Sei anni. Che vuoi che siano? Sei anni in cui – ci pensavo ieri sera, di ritorno da un bel tour di presentazioni fra Bologna e Reggio Emilia – i discorsi si sono amplificati ma anche sfilacciati. In sei anni, quelle che erano bambine sono diventate ragazze, e su queste ragazze ci si interroga e ci si chiede perché avvengano certe cose, e perché l’uso del corpo, la concezione stessa del corpo, sia diventato neutro, ininfluente. Non sempre e non per tutte, come ogni volta. Così, commentarium, apro la settimana riproponendo una pagina di Ancora dalla parte delle bambine. Sei anni fa, appunto.
Raunch, ovvero l’osceno, il volgare, significa far diventare comune la versione dozzinale della sessualità femminile. Significa che se un tempo esistevano Playmen e il resto, adesso ci sono i calendari modellati su Playmen dentro il resto. Significa, insomma, che l’atteggiamento pornografico presiede al modo di concepire televisione, giornali, libri. Leggendo il Dizionario della pornografia curato da Philippe Di Folco, si ha la testimonianza di quanto il porno trasmigri nei media generalisti. E se il quotidiano Libération, nell’agosto 2004, illustra tranquillamente un articolo con la foto di una penetrazione, la pubblicità arriva a citare con frequenza ormai altissima posizioni e varianti del sesso: è il caso di una nota marca di gelati, ma anche di quella linea di abbigliamento giovanile che tappezza le città italiane con l’immagine di una modella – sia pur vestita – che simula la masturbazione. Quanto alla televisione, nel dizionario viene individuata senza mezzi termini come “il mezzo pornografico per eccellenza”. Le prove? Nell’idea di reclusione e di ripresa in tempo reale degli atti dei prigionieri che è il fondamento dei reality (i quali, peraltro, usufruiscono delle stesse luci “a doccia” del cinema hard-core). Ma anche talk-show e telefilm, sostiene il documentarista Tancréde Ramonet , hanno fatto proprio il dispositivo principe della pornografia, quello che prescinde dallo stesso atto sessuale: “trivialità della situazione, impudicizia di chi si esibisce e indecenza dello sguardo del voyeur”.
A monte del reggiseno a vista e delle labbra gonfie che anche la più intelligente delle ospiti di un dibattito si sente, a differenza dei colleghi maschi, obbligata ad esibire, c’è il malinteso concetto per cui un essere umano che ha raggiunto la presunta liberazione dagli stereotipi possa usare i medesimi per divertirsi. Sarebbe bellissimo, se fosse davvero così: era lo stesso principio secondo il quale il femminismo degli anni Settanta giocava con le antiche e pericolose simbologie che avevano incatenato le donne alla luna, alla stregoneria, ai cerchi magici (i girotondi) e financo alle marmellate. Ma giocare con i simboli, e con gli stereotipi, presuppone una consapevolezza così potente e così granitica del gioco medesimo che è molto difficile non restarne scottati.
Valga il solo esempio, citato ancora da Ariel Levy, delle olimpioniche di Atene 2004 che posano nude per Playboy e seminude per For Him Magazine: “Su FHM si vede la campionessa di salto in alto Amy Acuff sdraiata per terra, con occhi socchiusi, capelli biondi sparsi attorno a sé e cosce all’aria (a poche pagine dal sex-quiz: “Hai mai partecipato a un’ammucchiata?” e relativa risposta: “Beh, altrimenti per quale motivo i miei genitori avrebbero sborsato più di centomila dollari per mandarmi al college?”)”. Acuff, probabilmente, ha pensato che in fondo si trattava –appunto- di giocare.
Raunch, inoltre, non significa liberare la pornografia, e tanto meno la sessualità, dalla stretta censoria del femminismo radicale che era arrivato ad equiparare la penetrazione maschile allo stupro. Paradossalmente, ha quasi il significato contrario: laddove moltiplica ad un punto tale l’atteggiamento (e l’abbigliamento) della pornostar da creare un’ulteriore – e pericolosa – illusione ottica. Far credere alle donne, cioè, che il proprio potere passi per l’esibizione disinvolta del proprio corpo: esattamente allo stesso modo in cui la candidata di Miss Italia 1984 immaginava di poter usare il concorso, e non il contrario. Di più: accentrando la massima visibilità sulla carne femminile, esposta, manipolata, gonfiata (tra il 1994 e il 2004 le richieste annuali di ritocco al seno aumentano del 700 per cento solo negli Stati Uniti), tagliata quando serve, si lascia in ombra tutto il resto, e ci si dimentica che la strada fatta è in realtà poca. E che, nel pendolo oscillante fra volgarità e neopuritanesimo, sembra essersi persa ogni traccia del concetto di individuo giudicabile per la propria storia e non per la propria appartenenza sessuale. Scrive, giustamente, il filosofo Mario Perniola sul numero 12 di Agalma:
“Con la Raunch Culture si assiste alla resa incondizionata del femminismo all’ideologia del consumismo neo-liberale e alla mercificazione completa dell’immagine del corpo, secondo i dettami di ciò che i francesi chiamano la pornoisation pubblicitaria. Ovviamente il contraltare di tutto ciò e la proposta di punire legalmente come sexual harassment ogni manifestazione di galanteria.”
Strette in una morsa fra un universo femminile che sembra gratificarsi della propria oscenità e un’altra, cospicua parte del medesimo, che agita lo spettro moralizzatore della censura, la nuova bambina, che in quel mondo è comunque immersa anche se guarda solo Dvd della Disney, ha quanto meno la sensazione di una confusione crescente nel mondo degli adulti. Che a forza di essersi tenuti fuori dai contenuti veicolati dalla tecnologia (per condannarla in sé), finiscono per confondere – loro sì- rappresentazione e reale. E in questo senso è vero che certe sperimentazioni sessuali (la masturbazione filmata e spedita via cellulare fra compagni delle medie, la facilità al sesso orale e pubblico esibita da parte delle tweens americane e no) sono più che altro sperimentazioni mediatiche: ma la motivazione prescinde dall’esistenza dei mezzi tecnologici, e si lega molto di più all’idea di usare il corpo come scorciatoia per ottenere un riconoscimento sociale. “Vestirsi da troia”, come dichiara una ragazzina quattordicenne alla Levy, significa diventare “la ragazza più desiderata della scuola”. Come nelle centinaia di telefilm (e libri) ad uso adolescenziale, e del loro equivalente per adulte.
Sei anni fa lessi il tuo libro su consiglio della mia insegnante di italiano, mi diplomai e feci la tesina sulla questione femminile. Da sei anni sono una militante femminista, e il tuo libro ha fatto gran parte del lavoro.
Un ottimo esempio di raunch culture è la principessa del videogioco Dragons’ Lair, famoso all’epoca della sua uscita (anni ’80). L’ennesima storia del cavaliere che deve salvare la principessa, solo che in un mondo simil medievale la principessa Daphne sembra uscita da un set di playboy
http://www.gamesradar.com/the-top-7-damsels-you-dont-want-to-save/?page=7