Farah veniva dall’Iran, sposò un uomo americano, per condividerne il sogno. Venne chiusa in casa, umiliata, isolata, picchiata. Finché non arrivò il giorno in cui non potè più, mai più, rispondere al telefono. Andrenna aveva 72 anni. Suo marito, 76, guidò dalla Pennsylvania a Newberry per spararle in testa. Diciottenne era Sierra, uccisa dal fidanzatino. Ventotto erano gli anni di Kia, ammazzata dal marito insieme ai suoi due bambini.
Le loro storie sono state raccontate da un piccolo giornale della South Carolina, The Post and Courier, un giornale locale con una redazione di ottanta persone, di colpo famosissimo per aver vinto il Premio Pulitzer “per il pubblico servizio”, portando a casa un riconoscimento che fin qui era andato a testate di ben altro peso come Washington Post e The Guardian. Le motivazioni del premio spiegano che i reportage dal titolo Till death do us part hanno chiarito perché il South Carolina sia tra gli Stati con il più alto tasso di mortalità tra le donne e affrontato la questione di cosa è possibile fare.
Bene, leggete. Leggete delle trecento donne uccise in dieci anni e dell’incapacità di fermare quelle morti. Leggete le storie.
E poi pensiamoci su. Pensiamo a come si parla di femminicidio in Italia, con sempre maggiore fatica. Pensiamo quanto all’empatia e alla forza narrativa di alcune inchieste (per citarne solo due, quella di Riccardo Iacona per Presa Diretta e Chiarelettere, quella delle 27ma ora) si stia sostituendo il desiderio, un po’ stanco, di rientrare nel filone giusto, quello che porta a segnalarti un libro “perché dentro c’è l’assassinio di una donna” e non perché quel libro racconta con forza quella storia. Quello del ci tocca fare pure questa, dove solertissime giornaliste intervistano la femminista di turno, salvo poi spettegolare su Facebook di quanto fosse antipatica (non fatelo mai, care: Facebook è un mondo piccolissimo, e il pettegolezzo di questo tipo vi svaluta professionalmente, ché della parte umana non si mette conto, supponiamo).
Pensiamoci, e senza dirvi cosa occorrerebbe fare (non oso rivendicare a me questo diritto, sia mai che qualcuna pensasse che voglio parlare in suo nome: parlo nel mio), mi limito ad aspettare in compagnia di chi lo desidera che arrivi una storia in grado di spazzare via dubbi, derive securitarie, battutacce da social. Una storia come quella da cui tutto cominciò, inclusa la parola femminicidio. E, se ricordate, cominciò così:
“In luglio non ci fu nessuna vittima. E nemmeno in agosto.
In quei giorni « La Razon », un giornale della capitale, inviò Sergio Gonzalez a fare un reportage sul Penitente: Sergio Gonzalez aveva trentacinque anni, aveva appena divorziato e doveva guadagnare soldi a ogni costo. Normalmente non avrebbe accettato l’incarico, perchè non era un giornalista di cronaca nera ma delle pagine culturali. Recensiva libri di filosofia, che peraltro nessuno leggeva, nè i libri nè le recensioni, e di tanto in tanto scriveva di musica e mostre di pittura….Gli era giunta così la proposta di recarsi a Santa Teresa, scrivere la cronaca del Penitente e rientrare….Così nel luglio 1993 Sergio Gonzales prese un aereo fino a Hermosillo e di là una corriera fino a Santa Teresa…..conversò a lungo con i giornalisti che seguivano il caso del Penitente…..Sergio Gonzalez venne a sapere che a Santa Teresa, oltre al famoso Penitente, veniva assassinato un gran numero di donne, e la maggior parte degli omicidi restava impunita….”
[ Roberto Bolaño – 2666 ,vol.2 “la parte dei delitti” pag. 42-46]
Il Sergio Gonzalez del romanzo è Sergio González Rodríguez, autore di Ossa nel deserto, dove racconta quello che è diventato il femminicidio per eccellenza: Ciudad Juárez, nello Stato messicano del Chihuahua. Lo stesso Bolaño, alla domanda su come si immaginasse l’inferno, rispose:
“Come Ciudad Juàrez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”.
Non crede che importare, pur riadattandola, la narrazione di un Bolaño o di un Rodrìguez per il contesto italiano sia una forzatura di parentela che onestamente non ci sta per niente? I diritti umani sono una cosa seria e non si dovrebbe drammatizzare un fenomeno come il femminicidio che in Italia non esiste solo perché si vuol migliorare la condizione femminile amando autori che vivono e raccontano realtà completamente diverse . Per i due autori, e il mondo che descrivono, il femminicido è davvero omicidio di una donna in quanto donna, perché donna, indipendentemente dalla relazione umana o amorosa esistente tra omicida e vittima, che non lì non c’è bensì è solo funzione di gerarchie di genere e diverbi economici quasi sempre in un contesto di criminalità efferata.
Io credo che la maggior parte delle italiane e degli italiani (giornaliste comprese) semplicemente non riconosca il femminicidio come pertinente alla nostra realtà. Oh: pertinente in termini qualitatitivi perché, lo si è letto e appurato fortunatamente tante volte, quantitativamente anche l’omicidio con vittima femminile da parte di un un partner o ex rientra in numeri bassissimi e comunque tra i più civili al mondo (secondo posto).
Ergo…
No, non lo credo, hommequirit. Così come non credo che delle migliaia di parole qui scritte sul femminicidio, e sulle statistiche, e sul significato culturale del medesimo (eccetera) ne abbia realmente letta una. Sia felice (altrove).
Ubu (hommequirit? Di chi o di che cosa ride, quest’uomo!?) rappresenta plasticamente il livello di rimozione che infesta la nostra società su questo e su tutti gli altri temi “sensibili” della nostra vita storica e sociale: il problema è che in questo noi italiani siamo maestri, forse pareggiati solo da turchi e giapponesi riguardo certi loro massacri passati. Ma per vastità di situazioni e per ampiezza temporale, noi italiani davvero non battiamo nessuno.