IL CORPO: DOMANDE DEL MATTINO

Pensavo, leggendo stamattina il nuovo mensile di Repubblica su salute e stile di vita, alla narrazione del corpo. Pensavo a quello che ha scritto Mauro Covacich nel suo ultimo, bellissimo romanzo, “Di chi è questo cuore”, dove analizza, fra l’altro, la mutazione dei corpi (quelli maschili alle prese con gli inciampi della maturità, quelli femminili votati alla costruzione metodica dell’ascesi).
Pensavo anche al tempo in cui è iniziata quella mutazione, e dunque a quei complicati anni  Ottanta, da una parte dediti al culto narcisistico delle apparenze,  con le sue metropoli nevrotiche e bevibili come un aperitivo, con la sua “democrazia del frivolo”, insomma, e dall’altra portatori della libertà pericolosa, ma irresistibile, di muoversi su territori di confine, di mescolare stili e appartenenze, il nichilismo punk con le avanguardie del Novecento, e di riportare il tutto su una passerella o in uno spot pubblicitario. In un sondaggio Makno dell’ epoca sul tema “corpo e seduzione”, risultava che l’ 80% degli italiani considerava l’ aspetto fisico decisivo nella valutazione di sé e degli altri. Dopo anni arruffati e cerebrali, insomma, il corpo veniva vezzeggiato, scolpito, esaltato, accarezzato da abiti studiati per essere facili da portare e belli da guardare. E, insieme, si presagiva la futura smaterializzazione del corporeo che sarebbe stata del cyberpunk (i primi quattro romanzi di William Gibson vengono pubblicati proprio negli anni Ottanta) e la tragedia che incrinerà irreversibilmente la festa con la diffusione dell’ Aids. “Niente – annotava nel suo diario Derek Jarman – ci aveva preparato a questi giorni”.
Vennero, allora, le storie fantastiche che riguardavano proprio il corpo e le sue insidie,  la Cosa di Carpenter su tutte, e, appena al chiudere dei Settanta, c’era stato Alien,  e poi tutte le rappresentazioni di come il corpo, oggetto della massima attenzione estetica, potesse invece celare insidie terribili (alieni nella finzione:  il cancro, o l’Aids, nei fatti). E poi vennero altre storie, quelle che, come appunto il cyberpunk, spostavano il proprio interesse  dai mondi altri ai mondi possibili, dall’universo esterno all’universo interno all’uomo, e infine alla immaginata, e poi reale,  interazione corpo umano-corpo meccanico. Salvo poi mettere in scena, come in moltissima narrativa dell’epoca, una macchina che fa tilt: un errore nel sistema perfetto e ambizioso, che genera l’ inevitabile catastrofe, perché a  forza di fotografare il mondo come processo dell’ interagire informatico, si finisce con il convivere con il virus che potrebbe annientarla. E infatti, in quegli anni,  William Gibson immaginò  un romanzo su dischetto che si cancellava dopo la lettura al computer.
Mi domando tutto questo e mi chiedo come si racconti oggi il corpo e la rinnovata ossessione nei suoi confronti, anzi la cresciuta ossessione: non tanto, credo, per la sua perfezione estetica, quanto per la sua durata, per il desiderio di immortalità che segretamente, ogni giorno di più, sembra abitarci. Le serie televisive sono piene di morti che tornano: non minacciosi, ma desiderosi di tornare alle antiche abitudini e al conforto familiare, oppure portatori delle abitudini della vecchia esistenza nell’aldilà.
Cosa è più perturbante, il vecchio Alien che abita la nostra carne per distruggerla o l’antica follia di volerla preservare identica per l’eternità? E quali sono le conseguenze nella nostra vita sociale? Quel qui e ora che ci induce a trastullarci ogni giorno su un social, quel non voler guardare in avanti, viene da qui? E chi, soprattutto, lo racconterà?

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