COME SI DEMOLISCE UN TRALICCIO, O DI QUEL CHE CI STA SUCCEDENDO

Noi sappiamo come si demolisce un traliccio. O meglio, da questa mattina lo so anche io. Attraversando una Roma rovente di febbre e di umori, facendo lo slalom fra atolli di spazzatura (e confesso che la mattina mi fermo a guardarla, col naso tappato, chiedendomi da dove viene quella coperta di lana, da dove quel San Bernardo di peluche, e chi avrà buttato la sedia di plastica rossa, e se almeno chi si è disfatto del cartone di vini avrà passato una bella serata), e infine scendendo nella metro “rallentata per guasto”, ho alzato gli occhi sui monitor che dovrebbero rallegrare i passeggeri e mi sono imbattuta in un video che spiegava come si demolisce un traliccio.
Ora lo so. Ma posso sapere tantissime cose. Chi ha inventato il walkman e qual è la procedura per realizzare le scarpe per andare in bicicletta, so che il primo sintomo dell’intossicazione da gas sarin è la contrazione delle pupille, che nel luglio del 1853, dopo la battaglia di Gettysburg, cinquemila carcasse di cavallo furono bruciate in un rogo a sud della città, che la lente Zeiss che permise a Stanley Kubrick di girare le scene a lume di candela di Barry Lyndon era prodotta dalla NASA.
So che Friedrich August Kekulé von Stradonitz, scopritore della formula del benzene, sognò un serpente che si mordeva la coda, da cui prese forma la struttura ciclica esagonale del cloruro di benzene. Così sosteneva, ai tempi, Isaac Asimov. Almeno fino al 1984, quando si è scoperto che Kekulé aveva desunto l’idea della formula a struttura esagonale del benzene da un libro del chimico francese Auguste Laurent; libro che Kekulé aveva letto dodici anni prima e depositato nella sua memoria.
So, come voi, tutto questo, e posso sapere di più. Basta digitare un paio di parole su Google e cercare, e io saprò ancora. Posso linkare un video su YouTube, guardare un programma televisivo dedicato, chiedere al mio assistente vocale.
Eppure so molto meno di prima, almeno io. Perché tutto quello che so oggi viene da prima, da un secolo ormai passato, fatto di libri e di studio e di pausa. Del famoso e atrofizzato “between”  citato nel 1980 in L’intervallo perduto di Gillo Dorfles, che si rifaceva a un altro studioso, David Martin. Il between è ciò che sta in mezzo, “tra”. E’, in parole davvero povere, lo spazio materiale fra opera d’arte e fruitore: e, sottolineava Dorfles, varia a seconda della natura dell’opera d’arte stessa (una scultura richiede un “in mezzo” più ampio e complesso di un quadro, e la musica – secondo Martin – non andrebbe ascoltata in cuffia perché questo provocherebbe una “atrofia del between”. E’ una questione di pause, dice Dorfles: “l’intervallo che deve esistere fra noi e l’opera dev’essere un intervallo di sosta della durata”.
Devo imparare a conoscere in un altro modo. La rete, il Game, come dice Baricco, è giovane e non sappiamo dove ci porterà. Sappiamo però che ci ha portato del bene ma anche molto male. Fabio Chiusi, che io cito spesso perché lo merita, ha postato qualche giorno fa una constatazione accorata:
“Ve lo confesso: per me la disumanità di questo governo — della Lega ma anche, osceni, dei Cinque Stelle — sta diventando troppa, insostenibile. Ci sta ammalando, mettendo gli uni contro gli altri, esasperando al punto che le parole sembrano non uscire più e non servire a niente per quanto raziocinio o empatia trasmettano.
Leggo sempre più persone dotate dell’uno e dell’altra esasperate, prive di mezzi e soluzioni, dimenarsi tra la voglia di combattere e una consapevolezza strisciante che la battaglia sia persa, persa davvero. Che abbiano vinto i razzisti, gli intolleranti, gli ignoranti, i crudeli, i cinici. I disumani, appunto.
Anche queste parole non servono a nulla, lo so. Semmai, a dare adito ancora a tutti questi soggetti di sentirsi una volta di più nel giusto, addirittura vittime — loro, i carnefici, indifferenti — del “buonismo” e del “moralismo” di un intellettuale da tastiera, di un “anti-italiano” (così mi hanno definito su Twitter, per il semplice twittare in inglese e insegnare a San Marino — giuro) con la pretesa di superiorità su loro, “il popolo italiano”, “la gente” a cui abbiamo insegnato anche noi giornalisti e pensatori per decenni ormai ad avere sempre ragione, come clienti al supermercato della democrazia.
Se hanno un senso, è solo questo: l’ammissione della sconfitta. Quando i consensi aumentano con l’odio scientifico, la strumentalizzazione sistematica delle vite altrui, lo sfruttamento dei peggiori istinti di ogni essere umano, allora abbiamo perso, è inutile girarci intorno.
Anzi, è malsano girarci intorno. L’Italia sembra volere inginocchiarsi ai piedi di chi insulta, odia, diffama, divide, spezza, lascia morire. E la democrazia ahinoi ha il diritto di suicidarsi.
Perché questo stiamo testimoniando: il suicidio della nostra democrazia. Prima ancora che a livello formale, a livello sostanziale. Dopo avere sdoganato ogni tipo di orrore, avere dato fiato a ogni demagogia — un pugno di click o spettatori in più fa sempre comodo, giusto? — e avere nutrito ogni cinismo, per decenni, come si può pretendere che ora una rivolta illuminista di ragione e compassione possa sbucare improvvisamente dalle macerie?
È ora di guardarci negli occhi e dircelo chiaramente: siamo senza opposizione politica, con un’opposizione civile ridotta ai minimi termini, la separazione dei poteri vilipesa e derisa dalle più alte cariche dello Stato, la competenza relegata a difetto, la conoscenza a suppellettile, i fatti divenuti opinione, la censura parte del gioco.
Questo non è più un contesto propriamente democratico. E no, non vedo vie di uscita.
Abbiamo perso, e perso male. Lo leggeranno i nostri figli, chi ha il lusso o la condanna di averne, sui libri di storia, quanto male abbiamo perso.
Io mi danno per tutto quello che non ho fatto quando potevo, per tutto quello che questa disperazione sorda mi impedirà di fare. Per tutto il dolore che non sono riuscito a impedire.
Mi condanno senza appello”.
Non so se dobbiamo condannarci. So che dobbiamo respirare a fondo e sforzarci di essere terribilmente lucidi, terribilmente presenti a noi stessi. Pesare ogni parola, filtrare ogni informazione. Pensare. Pensare. Pensare.

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