Scriveva Roland Barthes in Miti d’oggi che “La letteratura non comincia che davanti all’ innominabile, davanti alla percezione di un altrove estraneo allo stesso linguaggio che cerca”. Mi piacerebbe che fosse ancora così: la ricerca di quell’altrove avviene ancora, certo, ma avviene con meno frequenza. Ho la sensazione che molta letteratura (italiana) si assesti felice nel riconoscimento di un linguaggio dato. Così come molto giornalismo. Sarei, naturalmente, lieta di sbagliarmi.
Questo, comunque, non è un post letterario e non è un omaggio a Barthes nel quasi centenario dalla nascita (ma in parte lo è, evidentemente), bensì la dichiarazione di una mancanza. Di un’urgenza, anzi, di sguardi che, come fece Barthes, riescano a definire i compiti della parola e i significati delle immagini, in un momento in cui parole e immagini sembrano lasciate a se stesse, e durano una manciata di ore, è vero, ma quel che lasciano si sedimenta e imputridisce.
E dal momento che, sempre per Barthes, “il mito è una parola”, l’urgenza riguarda l’analisi di quel che c’è sotto le parole che diventano mito e rapidamente imputridiscono in questa veste . L’urgenza riguarda il “parlare l’albero”, come fanno i contadini, diceva Barthes, e non “parlare dell’albero” come fanno tutti gli altri.
Non posso “parlare l’albero”, perché non ne possiedo i saperi, ma posso, per esempio, “parlare la madre”, per cercare di recuperare la spiaggia sotto l’asfalto, la realtà sotto le parole a cui alludeva Barthes in quell’indimenticato saggio.
Io, madre di Pietralata, non parlo lo stesso linguaggio della madre di Baltimora. Io, madre di Pietralata, ho paura della carica simbolica che ha assunto un gesto antico divenuto invocazione: la madre che prende a schiaffi il figlio che è andato a protestare e lo porta a casa, in senso non figurato, prendendolo per l’orecchio.
Questa sì è una madre, si è detto e scritto a commento del video che ha fatto il giro del web, come si suol dire, e dunque ha aggiunto detriti a detriti a coprire la spiaggia ancora di più. Una madre come quelle di una volta, la matriarca, la zdora, colei che comanda davvero dentro la casa, che fa rigar dritto gli alberi che rischiano di crescere storti. Dateci più madri così per gli “idioti neri” che hanno “devastato Milano” il 1 maggio. Sberloni e ceffoni, e a casa, ragazzini.
Io, madre di Pietralata, non mi riconosco in quel modello materno: che è il canone segreto, e oggi di nuovo esplicitato, che si auspica. Io, madre di Pietralata, aborro anzi quel modello. E non perché non è perbene, non è educato, non è gentile quello sberlone, state calmi (oh sì, li immagino quelli che stanno per digitare, le dita sospese sulla tastiera, basta col buonismo, il politicamente corretto, i genitori amici, i reduci del settantasette, basta con tutti i cagadubbi, quelli che non si uniscono al coro, basta: dateci un dogma, una sicurezza, una sola verità, andate a lavorare, fuori dai salotti).
Perché per me una madre contiene, non umilia.
Perché per me una madre è, che lo voglia o meno, un modello per i propri figli. Storto e sbagliato e imperfetto, come tutti gli esseri che camminano sotto il sole: ma un modello.
Se penso a un modello, penso a Rosa Parks.
Non alla madre di Baltimora, cui è stato negato anche il nome per glorificarla nel suo unico ruolo. Si chiama Toya Graham, nota anche come Madre Coraggio o Grande Madre (Gramellini, sic). Se ha una funzione, Toya Graham, è quella di aver snidato i detriti che coprono la spiaggia: vogliamo una Grande Madre, ci sentiamo smarriti, non sappiamo dove andare. Vogliamo che qualcuno ce lo dica.
Vogliamo una Grande Madre e già che ci siamo un Grande Padre. Come scriveva George Lakoff:
«i figli nascono indisciplinati. Il padre insegna loro la disciplina e la differenza tra bene e male. Quando i figli disobbediscono, il padre è obbligato a punirli, fornendo loro un incentivo per evitare la punizione e aiutandoli a sviluppare l’autodisciplina necessaria a rigare diritto. Questo “amore da duri” è visto come l’unico modo di insegnare una moralità. I figli che sono abbastanza disciplinati da essere morali possono anche usare quella disciplina una volta divenuti adulti, per perseguire il proprio interesse sul mercato e così prosperare.» (Thinking Points, pp. 57-58, qui il post di Wu Ming dove viene riportato).
La madre di Baltimora è stata invocata, dunque, dopo quanto avvenuto a Milano il 1 maggio. Da persone che ne esigevano l’amore da dura per insegnare ai figli, a tutti noi figli degeneri, come si riga dritto.
A chi esprimeva dubbi su un amore che si esprime a sberle, è stato detto che si simpatizza con quei figli degeneri.
Io, madre di Pietralata, ho sempre pensato che l’amore si esprime dando conoscenza e inducendo alla riflessione, e al sapere critico. Mi rendo conto che è un tipo d’amore non richiesto, e persino osteggiato (sicuramente osteggiato).
E’ quello che continuerò non solo a sognare. Ma a pretendere.
Ps. Per una panoramica sui fatti del 1 maggio, qui un intervento di Franco Berardi, qui una risposta (con controrisposta nei commenti) di Christian Raimo, che segnala nel post anche altri pareri interessanti.
avrei voglia di intervenire, perché ce ne sarebbero di cose da obiettare.
Faccio solo presente – se sarò smoderata – che le due manifestazioni – Milano e Baltimora – non sono comparabili; che la madre di Baltimora si è riportata il figlio (probabilmente minorenne) a casa perché non voleva doverselo andare a riprendere all’obitorio; che se certi modelli di madri davvero li rifiuti (e fai bene), dovresti forse parlarne, visto che le madri – ma anche maestre, babysitter, ecc. – sono ai primi posti degli abusi sui minori (ma nel tuo libro non ho trovato un capitolo su queste madri, anche se di madri non ce n’è una sola, appunto); infine, va detto che la madri afro-americane sono tra le più violente – e questo è un fatto – negli Stati Uniti.
ecc. ad lib.
http://mashable.com/2015/04/28/baltimore-mom-interview-freddie-gray/
Su Bifo, Piperno, Melandri, il giudizio lo ha già dato la storia. Inutile che mi ci metta anch’io o chiunque altro.
oh, se non mi rimetti in moderazione io qua ti faccio tutto il thread da sola.
Non sono una madre di Baltimora e neppure una di Pietralata. Ho tre figli, ormai pienamente adulti, e non ho avuto bisogno di usare mezzi estremi per farli maturare perchè ho potuto contare sulla conversazione, sui buoni esempi, sul fatto che ero sempre a casa quando loro rientravano, e questo ha permesso a me di cercare di essere una buona madre e a loro di avere un referente adulto con cui confrontarsi/scontarsi.
La signora Toya è una madre che, a quanto ho letto, lavora ed è genitore unico. A lei sono state negate le possibilità di crescere il proprio figlio come avrebbe desiderato e, in questa occasione, ha fatto quel che l’istinto, la preoccupazione e l’amore le hanno permesso.
Rispetto le signore Toya di tutto il mondo, lo stesso che si deve verso coloro che fanno tutto quel che possono, nelle condizioni a cui ci ha ridotti la modernità: dover dare il nostro meglio sul luogo di lavoro e tornare a casa a guardare i nostri cari con cuore stanco.
la signora Toya ha 6 figli. Ognuno ha diritto ad avere tutti i figli che vuole, naturalmente, basta che poi non faccia scontare a loro questa scelta. E dare la colpa al sistema, che le nega la possibilità eccetera non mi sembra onesto.
Ma una tua condanna senza se e senza ma ai delinquenti che hanno devastato il centro di Milano no?
Kompagni ke sbagliano?
Diana, non so se un mio commento ne genererà altri ventidue tuoi, ma come mi sembrava di aver scritto (sembrava, eh), la questione non riguarda Toya e la sua vita (Sari, lo preciso anche per te): bensì l’appropriazione simbolica di un singolo gesto. Non conosco la signora Toya così come non la conoscete voi: conosco, un po’, il meccanismo di canonizzazione mediatica e culturale a cui mi riferivo.
Anonimo, chiunque tu sia: sei per caso in astinenza? Ne trovi a migliaia, di condanne senza se e senza ma. Che io sia una nonviolenta da quando avevo diciotto anni credo sia noto.
contienimi senza umiliarmi, Loredana. Come stai facendo, e mi taccio immediatamente!
Diana, l’hai scritto tu che volevi farti il thread da sola 😀 (comunque non sei mia figlia, eh)
era l’euforia della smoderazione. Quando c’è bordello, ci sta cioè.
Io vorrei invece rispondere all’anonymous: Kompagni che sbagliano? Anche come battuta (sic) proprio non mi piace. Invece penso che ai blackbloc sia stato permesso di devastare (e non solo questa volta) scientemente, perchè in tal modo le motivazioni della giusta, giustissima manifestazione passano in secondo piano. Come mai i blackbloc non si insinuano mai nelle manifestazioni di Casa Pound e similari? Forse perchè sono neri e non rossi, se vogliamo limitarci ai colori. Forse perchè sono provocatori?
Segnalo questo: http://blog.vita.it/mammamia/2015/04/30/cosa-insegna-la-mamma-di-baltimora/
Signora Lipperini, lei dà per scontato che la signora Toya sia un modello opposto a quello che lei indica come positivo solo perché l’ha vista in azione in quella singola occasione? Nega così la possibilità che ella possa essere quello che lei crede, cosa più probabile di quel che lei pensa.
La verità è che i figli, anche quelli con genitori modello, qualche volta possono fare cazzate. E proprio quando le fanno nonostante tutto, l’unica cosa da fare è andarseli a riprendere tenendoli per l’orecchio.
Inoltre non ricordo qualcosa di così benefico anzi efficace per la mia crescita come una bella umiliazione. Quella non te la scordi più e la sensazione di aver fatto una stupidaggine ed esserti reso ridicolo è ben più efficace di qualsiasi dialogo (fermo restando che ovviamente dialogare è fondamentale). Se in Italia ci fossero più madri come Toya invece che madri che difendono i loro figli qualsiasi scemenza compiano, di sicuro sarebbe la gioventù a trarne più beneficio.
Andrea, dammi il link del tuo blog che te lo faccio io un bel thread, pure lì.
Sull’umiliazione benefica e lo schiaffone educativo sono abbastanza ferrata.
Episodio: sono tornato da poco da un lungo viaggio negli Stati Uniti, ho fatto una fermata di qualche ora a Baltimore, i miei amici scherzando mi hanno dato del matto “ci è ambientato The Wire, è la città più pericolosa degli Stati Uniti”, mi hanno detto in coro. Ci sono cose difficili da capire, per quanto possiamo ruttare Coca-Cola e telefilm, se non le vediamo da diversi punti dello spazio. E che gli americani siano diversi dagli italiani lo sappiamo, ma per la prima volta forse mi sono sentito europeo, e quell’area di valori in comune è emersa come un relitto. Poi ho visto anche le madri. Una in particolare, con cui ho parlato a lungo: nera, sulla quarantina, middle class, autoritaria, esattamente come quella che descrivi tu, Loredana. Era stata costretta a far ritirare i figli da scuola, sette e diciassette anni, e a farli studiare a casa con lei secondo i “four pillars”, che sono un metodo di insegnamento cristiano pare fondamentalista. Mi diceva che c’erano stati episodi di razzismo e i maestri sospendevano il piccolo, perché secondo loro iperattivo, mentre pare che nei registri della scuola, i bambini sospesi erano solo neri, orientali e ispanici. Non le piaceva farli studiare a casa ma era costretta, perché il livello delle scuole pubbliche americane è bassissimo. “Quando esci ti insegnano a premere un bottone o a lavorare da Mc Donald’s”. La storia sarà sicuramente in parte vera, ma rimane il fatto che il figlio maggiore, ora ventunenne, andava al college tutto sommato prestigioso e ha voti altissimi – i dati ufficiali anche dicono che meglio farli studiare in casa, per quanto mi sfugga come abbia fatto a insegnarli trigonometria, diciamo che missione compiuta. Io di madri di Pietralata ne conosco alcune, e spesso (specialmente vicino alle case popolari di via del Peperino) non le ho trovate troppo diverse da quelle di Baltimore per quanto riguarda i modi spiccioli, ma le ho trovate sicuramente meno inclini al dramma di quelle americane. Però passeggiando per le città americane ho avuto la sgradevole sensazione di assistere a due mondi ancora separati, dove i neri senza un’educazione fanno esclusivamente lavori umili, ancora premono i bottoni degli ascensori come si vede nelle vignette di altri tempi, hanno uno straccio in mano e tutt’oggi gli viene negato qualsiasi lavoro nell’edilizia (quindi continuano a guadagnare pochissimo), ancora hanno bisogno della chiesa per trovare una strada – terrena, dove seriamente la criminalità è un’alternativa papabilissima. Due gruppi sociali ancora distinti, dove se sei bianco è difficile che tu abbia amici neri, e viceversa, in una girandola che li porta sempre più lontani dal centro. Dove perfino l’arroganza di Kanye West e le catene d’oro di Mister T secondo me possono trovare posto. La madre di Baltimore non è quel tipo di madre che incontriamo a Pietralata, ma non so se perfino i “peggiori” angoli di via del Peperino siano paragonabili alla violenza, trasparente e perfetta, a cui assistono i giovani neri americani. E per quanto mi senta distante da questo modello, posso capire la madre di Baltimore, intrappolata dall’influenza di lobby molto più influenti delle nostre, da modelli sbagliati, da anni e anni di governi che l’hanno dimenticata.
@Andrea Penna
se però gli afro-americani non cominciano ad assumersi almeno un po’ delle responsabilità che gli competono – stili educativi violenti, spaccio di droga, gang, modelli del cavolo (rapper ricoperti d’oro su auto di lusso) e via dicendo – e che contribuiscono a mantenere questo stato di cose, niente può cambiare.
Le madri afro-americane potrebbero, in questo, fare la differenza e cambiare strada. Ma lo fanno? Non sembra. Vedremo.
Se hai visto The Wire, sai anche chi era il Capo di tutti i Capi. Una madre: la madre di D’Angelo. Pronta a fare ammazzare il figlio, per non mettere in crisi il sistema (spaccio di droga e miliardi). Le donne dei Barksdale erano più spietate dei loro mariti e dei loro figli. E i maschi le temevano. Fiction?
La maggior parte di noi non ha a che fare con Baltimora o Pietralata; si muove in contesti medi o medio-piccoli, dove si commettono non pochi errori educativi, sia in senso autoritario che lassista.
Sono (stata) madre lavoratrice di due figlie, ho due nipoti maschi. Non potevo essere sempre a casa quando rientravano (né avrei gradito il ruolo “domestico” a tempo pieno) e nella stessa condizione si trovano le mie figliole. Non credo che la presenza continua sia di per sè una garanzia di successo pedagogico.
Ritengo che nel ruolo educativo non debbano mai mancare l’affetto, l’attenzione, il confronto/scontro indispensabili per maturare.
Ma neppure la chiara indicazione di ragionevoli paletti. Sui quali, in relazione all’età e alle circostanze, la discussione occorre sia sempre aperta.
Per alcune trasgressioni “importanti” i genitori (concordi) possono ritenere necessarie infrequenti sanzioni (non fisiche, sia chiaro).
Penso anch’io “che l’amore si esprime dando conoscenza e inducendo alla riflessione, e al sapere critico”, anzi lo ritengo in primis un dovere morale, ma occorre intanto assicurarsi che la prole adotti, mentre gradatamente fa propria la giusta forma mentis, un comportamento “adeguato”.
@Diana
Non credo che a nessuno di noi piaccia la Black Gomorra, ma il “vojo mori’ con tutto l’oro addosso” veniva detto in riva al Tevere così come sull’Hudson. Ma io non mi azzarderei a dire a una comunità marginalizzata di proposito dall’alto (e quando un ragazzino viene ammazzato da un poliziotto, direi anche orrendamente dal basso) di assumersi responsabilità di sorta.
Con il mio post precendente volevo esprimere le mie perplessità per un sistema di valori che non condivido, ma che ai miei occhi miopi (abituati a vedere dal Mediterraneo alle Alpi) la madre di Baltimora, che sia fondamentalista cristiana o Toya Graham, abbia trovato, a modo suo, una soluzione e non una colpa.
Rosa Parks, potente e bellissimo modello.
Grazie…
Andrea P.
D’accordissimo sulla madre di Baltimora. Per il resto no, non sono d’accordo. Qualsiasi rinascita e/o possibilità di riscatto (vero), per me, nasce dall’assunzione di responsabilità. Senza quella, mancheranno sempre i presupposti di un cambiamento (vero). Per questo, Spike Lee non aiuta.
Avrebbe aiutato Bill Cosby – che diceva cose giuste ai neri delal sua comunità – peccato che predicasse bene e razzolasse male.
I quartieri neri, l’amministrazione pubblica, il porto, la scuola, il giornalismo. E la famiglia, in primis.
Vedere The Wire – per me – è stato illuminante.
Appena visto il video ho pensato che la madre di Baltimora avesse paura che le ammazzassero il figlio. Continuo a pensarla terrorizzata dalla paura della polizia più che scandalizzata per i comportamenti del figlio.
Anche mia madre quando ero ragazzetto e c erano le manifestazioni più dure diventava autoritaria. Lettura sbagliata forse, forse però accantonata perché implica che i cittadini diffidino del potere ipotesi inaccettabile nella democrazia dei benpensanti