Ieri mattina, durante la conversazione sui complotti a Colloquia, a Foggia, uno dei temi emersi era, in verità, non nuovo: l’allontanamento dai media tradizionali. Meno giornali, meno televisione, molti social. Non è una questione di colpe e responsabilità: volendo, possiamo provare a elencarle una per una, perché indubbiamente ci sono e sono tante. Quello che dovrebbe interessarci è il ripiegamento generale sull’io. Sì, lo so, l’ho scritto centinaia di volte, sta diventando una litania: eppure continuo a vederlo come il grande problema dei nostri anni. Perché questo accartocciarsi su se stessi, oltretutto, non appaga, non rende felici, non dà soddisfazione alcuna: al massimo, ci esime dall’interrogarci sulle nostre vite e su come potremmo cambiarle e sui passi che potremmo fare e che magari faremmo se non additassimo una causa esterna per la nostra infelicità. Il grande o piccolo complotto, appunto, o semplicemente quella che ci appare come miglior fortuna altrui, o addirittura immeritato privilegio.
Ecco, sempre a proposito di lavoro culturale, non mi sembra che in questa fase la letteratura abbia compreso fino in fondo quel che sta avvenendo. Per esigenze personali, o per assolvere alla richiesta crescente di autonarrazioni, anche molta letteratura si ripiega su di sé, producendo anche ottimi libri, di grande valore linguistico e contenutistico, ma, appunto, solitari, non mi viene definizione migliore.
Per non ripetermi troppo, uso parole non mie. Parole fuori tempo. Parole del 1945. Parole di Jean-Paul Sartre per presentazione di “Temps Modernes”:
“Noi non vogliamo aver vergogna di scrivere, e non abbiamo voglia di parlare senza dire niente. Del resto, anche se ce lo augurassimo non ci riusciremmo: nessuno può riuscirci. Ogni scritto possiede un senso, anche se assai diverso da quello che l’autore aveva creduto di infondergli. Per noi, in realtà, lo scrittore non è né Vestale né Ariele: è “implicato”, qualsiasi cosa faccia, segnato, compromesso, sin nel suo rifugio più appartato. E se, in certe epoche, usa la propria arte per costruire gingilli d’inanità sonora, anche questo è un segno: vuol dire che le lettere e, senza dubbio, la società sono in crisi; oppure vuol dire che le classi dirigenti lo hanno polarizzato, senza che lui lo sospettasse, verso un’attività di lusso, per timore che andasse a infoltire le truppe rivoluzionarie. […] Noi non vogliamo perdere niente del nostro tempo; forse ce n’è di meglio, ma è il nostro tempo; non abbiamo che questa vita da vivere, con questa guerra, questa rivoluzione, forse. Non se ne deduca, però, che vogliamo predicare una specie di populismo: al contrario. Il populismo è un figlio di vecchi, il triste rampollo degli ultimi realisti; è ancora un tentativo di cavarsela a buon mercato. Noi siamo convinti, invece, che non si può cavarsela a buon mercato. Fossimo anche muti e quieti come sassi, la nostra passività sarebbe ugualmente un’azione. Qualcuno potrebbe consacrare la vita a scrivere romanzi sugli Ittiti; ma la sua astensione sarebbe di per sé una presa di posizione. Lo scrittore è “in situazione” nella sua epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche. […] In conclusione, è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella società che ci circonda. E con questo non intendiamo un mutamento di anime: lasciamo ben volentieri la direzione delle anime agli autori che hanno una clientela specializzata. Noi che, senza essere materialisti non abbiamo mai distinto l’anima dal corpo e non conosciamo che una sola, indecomponibile realtà, quella umana, noi ci schieriamo al fianco di chi vuole mutare insieme la condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso. […] Se potremo mantenere quanto ci siamo ripromessi, se potremo far condividere i nostri punti di vista a qualche lettore, non ne trarremo un orgoglio esagerato; ci feliciteremo semplicemente d’aver ritrovato una buona coscienza professionale, e del fatto che, almeno per noi, la letteratura sia tornata a essere quella che non avrebbe mai dovuto cessare d’essere: una funzione sociale”.