CRONACHETTA: DI FEROCIA E DEL SENTIRSI STUPIDE

Ci sono giorni in cui ci si sente stupide, e insieme residui di un passato che non corrisponde quasi in nulla a quel che si vive, e dunque le chiavi che si hanno in tasca non aprono nessuna porta.
Ci sono giorni che cominciano così, su un autobus che dalla fermata della metropolitana ti porta fino alla radio, e su quell’autobus, mentre finisci di leggere il giornale (perché ti ostini a farlo tutte le mattine, e tutte le mattine aumenta l’insofferenza se non il disprezzo per chi ha un quotidiano fra le mani) senti gridare. E’ una voce di donna, una donna giovane con accento romanesco, e ti colpisce perché gronda di gioiosa ferocia. “Mettiti a sedere”, dice, e sembra felice di dirlo. E aggiunge: “Sei abituato male con le donne, tu”, e lo ripete a voce più alta, perché lo sentano tutti.
Pensi che sia una ragazza che si è ribellata, finalmente, agli ancora circolanti portatori di mano morta. Ma poi lei aggiunge: “Dammi un documento”. E allora ti alzi, allunghi il collo e vedi che sotto il cappellino rosa della ragazza c’è una divisa, e contemporaneamente vedi le spalle di un altro controllore (spalle possenti, va aggiunto) che grida “Fatemi passare”.
Poi non vedi più niente, senti un tramestio, intuisci spintoni, e le signore del mattino, tutte con la borsina del pranzo sottobraccio, emettono il brusio della sorpresa e della paura, e poi le porte si aprono e vedi scendere un ragazzo, quello che evidentemente era l’interlocutore della ragazza col cappellino rosa, che allarga le braccia e dice: “Adesso chiamo io la polizia”. Il ragazzo non è italiano, in tutta evidenza.
Ora, io non ho visto. Non so quale sia stata la reazione iniziale, non so se la ragazza abbia chiesto il biglietto a tutti i passeggeri oppure se si sia diretta immediatamente verso il passeggero che evidentemente non era italiano (“anvedi il marocchino”, era il commento delle passeggere con la borsina del pranzo, e mi sono morsa le labbra per non rispondere “anvedi la controllora leghista”, o forse l’ho proprio detto, chi può saperlo?). Non so se il ragazzo abbia protestato, se sia stato offensivo nei confronti della controllora, e se quella gioia feroce che c’era, era violenta e percepibile nel tono di voce, negli occhi brillanti, nel sorriso damangiartimeglio, fosse dovuta all’offesa sessista da ricacciare indietro, finalmente, o all’aver potuto confermare che “lo straniero delinque” e viaggia senza biglietto, e chissà cos’altro, poi.
Ci sono giorni in cui ci si sente stupide: perché si ha la sensazione che i femminismi vengano usati per scopi che non hanno a che vedere per il motivo per cui sono nati, quello di eliminare le disuguaglianze, e le disuguaglianze attraversano molte vie, e non solo quella che riguarda le donne (soprattutto, ma non solo, ed è bene ricordarlo). E perché quando ci si imbatte in episodi così, quando si vede negli occhi dell’altra la felicità  del potere che una divisa ti dà, ci si vorrebbe arrendere, e dire che è troppo complicato, e fate come vi pare, infine, ammazzatevi, mordetevi le gole a vicenda, rituffateci nell’orrore che pensavamo di esserci lasciati alle spalle settant’anni fa. Poi, è chiaro, non lo fai. E, magari, vai a ricercarti il solito Fortini, quando, nel 1975, scriveva:
“Come dice Lu Hsun, «i politici desiderano uccidere i letterati». C’è una qualità umana che odia la poesia, che sopporta a fatica la letteratura, che non sa e non vuole sapere quale luogo assegnarle nella città presente e futura. Ci si commuove per la morte di Pasolini più che per quella di un altro qualsiasi militante solo perché era l’autore di qualcosa che è, o può, diventare nostro; e allora questo qualcosa, questa eredità, guardiamola. Non vogliono saperlo perché questo farebbe crollare molte miserabili speranze e certezze. Non capiscono che quel crollo li indebolirebbe solo in apparenza, mentre in realtà li farebbe più forti contro chi sfrutta e strazia. Non capiscono che non siamo, noi poeti, i vostri nemici e che, se chiediamo qualche volta pietà per i nostri errori, è perché invero è il nostro modo di chiedere pietà anche per gli errori vostri”.

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