COME FU CHE MI RITROVAI NEGLI ANNI NOVANTA

Se c’è una cosa che mi turba è la velocità con cui diminuisce la nostra memoria. Non parlo di quell’odioso processo di invecchiamento in base al quale ti dimentichi dove hai messo gli occhiali o scivoli via sul whatsapp che invece è importante (sì, mi succede), bensì di un altro modo di farci scivolare addosso le cose. Parliamo per ore, giorni, anni, di perdita di autorevolezza, di individualismo, di insofferenza verso tutto quello che percepiamo come limitazione della nostra inviolabile libertà (un fulgido esempio sono le valanghe di chiacchiere su Strappare lungo i bordi di Zerocalcare, che quasi sempre si concludono con “ho il diritto di dire quello che voglio”)? Bene, ce lo dimentichiamo subito, e ci infiliamo di nuovo nei comportamenti che abbiamo stigmatizzato magari un paio d’ore prima.
Tutto questo per dire che quando leggo frasi come “bisogna strappare i bambini e ragazzi ai videogiochi e a Internet” (ieri: lettera di un genitore ad Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera) mi sento magicamente rituffata negli anni Novanta, mi aspetto che in televisione ci sia Twin Peaks, che si dibatta attorno a quella sorpresona che fu Pulp Fiction e che i rollerblade siano la moda del momento. Quel che mi stupisce, insomma, è che trent’anni dopo si pensi ancora che le narrazioni esistano solo nei libri.
Passo indietro. C’è stato un momento in cui i bambini venivano trasformati in patate per aver guardato troppa televisione. Era  uno spot con cui  a fine anni Ottanta-inizio Novanta l’ Accademia Americana di Pediatria, apparentemente ignara della contraddizione, denunciava in televisione i danni derivanti dalla medesima: danni mentali e fisici, dal momento che la metamorfosi in tubero inflitta ai piccoli peccatori fa riferimento al nome di una telemalattia, la couch potato youngis. Quasi contemporaneamente,  c’ erano stati i podologi che denunciavano il pericolo dei piedi deformati e i dentisti preoccupati per la “Tv jaw” (una cattiva occlusione della mascella), ambedue dovuti alle posizioni assunte davanti allo schermo, nonché gli oculisti che tuonavano contro le malattie della vista, i nutrizionisti che evidenziavano il legame fra obesità e videodipendenza, e persino qualche medico nostalgico della guerra fredda, che accusava la tv americana di far crescere bambini meno muscolosi di quelli sovietici.
Allora, alcuni di noi provavano a chiedersi, almeno, se fosse tutto un equivoco. Se le stesse persone che mai metterebbero sotto accusa l’ invenzione della stampa per un unico, brutto libro, si ostinassero in questo caso a confondere forma e contenuto. Se assistessimo al ripetersi di un meccanismo che due secoli fa imputava al successo de I dolori del giovane Werther di Goethe l’ ondata di suicidi giovanili e negli anni Novanta attribuiva a Bart Simpson il turpiloquio minorile. Se la televisione, insomma, non fosse il demonio, ma un mezzo, più neutro che incolpevole, su cui scaricare tensioni culturali e incomprensioni generazionali. Ieri la televisione, e subito dopo i videogiochi, oggi videogiochi e serie televisive e Internet.
In quegli anni uscì un libro per una piccola casa editrice, Anicia, a firma  di un docente universitario francese, Francois Mariet: si chiamava Lasciateli guardare la Tv (con postfazione di Roberto Maragliano). Secondo lo studioso, il vero problema non era relativo ai famosi due bambini su tre che ogni giorno guardavano il piccolo schermo, ma a quell’unico che non la guardava. Perché la televisione, diceva, non è affatto nociva: non più dei media che hanno accompagnato l’ infanzia e l’ adolescenza dei suoi detrattori, non più del fumetto che negli anni Quaranta lo psicologo francese Henri Wallon accusava di far “disimparare al bambino la lettura e il linguaggio intelligente”. Non più del cinema, che spingeva i genitori di Bruno Bettelheim a rimproverare il loro ragazzo perché passava troppo tempo a guardare film.
Sono i nostri figli, diceva insomma Mariet, a ricordarci quanto di arbitrario esiste nei nostri orari e ad abituarci ad una concezione multipla del tempo: il loro modo di concentrarsi è diverso dal nostro, consente loro di fare più cose nello stesso momento, mangiare, studiare, guardare i cartoni proprio come i grandi giocatori di scacchi che giocano più partite contemporaneamente. E la televisione, lungi dall’essere la vecchia fetta di dolce, l’ evento eccezionale cui assistere in silenzio sospendendo ogni altra attività, è un oggetto come un altro, precedente alla loro nascita come l’ acqua corrente e l’ elettricità.
Vale ovviamente per i videogiochi, e vale pure per i social, anche se il meccanismo nell’ultimo caso varia. Quello che non ci entra in testa è che un buon videogioco, una buona serie televisiva, persino un post o un video interessante valgono più di un brutto libro. Finché non capiamo questo, la discussione può continuare per i prossimi dieci anni, e così, temo, sarà.

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