Torno, di nuovo, sulla vicenda dell’accoglienza della letteratura fantastica in Italia. Ci torno perché da ultimo, mi riferiscono, uffici stampa di piccole case editrici di literary fiction hanno esternato il proprio risentimento perché il Salone del Libro dà ampio spazio alla letteratura fantastica: nella scorsa edizione con una lectio magistralis su Tolkien e con l’omaggio a Stephen King, quest’anno con un incontro sulle grandi scrittrici di fantastico (Mary Shelley, Marion Zimmer Bradley, Shirley Jackson, Mariana Enriquez) e con una serata di letture e approfondimenti critici su Game of Thrones e dunque sulla saga di Martin da cui la serie proviene, Cronache del ghiaccio e del fuoco.
Non mi interessa motivare la scelta, perché la motivazione dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: esiste un’ampio settore letterario su cui la riflessione critica manca in quanto il filone è considerato non di competenza della letteratura. Molti scrittori scoprono, alcuni in ritardo ma va benissimo lo stesso, il valore di King (qualche settimana fa, a Fahrenheit, Antonio Moresco confessava la meraviglia e la potenza della sua lettura in corso, L’ombra dello scorpione), non così la gran parte della critica, che ritiene irrilevante occuparsene. Dunque, occorre occuparsene.
Mi interessa, invece, la motivazione di quell’ufficio stampa (o più d’uno, non è chiaro): perché occuparsi del fantastico? Vende, dunque non ha bisogno di attenzione.
Argomento interessante in quanto rivelatore del pregiudizio (e dell’ignoranza) circolante in molti addetti del settore, che pure dovrebbero informarsi per poter ben lavorare nel settore medesimo. Il fantastico, in Italia, non vende. O meglio: vendono alcuni scrittori internazionali, come lo stesso King, J.K.Rowling, Martin, e temo che ci fermiamo qui. Ha venduto, per un po’, quel filone popolare rivolto alle adolescenti che va sotto il nome di paranormal romance: ovvero, storie d’amore con un pizzico di soprannaturale, ovvero ancora, il filone esplorato e poi lasciato subito cadere dall’editoria che è seguito al successo di Twilight. Ma questo è un classico del mercato: arriva un best-seller e si prova a replicare. E’ successo con le 50 sfumature e il diluvio di romanzi erotici a firma femminile, succede con gli youtuber, succede con i cloni delle bambine ribelli. E succedeva pure, al cinema, con gli spaghetti western: si ara un terreno ma invece di incrementare il raccolto lo si rende infertile.
Il fantastico, al momento, non vende: vende, poco, a una nicchia di fedelissimi, per quanto riguarda i pochi scrittori italiani che insistono nel perseguirlo, oppure si nega la sua presenza quando viene utilizzato da scrittori “letterari”, come i già citati di due post fa. Non vende Margaret Atwood: i suoi libri erano fuori catalogo fino al successo de “Il racconto dell’ancella”. E anche quelli di Ursula Le Guin non sono, in molti casi, disponibili. Per non parlare di Angela Carter, di cui si invoca la ristampa di “Camera di sangue”.
Dunque, da dove nasce il preconcetto? Diamo la parola a Stephen King, che in un’intervista a Rolling Stone, nel 2014, raccontava un episodio:
“All’inizio della mia carriera, The Village Voice ha fatto una caricatura che mi fa ancora male oggi quando ci penso. Una mia immagine mentre divoro soldi, con un faccione grande e gonfio. Il presupposto era: se il romanzo vende, è male. Se qualcosa è accessibile a molte persone, deve essere stupida perché la maggior parte della gente è stupida”.
Quanto alla critica, e ad Harold Bloom che fece a pezzi King quando vinse il National Book Award:
“Ci sono critici, e Bloom è uno di loro, che considerano la loro ignoranza sulla cultura popolare come una medaglia al valore intellettuale. Bloom è in grado di sostenere la grandezza di Mark Twain, ma non di immaginare una discendenza diretta fra Nathaniel Hawthorne a Jim Thompson perché non legge Thompson. Pensa semplicemente: “Non l’ho mai letto, ma so che è terribile”. Michiko Kakutani, la critica letteraria del New York Times, ragiona allo stesso modo. Respingerà un romanzo come “Le ore invisibili” di David Mitchell, che è uno dei migliori dell’anno. Bello e profondo come il Cardellino di Donna Tartt, ma poiché contiene elementi fantastici, Kakutani non vuole capirlo. In questo senso, Bloom e Kakutani e un certo numero di eminenze grigie della critica letteraria sono come bambini che dicono “Non posso mangiare questa pietanza perché cibi diversi si toccano sullo stesso piatto!”
Non succede soltanto in Italia, certo. Ma in Italia, dove il mercato letterario è piccolo, e dunque più ringhioso, succede di più. Ed è per questo che bisogna parlarne, e continuare a farlo. Perché non è George Martin che sottrae qualcosa all’ufficio stampa di quella casa editrice e alla casa editrice: è un paese dove si legge molto poco e dove i pregiudizi sono più numerosi dei lettori. Purtroppo.