COSTRUIRE MARCHI, POSSEDERE COSE, CAPIRE L’IMMATERIALE

Undici anni dopo “No Logo”, Naomi Klein accetta di scrivere un articolo per The Guardian: è il 20 luglio 2011 e molte cose sono cambiate dagli anni della “bibbia del movimento no-global”. Intanto, lo slogan di L’Oreal è passato da “perché io valgo” a “perché voi valete”. In poche parole, non è il più il marchio a cercarti e a convincerti ad entrare nel suo mondo, ma ti chiede, molto democraticamente, di costruirlo.
Nel 2009, ricorda Klein, “la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea. Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.
In realtà fa di più e di meglio. A costo zero, fa di te un logo: mettendo in atto una semplice mossa da arte marziale, la tecnica di rovesciamento. Così, ricorda sempre Klein, le idee e le parole d’ordine del movimento “no logo” vengono assorbiti “nelle nuove campagne pubblicitarie della Nike, di Benetton e della Apple”.
In particolare, Klein scrive:
“Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.
Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.
Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il mondo.”
E’ da stupidi possedere cose, ma le cose possiedono noi, nel profondo, proprio perchè ci appaiono “immateriali” pur potendo essere toccate e usate. Nei lunghi discorsi di questi giorni sul lavoro culturale, si torna sempre qui: cosa abbiamo capito dell’immateriale, nonostante siano passati lustri?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto