STORIE DI ACQUA

Penso alle Marche, in questi giorni. Ci penso egoisticamente, come sempre mi accade quando per qualche motivo sono lontana. Manco da fine gennaio, e a gennaio non mi sono neanche fermata a dormire a casa mia, perché ero impegnata a Macerata per I giorni della merla. Manco da gennaio e per quel moltiplicarsi di impegni e accelerazione forsennata del tempo cui siamo sottoposti in questo periodo non ci tornerò che a fine maggio. Manco, mi manca. Non riesco a scrivere, o se scrivo lo faccio stentatamente, perché non ho la distensione necessaria, e i miei occhi, quando li sollevo dal computer, non vedono il Montigno. Manco e provo a celebrare a mio modo.
Non sono molto abituata ad associarmi alle celebrazioni e alle giornate dedicate. Ma oggi, giornata dell’acqua, dirò dell’acqua.
Perché  i paesi delle Marche sono luoghi d’acqua, da secoli,  e l’acqua segna la via per i santi che benedicono le sorgenti e per gli alchimisti che le usano per la loro arte e per i negromanti che tuffano nei laghi i libri del comando, e per difendere le acque e i confini sorgevano i castelli, a Tufo e Serramula, e uno a Pioraco e uno a Campolarzo, e uno a Elci e uno a Serravalle di Chienti, che era l’ultima strettoia per chi viaggiava verso Roma, perché una volta superate le rovine del castello, che allora non era in rovina, si apriva la distesa dell’altopiano e il verde dei pascoli e dei boschi. Così, nell’Ottocento, alcuni viaggiatori si fermarono, perché dove ci sono boschi c’è carbone e di carbonai si aveva un gran bisogno, e fu così che la vecchia porta militare e luogo di passaggio divenne un paese dove abitare.
L’acqua, sì. Erano santi d’acqua, quelli che passavano di qui, o qui nascevano e morivano. San Venanzio da Camerino, per dire, è chiamato il santo acquaiolo perché eremitava sui fiumi finché non venne catturato e condannato a morte, essendosi rifiutato di tornare al culto degli dei pagani, e mentre tornava da Roma con appesa al collo la condanna medesima, si era fermato nelle vicinanze di Camerino perché i cavalli dei soldati avevano sete, e con un gesto della mano o qualcuno dice con una spada sottratta a uno dei custodi, trafisse la roccia dalla quale sgorgò l’acqua. Questo non gli evitò il martirio, e non gli venne risparmiato nulla di quanto si fa ai martiri: flagellazioni, pene di fumo, fuoco, cavalletto. Niente, ne usciva sempre incolume, e ogni volta i persecutori si convertivano. Tentano di nuovo, con più ferocia: gli fratturano i denti e la mandibola, gli pongono carboni accesi sulla testa, lo gettano in un letamaio. Lo danno in pasto ai leoni affamati che si accucciano ai suoi piedi. Lo gettano dalle mura e lo ritrovano sano e salvo che canta lodi a Dio. Infine, legato e trascinato attraverso le sterpaglie, fa sgorgare un’altra sorgente per dissetare i soldati, e quando riescono a decapitarlo, altre tre zampillano ai tre rimbalzi della sua testa sul suolo.
Qui, nei paesi,  si venera  il Beato Angelo da Acquapagana, che riuscì a trasformare i suoi luoghi da demoniaci in santi. Perché tutto è doppio, nei confini, e ad Acquapagana c’era una sorgente di acqua maledetta, così gli abitanti intimoriti la ostruirono con balle di lana e le acque ricomparvero a Rasiglia, dove si fermò cocciutamente una Madonnella di terracotta. Il beato Angelo era un frate laico converso che pregava molto nel monastero di Valdicastro e infine decise di rifugiarsi in eremitaggio in una grotta, ignorando le tentazioni di Satana, e ignorando anche la lunga e dolorosa malattia salutata anzi con grida di gioia, perché il Signore lo aveva fatto degno di soffrire e infine qui morì inginocchiato davanti al crocefisso e le campane del monastero suonarono da sole e infine venne sepolto nella chiesa di Acquapagana, tranne una tibia, che venne portata a Matelica.
Qui scopri santuari terapeutici a ogni passo, e scritti sui santuari stessi curati da pazienti studiosi locali o dagli studenti delle medie di trent’anni fa. Se fosse una mappa, su un punto ci sarebbe S.Maria di Giacobbe, sul monte di Pale, dove la pia donna che si era recata al sepolcro con la mirra per ungere il cadavere di Gesù venne a fare penitenza. Se fosse una mappa, bisognerebbe disegnare un microscopico corteo di dolenti che va al santuario per evitare la morte a chi si ama,  sette ragazze giovani e una donna adulta, come si usa qui, che prima di percorrere il sentiero a piedi scalzi devono purificarsi nell’acqua o mettendo il piede nell’impronta scavata nella roccia che corrisponde al tacco della scarpa di Maria mirrofora. Otto donne, sette vergini e un’adulta, perché l’otto rende sacro il numero grazie alla resurrezione avvenuta nell’ottavo giorno, e l’otto rovesciato è infatti il simbolo dell’infinito ed eterno, mentre sette sarebbe stato un problema, sette sono i sigilli e Sette uno dei nomi di Ishtar, Ecate, Axieros.
Oppure puoi andare a Rasiglia dove sgorgano le acque pagane poi convertite, a cercare Santa Maria delle Grazie dove la madonnina di terracotta volle fermarsi invece di andare a Verchiano che era la sua destinazione, e un tempo proteggeva dalla peste e oggi riceve ancora gli ex voto. Uno “per pioggia”, il 20 maggio 1865, un altro, collettivo, dai ventidue ostaggi catturati dai tedeschi il 18 giugno 1944 e miracolosamente liberati dagli inglesi a tarda sera, un altro perché si è usciti vivi dalla carrozza investita da un treno. L’acqua della fonte di Rasiglia guarisce e fino a non molto tempo fa era una donna, Clara, a ricoprire il ruolo di eremita nel santuario, e dunque sorella Clara mandava l’acqua ai malati o toccava con un oggetto del malato la veste della madonnella. Che era potente, perché un giorno, si dice, una donna di Roviglieto soffocò involontariamente nel sonno il bambino che dormiva fra lei e il marito e invece di strapparsi i capelli, mise il cadaverino in una cesta e si avviò in piena notte verso Rasiglia, e non appena dalla strada si vide il campanile del Santuario della Madonna delle Grazie il bambino resuscitò.
Vai, guarda, nomina.
E dunque se vai a Visso la bella e non perduta, perché si ricostruirà, e non si perderà memoria di Carla Voltolina partigiana fra i boschi, con il tuo stesso andare nominerai e farai rivivere il museo dei manoscritti leopardiani con i Sei Idilli e la Madonna Bruna, e le Sibille affrescate. Poi, magari, torni indietro e procedi verso Esanatoglia, scopri che là nasce il fiume Esino che a sua volta deriva da Esus, dio celtico della guerra, e siccome nel medioevo il paese si chiamava Santa Anatolia, nel 1862 hanno fatto un misto, un otto rovesciato fra la martire santissima e Esus dai crudeli altari, perché esigeva che la vittima del sacrificio venisse appesa per i piedi a un albero finché non si dissanguava.
E poi, per esempio, puoi scendere  verso Pioraco, a valle, e ascoltare le acque del fiume Potenza, e imparare che qui si fabbricava la carta e sotto i Varano si lavoravano gli stracci, e nello stemma, ovviamente, c’è un gambero di fiume in scudo rosso, e qui c’è il mercatino che visitiamo ogni anno, mangiando le frittelle dolci e salate.
Cambia strada, dirigiti verso Matelica, e nessun luogo al mondo ha lo stesso nome e la stessa desinenza, e pare che venga dal celtico matten, prato, oppure dal greco màthesis, studio, oppure significhi metelis, luogo di delizie, o ancora venga da teleg, che in molte lingue antichissime, come quelle semitiche, significa neve, o ancora dal latino mater liquoris, madre delle acque, anche se nessun fiume nasce nel suo territorio, e comunque qui c’è una piazza intitolata a Enrico Mattei con una fontana, e se le giri intorno sette volte vieni premiato con la Patente da mattu, perché gli Ottoni che qui regnarono obbligavano tutte le persone andate in fallimento a fare dodici giri intorno alla fontana, gridando: “Io ho ceduto alli miei beni et per questo nisiuno mai più me creda”.
Vai, percorri, guarda, osserva, scrivi. Cosa rimarrà? E’ possibile trasferire quel che si ama su qualcun altro? Cosa trasferisco in queste storie? Ma le storie fermano il tempo,  e bisogna scrivere per fermare il tempo e vincere la morte. Allora, proviamo a fermarlo.

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