delle opere del pensiero, dunque.
Vogliamo, pertanto, provare a riprendere il filo del discorso? Di cosa parliamo quando discutiamo di pubblicare libri, se non di un’attività per promuovere cultura, suggerire il cambiamento, orientare i gusti e le tendenze di una o più generazioni?
Cosa ha infatti rappresentato per la crescita umana, sociale e culturale di ciascuno di noi la lettura di libri come “On the road” di Jack Kerouac, oppure “Le memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, ma anche dell’ancora attualissimo “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, solo per citare tre opere che hanno rappresentato altrettanti modi e stili di vita, quello della generazione dei figli dei fiori, quella sfarzosa di un imperatore romano aperto comunque al cambiamento e uno spaccato della vita politica italiana ancora fin troppo moderno?
Non condivo l’idea di chi ritiene che tra le cose che mancano a Napoli l’editoria sia l’ultima in ordine di importanza e di necessità. Niente affatto: è proprio partendo da un “luogo” presso cui poter immaginare di raccogliere un cenacolo di pensatori per lo sviluppo del nostro territorio, così come della nostra intera nazione, che si potrà sperare di trovare un percorso virtuoso su cui poter investire. Investire, certo, sia in termini economico-finanziari che in termini di impegno e risorse intellettuali.
Che anche il mondo del libro sia lo specchio della depressione di questi tempi, è cosa banale da ricordarsi. Ben sappiamo che mancano investimenti ed impegni. Cionostante, basta navigare semplicemente sulla rete web che si viene soffocati da offerte di scuole di formazione, da master di editoria, così come da proposte di diplomi e specializzazioni in editing e writing; certamente se c’è offerta, ci sarà anche una domanda, è una legge del mercato.
Ma dove andranno a collocarsi professionalmente tutti questi studenti che pagano, e generalmente anche non poco, finanche per “imparare” questo mestiere? Allora, va tutto ripensato, dal lavoro dell’editore a quello del venditore di libri, del libraio: è a questi professionisti che lo stesso mercato, in tempo di crisi, richiede una diversa professionalità ed offerta.
I dati snocciolati in questi giorni in cui si tiene la Fiera del libro di Francoforte ci confermano che nei primi cinque mesi del 2012 il numero di titoli pubblicati e immessi nel mercato è inferiore del 9,1%, rispetto allo stesso periodo del 2011: si è passati da 29.900 a poco più di 27.000; il mercato del libro nel 2011 ha registrato un — 3,7% nel giro d’affari (secondo i dati Nielsen, canali trade), e nei primi nove mesi del 2012 peggiora ulteriormente e ottiene un — 8,7%.
Cosa significa? Che le imprese editoriali, da sole, non possono immaginarsi di continuare a lavorare allo stesso modo di sempre, che a loro tocca tenere un occhio puntato ai conti di cassa, ma significa anche che questi stessi editori devono continuare a tenere in buon conto, soprattutto, che la vera “materia prima” per questo tipo di attività restano gli autori, gli unici fautori dell’affermazione di un diverso e nuovo modo di pensare, per una diversa modalità di diffusione del sapere e per un nuovo modello di impresa editoriale.
A questi autori, dunque, il compito di ridisegnare, in sinergia con gli editori, il nostro panorama culturale: chi raccoglierà questo appello?”

9 pensieri su “CENTO, E POI MENO VENTIDUE

  1. Purtroppo la crisi è reale e sta mietendo vittime nel campo culturale e in quello del libro. Ma la crisi economica è venuta dopo al crisi ideologica e culturale. Sono decenni che le case editrici e le grandi librerie di catene prendono decisioni basandosi solo sul profitto e sul guadagno. Oggi siamo vittime di una cattiva gestione delle risorse culturali. è vero che stiamo parlando di imprese private ma la cultura dovrebbe essere il primo interesse di chi decide di dedicarsi a questo mestiere. Ogni giorno, giuro, ogni giorno arriva qualche circolare su come gestire le cose, su come ottimizzare i tempi, su come dare risalto al libro che vende a Roma e non a Ferrara. Insomma non siamo più librai, siamo diventati macchine che assemblano vetrine, pile di best seller ecc…
    è arrivata la scure dei tagli, non si è trattato di tagli mirati, c’è stato un taglio netto che ha ridotto drasticamente le risorse. Però poi vogliono i risultati e non gli stessi degli anni precedenti, no, vogliono risultati superiori. Qua se non cambiano gli uomini al potere, che poi sono sempre gli stessi: editori, distributori, proprietari di catene… non arriveremo da nessuna parte. E sino a quando ci sarà qualcuno pronto ad imporre “l’albero merceologico” che faccia delle varie librerie una la fotocopoa dell’altra senza guardare a: struttura, forza lavoro, orientamenti culturali e sociali della città o del luogo in cui c’è la libreria, comodità del servizio ecc… non usciremo da questo pantano.

  2. Il post è interessantissimo. Vale la pena però, senza nessuna polemica, di cercare di problematizzare ulteriormente quanto scritto dall’autrice. Il problema radicale dell’editoria e del “dispositivo libro” italiano non comincia dai tagli (recenti) o dall’accantonamento/ostracizzazione della cultura (meno recente) e dalla depressione culturale che ne risulta. è un problema di modalità produttive, commerciali e intellettuali, che portano alla nascita di un libro in quanto merce e oggetto (a seconda del rispetto che si sceglie di esaminare).
    In Italia non si è mai fatto caso a creare lettori, a rendere più accessibile e funzionante quel organismo potente che può essere una massa di persone di che leggono. Per vari motivi (analisi dei quali non si può fare qui) si è sempre considerato il mercato dei libri (sia che si parli di oggetti sia che si parli merci) come un qualcosa di dato e la sfida era quella di conquistarlo, fosse per ingrandire un conto economico o per generare consenso su opinioni, concetti, popolarità, ecc.
    In questo senso mi pare problematico e non completamente corretto dire che gli autori siano “la vera materia prima” o “gli unici fautori dell’affermazione di un diverso modo di pensare” nel mondo dell’editoria. Al di là delle varie implicazioni che questo tipo di affermazione comporta (ancora una volta sarebbe off-topic) mi concentrerei su uno in particolare: chi l’ha detto che l’autore debba essere il vertice della piramide editoriale? Lo ripeto, non ho intento polemico e la precedente domanda non è retorica, ma la verticalità implicita in un discorso del genere è, secondo me, una delle ragioni che hanno alienato così tanti lettori.
    Ciò che è in discussione nell’editoria attualmente (libro cartaceo, librerie, ecc.) è proprio il modello con cui i libri vengono pensati e prodotti. In questo senso il modello di business, ovvero il modo in cui gli editori pensano di fare soldi e invece non li fanno, è (nel senso di equivale) il modello culturale secondo il quale i libri dovrebbero essere pensati, scritti, condivisi, letti e invece non lo sono. Sarebbe interessante ripensare il libro anche a partire da da queste considerazioni e non sempre cominciando il proprio discorso dalla necessità di riaffermare lo stesso modello che si vorrebbe correggere.

  3. Condivido quanto scrive Marino. Eppure da questo loop non si muove (quasi) nessuno. Anche chi, come sta avvenendo in questi giorni, sposa alcune delle proposte fatte un anno fa per arginare i danni (meno titoli, più qualità, meno adesione cieca al filone ritenuto vincente) lo sta facendo, o dice di volerlo fare, aderendo a un’idea di marketing “decrescente” e quindi ritenuto vincente. Non perché ci crede. Non perché ritiene che i libri, in qualsivoglia formato e su qualunque supporto, possano essere qualcosa di più di un prodotto. Se non altro, perché consentono di investire sul futuro, e sui lettori di domani.

  4. D’accordo con quest’ultima tua osservazione. Dunque, riprendendo i dati provenienti dalla Fiera di Francoforte, nei primi 5 mesi del 2012 sono stati immessi nel mercato 27000 tiroli, meno 9,1% rispetto all’anno precedente. Troppi! Sono una lettrice forte e con discreta capacità di navigazione nel mare magnum dei libri pubblicati ma…è impresa impegnativa cercare e trovare ciò che si cerca e che sia di buona qualità ( sono molto esigente).
    Mi dico sempre che anche il sistema dell’editoria è un sistema drogato: da una parte gruppi forti capaci di importi il bestseller del momento dall’alta parte una frammentazione di piccole e piccolissime case editrici: a proposito perchè nascono tante piccole case editrici? Pensiamo veramente che siano un segno della buona salute dell’editoria o non piuttosto la spia di un fenomeno entropico che porterà alla dissoluzione dell’editoria come l’abbiamo conosciuta nel passato?
    ciao! ( ogni tanto mi faccio viva ma ti seguo sempre)

  5. E’ molto bello il progetto cui accenni all’inizio del blog, condivido l’idea di un ricambio con persone “nuove”, anche se per ora la sinistra mi ha sempre deluso (voto da soli 8 anni)
    “in sinergia con gli editori” mi lascia sospesa, con qualche dubbio direi. Se consideriamo la catena del valore del settore editoriale devo dire che gli attuali editori assorbono troppo “costo” in relazione al “valore” che apportano all’opera di un autore. All’autore lasciano le briciole, spendono troppi soldi per stampare l libro, troppi per la loro ridondante struttura, troppo poco per una efficace comunicazione dei prodotti. Una classe di editori del genere non è in grado di sviluppare sinergie innovative con noi. Nel 2012 ci sono i presupposti tecnologici per raggiungere i lettori direttamente, senza bisogno degli editori, però noi autori dobbiamo organizzarci, tra di noi dico, è anche passato il tempo dell’autore solitario che si limita a scrivere la sua opera, dobbiamo svegliarci, occuparci di produzione e marketing e comunicazione, oltre che alla semplice scrittura ideazione. Tanto quelli lo fanno male, strategie sorpassate, badano soltanto a noi chiudere i battenti.
    Non sarà difficile raggungere l’efficacia degli editori di oggi,
    faticheremo a superarli, certo, ma è necessario.

  6. A mio modo di vedere, la crisi che stiamo vivendo è prima di tutto una crisi di idee. I libri sono troppi, condivido, perché si compensa con lo spreco di forma la vuotezza di contenuto attuale. La sensazione di straniamento che sempre più spesso si prova entrando in una libreria non è dovuta alla quantità in sé, quanto alla fatica di andare oltre quella patina di colori e forme in copertina per captare, se c’è, la sostanza di un titolo, per comunicarci, con un libro. I libri sono in vetrina o in colonna ben esposti, ma non comunicano più, chiedono solo di essere comprati. L’editoria in questo senso si sta avvicinando sempre più alla pornografia, un’invasione non più di tette culi e verghe ma di disegni e font e titoli smielati che creano una iper-momentanea eccitazione sfociando immediatamente nella noia e nella nausea, proprio come accade (a molti) con la pornografia. Bisognerebbe ricominciare a scrivere, e pubblicare, solo quando c’è davvero qualcosa di interessante e originale da comunicare, chiedersi sempre “che cosa voglio dire”, e a chi. Sentire un’urgenza di comunicazione, e non solo di espressione. In tempi che non sono soltanto di crisi, ma di decadenza irreversibile di un certo modo di vivere e di un certo sistema politico ed economico, solo le idee ci possono salvare. E i libri, insieme alla comunicazione orale, sono ancora il modo più organico che esiste per esporre un’idea, più efficaci di qualunque altro mezzo di comunicazione, perché più permeabili alla riflessione del lettore e al suo stesso protagonismo ideale. Il punto è che noi oggi riflettiamo molto poco. Siamo ‘irretiti’ dal web e continuamente imbrigliati in piccolissime porzioni di comunicazione immediata e contingente. La prospettiva di fondo la stiamo perdendo di vista, l’orizzonte ci manca, richiede meditazione, e noi invece abbiamo sempre più fretta di esprimerci.

  7. Credo che se vogliamo vedere il futuro dobbiamo guardare i giovani, e se vogliamo in qualche modo modificarlo dobbiamo intervenire sulla loro educazione.
    Leggere richiede tempo e la domanda che io mi pongo è: cosa posso fare perchè i giovani, i bambini, dedichino un po’ del loro tempo alla lettura?
    Certemente devo offrire loro dei buoni libri, delle persone che sappiano dare delle informazioni, i librai, e quindi sono d’accordo che oggi occorra ripensare il modo in cui si pubblicano e si diffondono i libri.
    Però voglio aggiungere un secondo “fronte”, la scuola.
    La cultura , la sua diffusione e la sua crescita, dipendono necessariamente dall ‘educazione e, in uno stato moderno, dalla scuola.
    E’ notizia recente che il governo prevede un aumento delle ore di insegnamento. Questo significa, al di là delle sterili e più o meno stupide polemiche su quanto deve lavorare un insegnante, che lo stesso potrà avere 12 classi e più di 300 alunni. Questo significa introdurre già nell’ infanzia un’ informazione veloce, minimale, spersonalizzata e finalizzata al mero raggiungimento di un obbiettivo minimo. Allora non dovremo poi stupirci se i ragazzi dedicheranno un po’ del loro tempo ad assumere nozioni necessarie e il restante al web, ai videogiochi, alle serie tv…poco o nulla ai libri. Perchè leggere sembrerà loro un pessimo investimento del loro tempo, visto che sono abituati ad un’ istruzione modello fast food, e la lentezza di una buona lettura li scoraggerà. Quanti amici posso contattare sul web quanti livelli di un videogioco posso superare nel tempo in cui leggo un libro? Ed è poi necessario leggerli i libri se la professoresssa, che non sa nemmeno il mio nome, mi dà poche fotocopie e salta intere parti dei libri di testo? Che piacere potranno trarre dalla lettura coloro i quali non saranno stati abituati a leggere lentamente e interamente? Allora qui i casi sono due, o si va verso un’assunzione di informazioni frammentata e veloce, tipica del web, o si riscopre la “lentezza” e la ricchezza di un buon libro. Ma per fare si che avvenga la seconda cosa non si può prescindere dai giovani e dalla loro formazione.

  8. Mi aggancio a Valberici, e aggiungo: ci vuole una generazione di lettori (insegnanti, bibliotecari, volontari) che sappia sedurre (nel senso più nobile del termine, ovvio) la prossima generazione di lettori verso la LETTERATURA. Non verso il libro, il romanzo, la storia. Verso qual continente-continuum distillato dall’umanità e consegnato alle generazioni future tramite la scrittura. C’è un che di conservativo in tutto questo? Sì, c’è – ma per una volta, non ci vedo nulla di male, anzi.

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