Dal momento che la vicenda di Pokémon Go mi scandalizza molto meno della dipendenza da social network, o dall’esaltazione dei medesimi come nuova via di produzione e discussione letteraria (eccetera), e dal momento che dei mostriciattoli mi sono a lungo occupata quando il mondo era giovane, vi ripropongo un articolo scritto per Repubblica nel marzo 2000. Tanto per ragionarci su.
Come è possibile che un giocattolo ignori il suo possessore? Che sia, per usare le parole esatte, “estremamente intelligente”, in possesso di una propria “forza di volontà” e dunque “non si lasci comandare”? Avviene, eccome, in un universo complesso e sbrigativamente affrontato come l’ ultima ossessione planetaria di origine nipponica. Un’ ossessione che si chiama Pokémon e ha 151 volti diversi: topoconigli elettrici, tartarughine, serpenti, fossili, volpacchiotti, farfalle.
Troppo facile, però, giudicare il tutto come il frutto perverso e maniacale di una campagna marketing mostruosamente potente, facilitata dalla “nippo-dipendenza” che ebbe inizio oltre vent’ anni fa con gli Atlas Ufo Robot. L’ unica cosa che i Pokémon hanno in comune con Goldrake e cugini è la loro capacità di trasformarsi in qualcos’ altro. Combattono per istinto, non per giustizia. E l’unica tenue propensione al politicamente corretto sta nella loro origine naturale: ci sono mostri d’ acqua, di terra, d’ aria, di fuoco e di quindici elementi diversi, e vivono in aree che chiameremmo protette come boschi, prati, grotte. Ma sul resto differiscono completamente: nella loro vicenda non ci sono elementi narrativi, dal momento che in ogni episodio del cartone Ash non fa altro che incontrare esemplari diversi e cercare di catturarli, o combattere con gli allenatori rivali o degenerati.
Dunque? Dunque il Pokécosmo si potrebbe riassumere così: c’ è una non-storia che piace perché fa leva sulla predisposizione alla serialità e al collezionismo dei bambini: tanto che nel videogioco i mostri si devono scambiare con un altro possessore di Game boy collegato via cavetto per completare la serie, come nella versione tecnologica del “ce l’ ho, mi manca”. Poi c’ è un colosso del giocattolo che ci costruisce sopra un’ altra bella fetta del suo impero. Insomma, si crea a tavolino un culto nei confronti di una merce.
Solo che non è più così facile, e oggi i culti prendono strade diverse rispetto ai binari concepiti originariamente. Basti pensare a quel che accade su Internet, dove al sito ufficiale dei Pokémon si affianca un numero impressionante di siti tutt’altro che ufficiali. Del resto il videogioco e il cartone sono esemplari: i Pokémon sono catturabili ma non guidabili. Si possono allevare facendo sì che accumulino “punti esperienza” in ogni combattimento, e dunque crescano in conoscenza (e possano evolversi), ma non comandare. Sono, insomma,il simbolo esemplare di una riflessione che li ha ignorati fino a questo momento, ma che in Italia si è già concretizzata in un saggio di grande interesse come Merci di culto, che Fulvio Carmagnola e Mauro Ferraresi hanno pubblicato non molto tempo fa per Castelvecchi. Testo che insidia i parametri classici di osservazione della merce: primo fra tutti quello, ritenuto ancora intramontabile, di valore d’ uso. Perché per capire non soltanto i Pokémon, ma la nascita di ogni “ossessione” e dunque di ogni forma per l’ appunto culturale di rapporto con la merce, bisogna affiancare a Marx anche fonti di pensiero in apparenza meno elevate: Deleuze e Guattari, ma anche Kevin Kelly e i redattori di Wired, ma anche Gianluca Nicoletti e i suoi “golemaniaci”. Tutti coloro, insomma, che nei propri settori e dalle proprie tribune sostengono che bisogna abbandonare l’idea faustiana di un controllo del creatore sulla creatura e che, insomma, la merce ha un proprio destino, pur se imperscrutabile. E ha, in un certo qual senso, una propria sensibilità.
L’ allenatore di Pokémon, che non ambisce altro che a possederli tutti per poter combattere con altrettanti possessori, ha forse a che vedere meno con Marx e più con zio Paperone e il suo deposito in cima alla collina, dove si ammucchia una ricchezza tanto inquantificabile quanto priva di senso perché priva di utilità. Possesso puro, come già propose Hegel. Puro, aggiungono gli autori, desiderio.
Perché al concetto di produzione si è sostituito quello di rappresentazione: la merce è rappresentazione ed esiste in quanto tale. Il suo valore non è più legato al tempo di lavoro necessario a produrlo, non soddisfa bisogni. Serve ad altro. A quello che Hannibal Lecter suggerisce come chiave all’ agente Starling ne Il silenzio degli innocenti. Qual è il nostro primo motore? Cosa facciamo per vivere, per – direbbe un allenatore di Pokémon – evolverci? Desideriamo. La merce produce e soddisfa un’ economia del desiderio. Desiderio cui non corrisponde la mancanza perché a muoverlo è una trama complessa, una macchina autocostruita e senza controllo, fatta da parti umane e non umane. Un’intelligenza collettiva, dove desiderati e desideranti sono alla pari, e dove le leggi non sono più quelle del marketing. Per esempio. Non sono i motori primi del design ad aver rilanciato la forma a dirigibile della lampada Titania, ma gli spettatori che l’ hanno più recentemente intravista in film come Sliding Doors o The Truman Show, e si chiedono dove possono trovarla. Quella lampada, cioè, unisce alla sua vita di oggetto un’ esistenzamediale: entra in un circuito di desiderio. Diventa ipermerce. E l’ ipermerce è fatta di convergenze, di agganci possibili. Non è importante neppure che se ne ricordi il nome, o che questo si unisca ad una funzione specifica. Fino a che punto ha importanza che la Coca-Cola serva a dissetare o che i computer Imac vengano usati per navigare in Internet o che una lampada a forma di Pokémon effettivamente si accenda?
L’ ipermerce crea attorno a sé culto, rito, tribù: sollecita comportamenti di affezione che vanno oltre la pura e semplice fruizione utilitaria. Così, a suscitare desiderio non è tanto la scarpa della Nike in quanto oggetto, ma il suo swoosh, il piccolo baffo che vi è cucito sopra e ne è il simbolo (che, dicono, è l’ectoplasma della Nike di Samotracia). Il baffo è autonomo. E la merce che rappresenta è potentissima, perché può fare a meno di parlare di se stessa e delle proprie qualità e le è sufficiente esibire un segno. Carmagnola e Ferraresi chiamano tutto questo “animadvertere”, una sintesi tra la parola “anima” e la parola “advertising”: ovvero, se non l’anima, il comportamento animato della merce. Che, come la mente cartesiana,”dubita, concepisce, afferma, nega, vuole, non vuole: immagina anche, e sente”. In parole povere, è l’ unica vera opera di intelligenza artificiale di cui l’ uomo sia stato capace finora. E che, per di più, aumenta in potenza se ha maggiore passato (“punti esperienza”, direbbe il solito allenatore di Pokémon) da esibire: perché la Vespa è merce di culto? Perché esprime una felicità di ieri, vera o fabbricata molto bene, come le fotografie d’ infanzia dei replicanti di Blade Runner e come la vita antecedente del giocattolo Woody in Toy story 2. Dal momento che la merce, come tutto ciò che è vivo, non vuole morire, e fa di tutto per guadagnarsi un po’ d’ eternità. O, almeno, la possibilità di un’ evoluzione.
“Perché al concetto di produzione si è sostituito quello di rappresentazione: la merce è rappresentazione ed esiste in quanto tale. Il suo valore non è più legato al tempo di lavoro necessario a produrlo, non soddisfa bisogni”.
In cambierei “sostituito” con affiancato, e spiegherei meglio cosa vuoi dire. Poi: il valore della merce non è mai consistito del tempo di lavoro necessario a produrlo, questo è un errore che si protrae almeno da Marx in poi. Il valore di una merce è sempre relativo all’incontro tra domanda e offerta. E la merce ovviamente soddisfa ancora bisogni. Non si può parlare di una generica merce. E queste merci non necessarie alla sopravvivenza (ma forse l’uomo si limita a sopravvivere?) comunque soddisfano altri bisogni.