CONTI CHE NON TORNANO

Ha ragione Laura Albano. C’è qualcosa che non torna nella presa di posizione di Franca Sozzani, direttrice di Vogue Italia, nel lancio della petizione per la chiusura dei siti pro-Ana, ovvero quei blog dove, da anni, le ragazze anoressiche si scambiano consigli per perseverare nella propria decisione.
C’è qualcosa che non torna, certo. Perchè quel che sta avvenendo in queste settimane mi ricorda molto la famigerata dichiarazione di un’altra direttrice, quella di un magazine per teen-agers,  che, rimproverata a proposito della gigantesca confusione di argomenti e di target del suo giornale (recensione di libri per bambine accanto a consigli per la perfetta fellatio), ribatteva:  “così fan tutti”.  Ovvero, la televisione parla di sesso, perchè noi no?
C’è qualcosa che non torna, sì. Perchè tutti si stanno affrettando a sostenere che la responsabilità è sempre di qualcun altro: innocente è il velinismo ma non la moda e la pubblicità, dice la televisione, e la moda risponde che, per carità, la colpa è di Internet, e la pubblicità tenta di ribattere a modo suo, con lo sberleffo di Dolce&Gabbana che reinterpretano a modo loro il “bigotte-puritane-eccetera” rivolto al movimento delle donne.

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Naturalmente, il tutto si può vedere come un risultato positivo. Vogue prende consapevolezza dei modelli sbagliati, le Veline si rivestono e parlano, la pubblicità abbandona l’idea che lo stupro di gruppo faccia vendere più completini, e così via.
Altrettanto naturalmente, c’è un però:  nessuno dei soggetti in questione, con ogni probabilità, agisce per intima convinzione che occorra davvero abbandonare i vecchi modelli e cercarne di nuovi. L’aria che tira è questa, è l’intuibile retropensiero, meglio non inimicarsi le donne che sono e restano le maggiori consumatrici/lettrici/spettatrici.
Dunque, è facile che al prossimo soffio di vento si ricominci da capo. Dunque, il lavoro è più lungo e complesso: riguarda la consapevolezza degli stereotipi di cui si discuteva un paio di post fa, e riguarda la formazione delle nuove generazioni, soprattutto. A me continuano a spaventare le ragazze che sostengono, come è avvenuto giusto ieri, che il femminismo è quello che “brucia reggiseni” e “fa polemica fine a se stessa”. E mi convinco che è su questo terreno, abbandonato da molte grandi madri per egoismo, che occorra lavorare oggi.

15 pensieri su “CONTI CHE NON TORNANO

  1. Non mi aspetto dalla Sozzani niente che abbia a che fare più lontanamente con qualcosa che abbia a che vedere con l’etica – e questa questione dovrebbe avere a che vedere con l’etica. Non ne è capace. La trovo un personaggio interessante una specie di epigono del tempo che corre – non come tipo di femminilità ma come tipo umano. Tuttavia questa operazione che ha fatto, e al di sotto della sua oggettiva intelligenza e del grado di sofisticazione intellettuale che di solito ostenta. Naturalmente c’è un’incongruenza tra dire ai siti pro ana che devono chiuedere e fornire lor i modelli con cui foraggiare la patologia (anche se secondo me le foto delle riviste di moda che si tendono a incriminare sono troppe rispetto a quelle che, almeno io, considero modelli negativi) tentare di risolvere quell’incongruenza con un discorso strutturato, che un po’ assume responsabilità un po’ chiarisce cose per cui la responsabilità non è solo del sistema culturale (no non ci si suicida per moda) un po’ ragiona su un modello esistenziale diverso – sarebbe stato meglio, e sarebbe stato più elegante. Gli standard estetici non si limitano infatti solo al taglio delle giacchette e la Sozzani lo dovrebbe sapere.

  2. Si Loredana, la tutela del corpo delle donne non è una moda e anche in questo caso, così come fatto in altri precedenti, occorre chiedere coerenza. Ho appena scritto anch’io un post su questa iniziativa riportando, fra le altre cose, le richieste fatte da Donne e basta alla Sozzani.

  3. Certo Zaub, che la moda non sia causa profonda lo diamo come assodato e nel post lo ribadisco. Sulla percentuale di foto incriminate: se si fa un confronto tra i numeri dei primi anni ’90- i primi diretti dalla stessa Sozzani (che erano esteticamente parecchio belli), e quelli degli ultimi anni, ci si rende conto meglio di quanto sia pervasivo il modello scheletro. E’ una vera e propria estetica peraltro, costruita anche con il trucco e certi digrignar di denti che pare di vedere il teschio di Hirst.
    Se non per etica possiamo sperare di vederla esaurirsi naturalmente, come tutte le mode, chissà.

  4. Concordo con il post di Loredana, in tutto. E quoto “supermambanana”: l’idea di chiudere i blog pro-ana implica due possibilità: o è in mala fede, o proviene da qualcuno che non sa nemmeno cos’è un blog. Né tanto meno cosa sono, come sono fatti i blog pro ana.
    Posso mettere a disposizione, in privato, almeno un paio di tesine fatte – molto bene – da miei studenti. Esattamente sui blog pro ana. Non le ho mai pubblicate sul mio blog – per essendo eccellenti lavori, e io di solito pubblico i lavori migliori degli studenti – solo perché mettere in rete contenuti su questo argomento può incidere su problemi e patologie su cui è meglio non rischiare di incidere.
    Aggiungo che, quando si parla di anoressia, bisogna farlo sempre assieme a specialisti che sappiano con grande competenza e precisione cosa sono e come si trattano i disturbi alimentari. Meglio ancora: bisogna dare la parola a loro e fare un passo indietro.
    Esempio: a parlare di questi temi, in aula da me, chiamo sempre psicologi di comprovata e quotidiana esperienza con persone che hanno disturbi alimentarli. Non lo faccio io, insomma. Casomai, dopo che lo/la specialista ha parlato, aggiungo commenti – sempre in presenza dello/la specialista – sul nesso con le immagini che appaiono sui media hanno con questi disturbi.
    Ma ci sono mille altri esempi di discorsi sul tema, che non siano in un’aula universitaria. Andrebbero tutti fatti in collaborazione con psicologi esperti, e tenendo presente che la probabilità di avere di fronte una persona con disturbi alimentari è molto alta: oggi non occorre essere magrissimi o darlo a vedere, per avere un disturbo alimentare di qualche tipo. Anche molto grave.

  5. L’ iniziativa della Sozzani mi sembra semplicemente ipocrisia da marketing travestita con nobili intenzioni, fermo restando che non sono le foto sul giornale il vero problema di chi soffre di disturbi alimentari e bene fa Giovanna Cosenza a farne parlare gli specialisti.
    Quello che noi da spettatrici se non fruitrici delle pubblicità e dei modelli estetici propagati dalle riviste di moda condanniamo, se abbiamo voglia di farlo, è che si parla e si mostrano modelli lontani da noi e totalmente artefatti.
    Ho letto che una delle risposte era che gli stilisti mandano taglie sempre più piccole per gli shooting fotografici costringendo le riviste a prendere modelle scheletriche. Ma stiamo scherzando? I reportage delle riviste di moda non sono editoriali, sono transazioni commerciali e come tali ognuna delle parti pone le proprie condizioni.
    Metti come rivista che vuoi fare un reportage sulla taglia 46 e quella ti devono mandare. A parte che chi si occupa di styling riesce a fare di tutto con qualsiasi taglia, a me sono riusciti a fare foto bellissime in tutta la mia floridità con una taglia 40-42 a costo di tagliarmi il proverbiale alluce della sorellastra di Cenerentola, e porto la 50.
    Non raccontiamo almeno palle per favore, poi se vogliono usare le modelle scheletriche noi come consumatrici possiamo fare a meno di comprare riviste e quei vestiti e pace. I disordini alimentari sono una cosa seria, accidenti.

  6. A scanso di fraintendimenti riporto qui due righe del mio post:
    “Fermo restando che l’anoressia è un disturbo dalle cause profonde e complesse, radicate nella storia personale e familiare, se la moda decide di fare la sua parte per aiutare a combatterla non può prescindere da una seria assunzione di responsabilità da tutti coloro che ne fanno parte”.
    Si sta parlando del fatto, evidenziato da Loredana, che i vari media o sistemi si rimpallano tra di loro la colpa dei cattivi modelli in circolazione oppure la scaricano su internet famiglia o società, in un balletto imbarazzante per tutti.
    Non si tratta di “trovare l’assassino”, nella società tutto è in qualche modo collegato e tutti possono fare qualcosa – se lo vogliono. Oppure far finta.

  7. Concordo con Loredana. Il lavoro è più lungo e complesso. E un segno della sbrigatività con la quale la questione viene affrontata è, mi pare, proprio la proposta di chiudere i siti. Ammesso che sia possibile, questo potrebbe essere interpretato come una sfida o una vessazione intollerabile. Con tutte le pessime possibili reazioni che ciascuno di noi riesce a immaginare.
    Certo: più facile negare, cancellare, nascondere (è la logica del make up, dopotutto) che cercare con pazienza e delicatezza, e con supporti esperti, una qualsiasi possibilità di discorso. Di interazione.
    Se, più modestamente e più concretamente, Vogue ospitasse ogni tanto un servizio con modelle che non corrispondono (per età, fisionomia, fisico) allo stereotipo della femmina abbigliata come moda comanda. E se facendo questo Vogue esprimesse la sua indubbia capacità di fare moda anche con questi corpi, queste facce, queste età della vita, di certo il contributo sarebbe migliore. E permanente.
    Ma questo potrebbe interferire con la sacra filosofia estetica della testata. Mentre una facile campagna antianoressia lascia tutto quanto come prima.
    Però. Che ci si cominci a fare qualche domanda. Anche se è la domanda sbagliata. E anche se, di conseguenza, la risposta non può essere giusta, è in sé, dopotutto, un fatto positivo. Di domanda in domanda, nel rimbalzo dei media, magari qualcuno prima o poi riesce a raddrizzare il tiro.

  8. Penso che chi ha coscienza del problema, e oramai siamo in tante e tanti, più che attribuire la responsabilità alle donne, dovrebbe evitare al massimo, io credo, di alimentare le possibili divisioni e metterci tutte/i al lavoro più intensamente di quanto già facciamo.
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    Le proposte ci sono. Dal sito di Lorella Zanardo , per fare un esempio, è stato lanciato un messaggio al senatore Zavoli, presidente della Commissione di Vigilanza della RAI, messaggio che dovrebbe essere sostenuto, secondo me, soprattutto nella parte in cui si richiede l’istituzione di una figura che lì è stata denominata Difensora degli spettatori e che prende spunto dall’esperienza spagnola, come Ilaria ha documentato nel sito di Zanardo.
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    Credo che la responsabilità maggiore, invece, sia della politica, tutta, sia di quella che produce costitutivamente il problema, sia di quella che non lo contrasta, così come non contrasta efficacemente il resto dei problemi che questo governo ha creato e crea al Paese.
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    Tu, Loredana, ci richiami spesso e giustamente all’unità degli intenti e dei comportamenti, bene, credo sia arrivato il momento di dimostrarlo ancor più concretamente. Il governo italiano è al capolinea, lo si dice da tempo. Non so quanto ancora durerà in carica continuando a danneggiare gravemente l’Italia, ad ogni modo in questo ultimo periodo diverse prese di coscienza collettive della gravità della situazione ci sono state e la manifestazione del 13 febbraio ne è stata una meravigliosa testimonianza, segno che il lavoro di preparazione è in atto.
    Dobbiamo procedere ed essere pronte/i a formulare le nostre proposte in modo diretto e chiaro anche per rivolgerle a quei politici che non si sono dati la pena di approfondire problematiche come quelle di cui parliamo e che presumibilmente andranno a governare fra non molto. In assenza del nostro contributo, la loro azione politica sarà più povera, sarà la solita, e, temo, non molto diversa da quella di chi già ci governa e ci distrugge. Dobbiamo approfittare della loro, seppure apparente, disponibilità all’ascolto e della loro mancanza di idee: dobbiamo fornire le nostre! Ipolitici si sono adagiati nelle loro rendite di posizione, non hanno sviluppato una progettualità degna di questo nome. Tra di loro ci sono i presuntuosi, ci sono coloro che, come dicevo, non hanno un’idea di società molto diversa di chi sta governando, ma dobbiamo almeno provare ad alimentare quel residuo di sinistra che oggi ancora vive in Italia.
    Si potrebbe sostenere il documento della Zanardo, intanto, e mi pare che pratiche di segnalazione dei problemi siano già disposte nell’azione di blogger come Giorgia Vezzoli ed altre, dovremmo solo unire le forze intorno alle idee che condividiamo e partire con un’azione decisa e condivisa al massimo delle possibilità. Dopo la manifestazione di febbraio si sono verificate ulteriori frammentazioni , non parlerei più delle divisioni ma mi metterei a cercare tutto quello che, invece, di nuovo sta accadendo.
    A Milano c’è al lavoro un gruppo virtuale promosso da Marina Terragni, si chiama Tavolozero e se ne possono trovare informazioni sul blog di Marina. In sostanza si tratta di un gruppo di discussione focalizzato sul “doppio sguardo” nei confronti della politica, caratterizzato da una forte ricerca di dialogo con gli uomini. Credo che dovremmo superare le resistenze a confrontarci con ciò che sta avvenendo e capire che non è il momento di avversare le posizioni di altre ma, magari, di fare un passo per sostenere attivamente ciò che riconosciamo abbia un valore per i nostri obiettivi.
    C’è Pari o Dispare che ha elaborato un Manifesto per l’utilizzo responsabile della figura femminile in advertising a cui hanno già aderito alcune multinazionali. E anche questa è un’iniziativa che merita sostegno attivo.
    Delle volte ho la sensazione che la discussione nei blog, già abbondantemente interferita dai troll più o meno facilmente identificabili come tali, assorba tutte le nostre energie e non ci ponga di fronte alla necessità di agire fuori dagli spazi virtuali. Io ho una grandissima considerazione di questi ultimi perché sono stati e sono strumenti utilissimi per costituirsi un’opinione mediante il contributo di tutti, persino dei disturbatori che problematizzano le nostre affermazioni ma che così ci danno anche il modo per chiarire ulteriormente idee e posizioni. Però non dobbiamo fermarci qui, perché non basta. Dobbiamo agire insieme.

  9. Sono molto d’accordo. Ma tanto perchè la situazione sia molto chiara, pongo una questione: conosco tutte queste iniziative, le seguo, le leggo (ti assicuro che i troll mi occupano pochissimo tempo: sono in black list). Mi chiedo però come mai non si è riusciti a presentare un unico documento che riassuma le diverse posizioni. Perchè Pari o Dispare procede per conto suo senza quasi tener conto delle altre iniziative? Perchè moltiplicare i gruppi di lavoro invece che unirli? Non si poteva arrivare ad una piattaforma unica? Perchè le divisioni devono sempre prevalere sulle unioni? Dobbiamo agire insieme, e si è visto che quando ci riusciamo – il 13 febbraio – lasciamo il segno. Sarebbe dunque il caso di superare i narcisismi personali, visto che la partita è grossa.

  10. donatella, da quando l’ho conosciuto il lavoro di Lorella io – come te e molte altre – mi sono impegnata costantemente e concretamente sul territorio per diffonderlo; proprio perché anch’io preferisco agire che discutere, mi è parso il caso di auspicare azioni positive e concrete da parte di altri in prima persona, al posto di comode scappatoie come la proposta di chiusura di siti altrui.

  11. Le ragioni per le quali ci si divide, in generale e in politica, sono tante però credo che come donne disponiamo di una spiegazione in più che dovremmo aver presente. Tendiamo ad essere divise le une dalle altre per via della divisione agita dal patriarcato tra la madre e la figlia. Mi scuso perché per molte di noi, la mia sarà sicuramente una ripetizione di un concetto già interiorizzato, ma vorrei essere più chiara possibile.
    Forse le madri e le figlie di oggi ne risentono meno, ma sono ancora al mondo quelle generazioni che l’hanno vissuta tutta intera, che spesso occupano posizioni importanti e sono in grado di informare di questa divisione non soltanto il loro agire ma anche quello altrui. Basti pensare a un qualsiasi ufficio con una donna in un posto di responsabilità, o che comunque può disseminare l’ambiente in cui vive e lavora di stati d’animo fondati su sentimenti di avversione e o di dominio sulle/sugli altri, in genere sulle altre. Non so se avete presente le ricerche che andavano per la maggiore non più tardi di una anno fa nelle quali si evidenziava, in ambienti organizzativi, la “cattiveria” femminile, peggiore di quella maschile e, più in generale, l’adozione femminile di comportamenti giudicati sfavorevoli agli ambienti di lavoro, come l’aggressività, l’arroganza, l’intransigenza, il legalismo etc. Ecco, credo che tutto questo andrebbe osservato ma anche spiegato correttamente cercando di capire le ragioni profonde che inducono comportamenti non desiderabili. Bisognerebbe capire se quei comportamenti sono realmente funzionali alle donne, alle loro carriere ad esempio, ma di più ancora alla loro felicità. E se invece quei comportamenti sono quelli che ci si aspetta, che magari si inducono culturalmente, psicologicamente facendo leva sulla competitività per favorire, ancora una volta non le donne, alimentando di esse un’immagine screditata che giova a quel maschile non interessato alla libertà delle donne. Non dico questo per sgravare l’universo femminile delle responsabilità soggettive, sto cercando di rendere evidente un fenomeno, nelle mie possibilità.
    Inoltre non sono certa che i migliori rapporti tra madre e figlia di oggi siano del tutto indenni da quella divisione e sarebbe interessante indagare a fondo, così come si è fatto, ad esempio, per alcune patologie più marcatamente femminili, come l’isteria (diciamo che la scienza ne ha evidenziato prevalentemente il suo esprimersi nelle donne!)che, oggi si dice sia stata sostituita dai disturbi del comportamento alimentare. Non che io mi fidi ciecamente della scienza per andare a fondo delle nostre problematiche, ma una psicologia capace di osservare bene ciò che (ci)accade, io l’accoglierei con molto favore.
    Per parte mia devo dire che non sempre ce la faccio a far valere la consapevolezza di questo che sto dicendo. Però posso dire di sapere per esperienza che non è lo stesso mettersi di fronte a un problema con o senza la certezza che qualcosa agisce su me nonostante le mie intenzioni.
    Molti anni fa, una ventina, ho sentito Alessandra Bocchetti descrivere uno degli effetti possibili della nostra divisione, mi ha colpito moltissimo e spesso mi viene in mente, se non proprio come primo pensiero, come secondo, quello della riflessione. Diceva che i nostri antagonismi si esprimono di frequente mediante una segreta considerazione: io non voglio quel posto, ma non voglio nemmeno che tu lo occupi. Credo non servano commenti ulteriori.
    Molte volte qui ho sentito, Zauberei soprattutto, dire una cosa che reputo sacrosanta e che solo in apparenza, secondo me, si pone a contrasto dell’idea di superare le divisioni. Zaub sembra attribuire il richiamo a unirsi quasi ad una soppressione del diritto all’individualità. C’è anche questo e lo vedo con chiarezza. Lo vedo però, soprattutto, quando è difficile assumere le conseguenze delle proprie posizioni che spesso portiamo avanti in solitudine e, peggio, trovandoci di fronte schiere di avversari e avversarie temibilissimi/e che non aspettano altro che di coglierci in contraddizione, o in condizione di debolezza perché magari siamo le sole a pensarla in un modo, a osservare dal punto di vista femminile un accadimento – pensiamo a quanto viene bastonata l’autonomia femminile, quella che non aderisce ai modelli imposti-. Ma questi due modi di vedere (la necessità di unirsi e quella di esprimersi in autonomia) vanno visti secondo me in relazione profonda l’uno con l’altro. Pensiamo a cosa paghiamo, in realtà, con la nostra impossibilità a portare avanti battaglie comuni. Paghiamo carissimo, paghiamo cioè l’insinuarsi delle ragioni di un maschile a noi avverso (non tutti gli uomini ci sono avversi ed è un peccato che io senta la necessità di precisarlo per prevenire gli assalti che in genere si subiscono quando si omette di farlo). Paghiamo il prevalere di modelli che negano precisamente la nostra individualità, la nostra autonomia, la nostra libertà, la nostra felicità, il diritto a realizzarci per come realmente saremmo se gli ostacoli che ci troveremmo davanti non fossero gravati da divieti non detti, non scritti eppure in vigore, eppure mortificanti, eppure misogini. E spesso anche scritti, nelle leggi. Oppure omessi, sempre nelle leggi.
    Allora il problema forse dovremmo por (ce)lo così: come possiamo fare per esercitare il nostro diritto all’individualità e portare avanti progetti in cui siamo investite come genere femminile? Come possiamo fare per non aderire a un’idea di donna che cancelli tutto il resto di noi stesse, mentre constatiamo che non siamo una minoranza o una differenza qualsiasi ma siamo più della metà del genere umano a veder minacciato il diritto alla nostra libertà? E quando si dice che le diversità sono più di quelle ascrivibili ai due sessi, a me viene da obiettare qualcosa che mi pare lapalissiano ma probabilmente che non lo è, per questo ve lo sottopongo: davvero pensate (mi rivolgo a chi lo pensa, ovviamente) che la discriminazione che subisce una donna nera sia la stessa di un uomo nero, quella di una donna omosessuale di quella di un uomo omosessuale, quella di una donna disabile…? A me non sembra né dal punto di vista né quantitativo né qualitativo.
    @Laura, sono d’accordo e forse l’impulso a distruggere( pur legittimamente nel caso in questione), più che a costruire è uno di quelli indotti per mortificare, ancora una volta, quello alla creatività, alla propositività che tu e altre e, sì, mi ci metto anch’io se non altro per tutto il lavoro di cui mi (in)carico portiamo avanti, spesso conoscendoci e incoraggiandoci tra di noi soltanto via web. Ma io ringrazio il web anche di questo perché per me è una fortuna avervi incontrate.
    @Loredana, ho riflettuto a voce alta sulla domanda che ci hai posto, come vedi. A me una risposta sembra di averla e spero di averla argomentata. Oltre la risposta è necessaria la proposta. Io propongo di essere noi per prime a sostenere ciò che consideriamo valido, senza aspettarci né di ricevere un sostegno uguale quando saremo noi a proporre, e nemmeno di essere ben accolte nel proporci a sostegno. Lo so che ci si richiede uno sforzo non umano, uno sforzo che a nessun uomo verrebbe chiesto, ma credo che occorra prendere atto delle realtà, investire anche in ciò che non ci ritorna immediatamente, manco con un sorriso, figurarsi un grazie! Lo sto facendo da qualche anno e sono sfinita. La sola cosa con la quale mi rigenero è amplificare in me i pochi sorrisi che ricevo, i pochi riconoscimenti che mi vengono da qualcuna “illuminata” (la mia responsabile, appena trasferita, però) che riesce meglio di me a far agire in sé la consapevolezza del danno che la “miseria simbolica” che agisce fra di noi produce. E poi cerco di incarnare quella consapevolezza, non è la stessa cosa che riceverne i frutti, ma il dovere politico dà frutti un po’ più in là di dove ancora siamo. E’ dura.

  12. donatella, sono d’accordo anch’io con quello che scrivi.
    Sulla questione Petizione Vogue aggiungo un’ultima cosa: nel 2006 il precedente esecutivo, nella persona della ministra Giovanna Melandri, mise a punto il “Manifesto nazionale di autoregolazione della moda italiana contro l’anoressia”, controfirmato dalla Camera Nazionale della Moda Italiana. Il Manifesto puntualizzava la parte di responsabilità del settore (con affermazioni avallate da fonti competenti) e vincolava gli operatori ad impegni ben precisi riguardo ai modelli da proporre e ad una più ampia gamma di taglie da far sfilare.
    Si può presumere che, caduto il governo, gli operatori abbiano tirato un sospiro di sollievo.
    IL testo è leggibile qui:
    http://www.politichegiovaniliesport.it/politiche-giovanili/news-politiche-giovanili/manifesto-nazionale-di-autoregolazione-della-moda-italiana-contro-lanoressia.html

  13. C’è tanto lavoro da fare, occorre far sì che le persone ricomincino a usar la propria testa senza appoggiarsi alla mentalità appoggiata dalla maggioranza (e non è inteso certo in senso politico). Soprattutto occorre che gli individui prendano coscienza che quanto gli accade è propria responsabilità.

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