Complice il film Mia madre di Nanni Moretti, serpeggia una polemica nei confronti dell'”orfanismo sessantenne”. Intendesi con il medesimo l’incapacità di chi, giunto alla soglia dei sessanta, e dunque della vecchiaia, non si rassegna alla scomparsa di chi l’ha messo al mondo, ne soffre, e racconta quella sofferenza. Scrive la sempre brillante (e realmente bravissima) Mariarosa Mancuso su Il Foglio di sabato scorso:
“La mamma è la mamma, perderla addolora, ma a sessant’anni forse la scomparsa andrebbe messa in conto, altro sarebbe restare orfani quando la parola ha un senso. Diciamo per stare larghi prima dei trenta, visto che neppure le età son più quelle di un tempo, e un romanziere che debutta a quarant’anni viene ancora considerato un giovanotto. Qui si orfani adulti, appartenenti alla generazione che ha prolungato la giovinezza oltre ogni ragionevole scadenza, fragili e sbalestrati nell’età in cui i genitori si apprestavano a diventare nonni”.
Il dolore per la perdita della madre, negli orfani sessantenni, altro non sarebbe che il dolore per la propria vecchiaia e morte imminente, acuito in chi non riesce a vedersi altro che giovane, a dispetto delle rughe e dei reumatismi. “Non esistono orfanatrofi per adulti”, scrive ancora Mancuso. E’ vero, e neppure per gli orfani propriamente detti, quelli legittimi, che tali, cioè, sono divenuti prima dei trent’anni, come se esistesse una generazione TQ anche nel lutto. La tesi, va detto, trova non pochi riscontri, a volte apertamente cinici e sbeffeggianti, a volte simil pensosi, nel grazioso mondo della rete: a sessant’anni dovete aspettarvelo, a trenta avete il diritto di piangere.
Bene, non ho visto il film di Nanni Moretti e con ogni probabilità, da fresca orfana cinquantottenne, non lo vedrò per un po’, dal momento che, per il divertimento della platea cinica, rischierei di consumarci davanti il fatidico pacchettino di kleenex a prescindere dalla validità del film, visto che lo consumo comunque appena vado in giardino e vedo fiorire il limone che a mia madre piaceva tanto. Però i TQ del dolore mi fanno pensare, e potendo anche esibire il patentino di orfana ventinovenne (l’età in cui morì mio padre) approfitto per cercare di mettere in ordine quello che mi viene in mente.
Simone de Beauvoir, per esempio, perse la madre quando era ormai ultracinquantenne: teoricamente aveva avuto anche lei tutto il tempo per prepararsi all’idea. Eppure anche lei racconta quella perdita, in Una morte dolcissima. Con queste parole:
“Per me, mia madre era esistita sempre e non avevo mai pensato che l’avrei veduta scomparire un giorno, un giorno assai prossimo. La sua fine si situava, come la sua nascita, in un tempo mitico”.
Annie Ernaux, per citarne un’altra, sfiora i cinquanta quando scrive Une femme, sulla morte della madre. Nove anni dopo torna su quel lutto con Je ne suis pas sortie de ma nuit. Forse Ernaux, nata nel 1940, potrebbe rientrare in quella generazione così testarda e così detestata (anche a ragione, per carità) che non si prepara abbastanza alla naturale assenza dei genitori. O forse la morte della madre pone a qualsiasi essere umano, che lo si voglia o meno, la questione del dolore irreparabile: e, certo, anche quella di un nuovo tempo dove le nostre spalle non sono più coperte. Dove, in breve, ci si rende conto con angoscia che la prossima volta tocca a te.
Faccenda che credo non lasci indifferente nessuno, cinici e sentimentali che siano: perché sarà pur vero che Oscar Wilde, morendo in una brutta stanza, abbia detto “O se ne va quella tappezzeria o me ne vado io”. Ma è assai probabile che angoscia, paura, sofferenza dilagassero sotto il sarcasmo: anche perché Oscar Wilde ha pur scritto un testo tutt’altro che cinico come De profundis. E quanto a Giovanni Pascoli, irriso da Arbasino (nella recensione, Mancuso riporta alcuni brani di Certi romanzi a lui dedicati) come Orfanello perenne, fatta salva la psicopatologia, varrebbe la pena sottolineare quanti abbagli abbia preso il Gruppo 63 con i suoi lapidari giudizi: perché non solo I poemi conviviali valgono cento esperimenti del gruppo medesimo, ma anche i romanzi degli assai irrisi Bassani e Cassola hanno dimostrato, nel tempo, chi avesse ragione.
Detto questo, e sventolando il patentino, mi chiedo: l’Orfano vero è quello che ha meno di trent’anni? Balle. Si soffre a trenta come a sessanta, sia che la perdita sia, come avviene a trenta, fulminea, sia che sia presagita, come avviene a sessanta. Mia madre perse la sua, novantacinquenne, quando ne aveva settantacinque: e apparteneva alla generazione che aveva attraversato una guerra e non si riteneva affatto immortale. Eppure, non era preparata, e ne soffrì immensamente. Non si soffre di meno quando chi ti lascia è anziano o molto anziano: ricordo di aver chiamato a raccolta il mio pur scarso autocontrollo quando, in un sms, mi è stato scritto di non soffrire troppo, perché mia madre era comunque vecchia e malata. Al diavolo, era mia madre.
Forse il simpatico gruppo cinico nasconde meglio il dolore (giusto, bravi), o lo esorcizza, o ha talmente tanti sacrosanti motivi per avercela con i sessantenni (giustissimo, bravissimi) che si aggrappa a tutto, lutti inclusi. Però, in un momento in cui dichiarare e raccontare sofferenza sembra cosa brutta e poco divertente, penso che sia indispensabile continuare a narrarla. Anche male, volendo. Perché nel dolore ci si rispecchia tutti. Le battute, dopo un po’, stufano.
Ma quando sarà che la smetteremo di fare di ogni cosa una questione epocale, generazionale o sociale? Ma un po’ di autonomia, di non conformismo, di personalità, almeno nei sentimenti non sarebbe un valore aggiunto ineguagliabile?
Il lutto era un rito imprescindibile. Anche se si era preparati alla separazione. Il lutto serve a chi rimane per avere il suo spazio intoccabile di crescita e di sperimentazione del dolore. È un peccato che sia diventato un orpello da gettare via. Ovviamente ognuno lo vivrà a suo modo. Ma che lo si viva. Senza fuggire da una grande esperienza di crescita.
E raccontandola. Giusto ora mi si scrive su FB che bisognerebbe soffrire in silenzio. E perché mai?
Anch’io penso che aspetterò un po’ di tempo ancora per vedere il film di Moretti.Troppe emozioni.Ho perso mia madre di 87 anni,che avevo seguito con amore,tre anni fa, io all’epoca di anni ne avevo 60.
Giusto raccontare. Quello chi so e dovevo dire in merito alla madre e all’essere orfani l’ho scritto anni fa nel tuttora inedito – che devo proprio sbrigarmi a rendere leggibile (anche se tu Lo l’hai letto)
errata corrige: “quello che so”
Ecco. Forse è questa una della questioni. La morte e il morire vengono spettacolarizzate, o rimosse. Come il dolore. E vengono considerate come un fatto esclusivamente privato, forse. che il dolore e la morte non sono opportuni, e comunque sono “tuoi”. Forse invece raccontare e ascoltarsi, è sono l’unica strada per renderle più sopportabili, per continuare a far vivere quello che le persone sono state…
Ho quarant’anni, ho già incontrato la morte, ma non così da vicino come succede quando muore un genitore. Eppure mi capita spesso di pensare a quando succederà, e di sperare che accada tardi, che sia una morte come loro la desiderano, e che io possa trovare riti e persone per attraversare il dolore… È troppo?
Grazie, davvero, per questa condivisione.
Sara ogni morte è unica. Può darsi che il più tardi possibile ti troverai a sperare che sia una morte pietosa e rapida. Ti troverai, come è successo a me, di scegliere di non intervenire più, durante le crisi.
Perchè magari il male si incastra fra i nostri genitori e il loro corpo lasciando però lucida la mente e vuote le parole (ah la potenza inaudita della volontá di mia madre in coma da dieci ore, che si torce, rotea gli occhi e sbava per allontanare il prete che le vicine, inconsapevoli, avevano fatto venire per darle l’estrema unzione…).
Eppure avremmo giurato fino ad un attimo prima che non l’avremmo mai lasciata andare…
E ci saranno le persone giuste. I riti li scoprirai e li inventerai tu. Come le veglie nella stanza accanto col caffè portato dalla dirimpettaia, il pranzo al mare dopo il funerale con tutti quelli che non temono di proseguire la vita con la benedizione di chi è andato, il cibo rituale ebraico… tutto questo esiste e non se ne parla e si lasciano i già soli nell’angoscia. Ma che mondo è quello che tabuizza la morte?
E anch’io cinquantottenne mi rispecchio qui .Silenziosamente e di nascosto la sua mancanza é l’urlo che esplode, lo strappo non ricucito , la malinconia dell’assenza , la dolcezza del ricordo. “Di mamma ce n’é una sola” ma il dolore é plurale e senza età.
Già. Morire oggi è faccenda imbarazzante. Rallenta i tempi frettolosi, costringe a facce smunte, pallide, struccate. Infreddolisce i corpi, restituisce loro i segni della vita che passa per forza. Mamma per me c’è ancora e, per ora, camminiamo ancora insieme. Ascolto il racconto di chi non ce l’ha più e sento fin d’ora che, dopo, il mio sarà un incedere incerto, in un tempo orfano di sguardi protetti.
Condividere è l’unico modo per convivere con il dolore. Di quanto avvenuto dopo la morte di mia madre, ricordo proprio l’invito degli amici di mia figlia a celebrarla secondo la tradizione ebraica. I calici in alto, a toccarsi, e un omaggio al suo nome. Quel gruppo di ventenni che tocca i bicchieri gridando “a Maria!” mi ha reso dolce, sia pure per un momento, non poterla più avere con me. Questo è un racconto, come lo sono i vostri. Raccontare è ricordare. E, sinceramente, della battuta scintillante che ottiene molti “mi piace” e attira altre battute scintillanti, non ne posso più. E forse non sono la sola a pensare che se un tempo le risate seppellivano, ora finiscono per seppellire i ridanciani.
Mi dispiace per tua mamma Loredana, non lo sapevo. Quando è morta mia nonna ho trovato di grande consolazione il momento del funerale. Che poi se non si dovrebbe sentirsi orfani di un genitore perché si è troppo vecchi, che si dovrebbe dire quando ti muore una nonna?
Se dovessi dire che cosa manca ai nostri funerali, penso che sia il pasto consumato con amici e parenti. Mi dicono che al nord questa tradizione c’era ma che si è persa con il boom economico, a quanto so resiste al sud e sicuramente in alcune zone del nord Europa. Ho partecipato a uno di questi pasti a 20 anni durante l’Erasmus ed è stata più la sorpresa e lo confesso, il fastidio perché mi sembrava inopportuno mangiare e bere dopo la morte di una persona. La seconda volta a quasi 40 anni per uno zio di mio marito e lì invece ho capito il senso profondo di questa condivisione, piangi perché è morto tuo zio ma puoi vedere i tuoi cugini e i figli dei tuoi cugini e sentire la vicinanza della comunità. E’ stata una cosa che mi ha toccata tanto.
Bacioni
Grazie, a tutte…
Ultimo. Ho incontrato tanti libri meravigliosi, di quelli detti per l’infanzia, di cui mi sono nutrita e che propongo e rileggo, e riguardo. Uno degli ultimi è Ho lasciato la mia anima al vento, di R. M. Galliez- É. Puybaret- V. Lamarque, Emme edizioni. E una canzone, La morte (non esiste più) dei Baustelle.
E Un giorno, A. Mcghee e P. Reynolds… Madre e figlia…
proprio ieri sotto il sole primaverile stavo parlando dell’argomento nei tavolini di un bar. E ho detto che la morte di mia madre a 56 anni(io ne avevo 29) è stata una bomba atomica dello spirito che mi ha lasciato afasico(e molto altro). Mio padre ha rasentato gli 80 e a dispetto del fatto che nei suoi ultimi 12 mesi ci fosse l’ambulanza sotto casa con una cadenza settimanale e che conoscessi gli oroscopi di tutto il personale del reparto di medicina non mi impedì di rispondere con un bel No alla domanda di una caregiver di fortuna(la domanda nel caso specifico era: ti senti preparato per la partenza di papà?)
https://www.youtube.com/watch?v=8yZ50ptDpuQ
Ho appena visto il film “Mia madre”: mi ha solo annoiato. L’ho trovato fasullo e inutile. Non mi è spuntata nessuna lacrima.
“Non è il lutto, che si fa per conto suo, a essere il vero lavoro. Il vero lavoro si fa in senso inverso, impedendo che tutto ciò che è stato scompaia nel gelo nauseante dell’oblio. Non c’è grandezza nel dolore superato; c’è grandezza in quella corrosione, che il ricordo nella sua forma più acida rinnova in perpetuo”.
Philippe Forest, Tutti i bambini tranne uno.
Si può decidere di amare un dolore, di non volerlo affatto superare.
Grazie.
Stiamo perdendo il senso della compassione e dell’empatia . Ecco il punto . E’ insensato porre una “soglia” anagrafica al dolore per la perdita di un genitore . Ho già incontrato la morte in svariate forme e a diverse età ( ho cinquant’anni ) – diciamo che i patentini non mi mancano, per così dire .. Ma proprio per questo dico che non si possono fare gradazioni di lutto a seconda dell’età o delle modalità . E anche se fosse vero che la perdita di una madre in età “matura” ci smarrisce perchè ci fa intravvedere la nostra stessa morte futura ..: e allora ? Non troverei “scandaloso” che colei che ti ha dato a suo tempo la vita evochi in qualche modo l’inevitabile epilogo del nostro ciclo sulla terra . Forse si farebbe meglio appunto a smettere di fare battute brillantemente vuote e riflettere sul fatto che il dolore e la morte – altrui e nostra – sono una cosa seria e degna di partecipazione o almeno di compassione . Non certo da rimuovere . Ognuno poi si darà le sue strategie di sopravvivenza . Infine , il film di Moretti l’ho visto e l’ho trovato sincero e autentico. Forse non è fra i miei preferiti di questo regista ( che apprezzo da sempre , lo ammetto ) . Ma alla fine – con il suo tono tutto sommato sommesso – ti lascia un gusto agrodolce , per niente melenso – con un costante rispetto per le diverse stagioni , le sue ombre , le mancanze che ci segnano , il fluire stesso infine dell’esistenza adulta .
Mia madre mi ripete spesso questa frase: “Mi sono sentita veramente orfana e sola quando ho perso mia madre, non prima. Te ne accorgerai quando capiterà anche a te”. Eppure quando è morta mia nonna, mia madre aveva 31 anni e già 2 figli.
Il film di Moretti mi ha toccato moltissimo, l’ho trovato davvero onesto ed equilibrato dal punto di vista cinematografico, di sceneggiatura; avendo appena passato 2 lutti importanti preceduti da 2 annesse lunghe malattie, mi sono riconosciuto pure in molti dei comportamenti messi in scena da Margherita Buy e da Nanni Moretti-attore.
@Loredana: credo che tu possa andarlo a vedere, questo bel film. Tra l’altro ha un finale che mi è piaciuto davvero tanto e che è un vero invito alla speranza e a superare il lutto gettandosi nella vita. Quanto ai Kleenex… perché no?
forse la mancuso alludeva ad altro, prendendo spunto dal film di moretti, e cioè al fatto che le rappresentazioni della morte di un genitore molto anziano dovrebbero evitare di somigliare a quei necrologi che usano avverbi tipo “prematuramente” per denunciare la dipartita di un novantasettenne. non credo che sia una questione di battute brillanti, che in un certo senso sono la risposta speculare al patetismo e ai toni agiografici.