DALL'ETIOPIA: UN BREVE REPORTAGE DI FEDERICO BONADONNA PER LIPPERATURA

Da ultimo ricevo una media di diverse decine di mail al giorno dove mi si chiedono recensioni su questo blog. A ognuna rispondo la verità: non scrivo recensioni su Lipperatura se non eccezionalmente e sui libri che decido io, non più di tre o quattro l’anno. Però Lipperatura è un blog che a volte si apre agli interventi esterni, come quello che pubblico oggi.
Ho conosciuto Federico Bonadonna, antropologo, giusto dieci anni fa, quando pubblicò per DeriveApprodi un eccezionale racconto urbano che si chiamava Il nome del barbone.  Federico vive da molti anni in Etiopia, e mi ha mandato questo breve reportage, per il quale lo ringrazio. Buon 1 maggio a tutte e tutti.

Pasqua di sangue per l’Etiopia
di Federico Bonadonna

C’è un cavallo agonizzante sul ciglio di una strada ad alto scorrimento, oggi insolitamente deserta. Qui ad Addis Abeba si usa così quando non servono più. Li abbandonano per risparmiare sulla rimozione del cadavere. A qualche centinaio di metri, Meskel Square è stracolma di gente in lacrime. Il governo ha proclamato tre giorni di lutto nazionale per i ventotto cristiani etiopici trucidati dai miliziani dell’Is in Libia. «Siamo uniti contro il male e in lutto per i nostri fratelli».
Le immagini inequivocabili di Al Jazeera sono negli occhi di tutti. E per il governo questa volta è stato impossibile affermare che si tratta di eritrei, come accade da anni per quelli ripescati nel lontano Mediterraneo, oggi vicino.
«Con Gheddafi si andava in Libia per lavorare, ora per raggiungere l’Europa». In questa comunità millenaria, le voci corrono tra i fili sottilissimi delle ragnatele parentali. Linguaggio impalpabile e impermeabile, fatto di sussurri soffocati e di sguardi. E a volte nemmeno di quello. Un codice muto, ridondante, che comunica attraverso secoli di sangue.
Fino ad oggi la linea ufficiale era che nessuno fuggiva da un paese come l’Etiopia che ha una crescita del 7% all’anno da oltre dieci anni. Perché qui c’è il boom economico. Che fa sempre rima con cemento. E il profilo della vecchia città-accampamento ora è schiacciato dalla scintillante città-vetrina, la città del consumo di suolo e di merci. La verticalizzazione coatta importa la vertigine della nuova modernità targata Dubai. O Pechino. Lo splendido isolamento dell’impero straccione dei tempi che furono, si converte nel nuovo african style.
In piazza, le donne avvolte nei loro bianchissimi gaby pregano. Il premier parla dal palco. La città è blindata: le scuole, i ministeri e gli uffici pubblici tutti, oggi sono chiusi. Le bandiere delle ambasciate a mezz’asta.
«Esagerati tre giorni di lutto nazionale», commenta una ragazza di un’ONG italiana. «Come avrebbe reagito Renzi se avessero decapitato dodici italiani e agli altri avessero sparato un colpo in testa?», chiedo secco. Perché sono le immagini che hanno fatto la differenza. Immagini che non ho visto in nessun quotidiano italiano, almeno in quelli on line.
Immagini che si sovrappongono, nella mente degli etiopici, a quelle recentissime degli Zulu sudafricani che hanno scatenato un pogrom anti-immigrati a Durban, bruciando vivi anche cinque etiopici. «Erano ladri, erano oromo», mi ha detto una conoscente di etnia amhara. Sottointeso: erano dell’etnia demograficamente maggioritaria, ma politicamente subalterna.
Nemmeno quella notizia è approdata nell’Italia che conosce a malapena il flusso proveniente dal sud del mondo. Perché abbiamo tutti un unico punto di vista, il nostro. Ma c’è anche un flusso che da qui, dall’Etiopia, si spinge giù, oltre l’equatore, a sud di nessun nord, per raggiungere il Sud Africa. E poi c’è quello che, sempre dall’Africa Orientale, dal Corno, si inoltra verso oriente e attraversa la depressione della Dancalia. A est di nessun ovest. In quel deserto muoiono di sete una media di quattro persone al giorno nel tentativo di raggiungere Gibuti, imbarcarsi su un guscio e cercare di attraversare il golfo di Aden per arrivare nello Yemen ora stravolto dalla guerra.
E poi c’è anche un’altra emigrazione, sempre verso la penisola arabica, ma a bordo di aerei. È composta esclusivamente da donne. Destinazione: Riad, Abu Dabi, Beirut. Proprio nei giorni immediatamente precedenti a questa terribile Pasqua 2015, The Reporter, un quotidiano locale, ha pubblicato la notizia che un’agenzia libanese d’impiego per assistenti domestiche, ha inviato ai suoi utenti un SMS: «Vizia tua madre, offrile una donna di servizio. Dieci giorni a prezzo speciale per chi prova etiopi e keniote».
L’articolo racconta che l’ONG libanese Kafa impegnata contro le violenze e discriminazioni di genere, ha sollevato il caso. Sembra che il ministro del Lavoro del Paese dei Cedri abbia dichiarato di voler chiudere quell’agenzia. Ma il nodo è culturale. E politico. Già nel 2011 il parlamento libanese ha votato la convenzione n. 189 dell’International Labour Organization (ILO) – Decent Work for domestic Workers, senza ratificarla. Così, la mancanza di rispetto dei più elementari diritti umani crea aberrazioni come quell’SMS. Sicuramente più di un libanese sarà stato tentato se nel frattempo l’ultima maid si è gettata dalla finestra, come in media avviene una volta a settimana. Perché queste donne, che dormono in un loculo di un metro e mezzo per due, sono vittime del Kafala, un sistema che facilita lo sfruttamento.
Intanto il premier sta terminando il suo lungo comizio a Meskel Square. Due ragazzi esibiscono due cartelli: «I’m christian», «I’am muslim». E poi un cartello unico: «We are one!»
Sotto i pilastri del nuovo sky train costruito dai cinesi, un gruppo di manifestanti conduce alla catena dodici persone vestite con la tuta arancione di Guantanamo. L’antico gesto apotropaico riproduce la scena finale. Qualcuno si chiede perché. Altri urlano l’orgoglio etiopico.
Il giorno dopo, una mia amica con il padre italiano e la madre etiopica mi dirà che all’ufficio immigrazione, dove era andata per avere anche il passaporto etiope oltre a quello italiano, un impiegato ha minacciato di chiamare la polizia perché “ha la faccia da araba”. «Siccome qui, prima di mettono in prigione e poi chiariscono, ho preferito andarmene» mi ha detto. Oggi i nemici sono gli arabi, tutti e tutti quelli che gli somigliano.
Il comizio del premier finisce. Da un lato della piazza intravedo scontri: al telegiornale della sera la conta ufficiale parlerà di cinque dei morti e un numero infinito di arresti.
«Erano avversari del nostro governo, erano oromo contro lo sviluppo. Tra un mese ci sono le elezioni e cercano visibilità».
«Erano mussulmani, si sentono discriminati». Già, i mussulmani, quasi il quaranta per cento tra i fedeli.
Mi allontano verso Asmara road. Non voglio vedere altro sangue. Scavalco in fretta teste di capra morte coprendomi la bocca per la puzza. La Pasqua è appena passata. Ortodossi e cattolici si sono astenuti dalla carne per due mesi e quelli sono i resti del banchetto.
Arrivo sfiancato alla mia macchina. Il cavallo giace con le gambe già rigide. Lo lasceranno così per settimane. Si gonfierà riempiendosi di mosche, diventerà viola e poi finalmente lo porteranno via.
Per chi fosse interessato al tema delle Maid, consiglio due documentari di ILO diretti dalla regista Carol Mansour, Maid in Lebanon I e II.

4 pensieri su “DALL'ETIOPIA: UN BREVE REPORTAGE DI FEDERICO BONADONNA PER LIPPERATURA

  1. Grazie a questo articolo per una volta ci distogliamo dalla visione Eurocentrica del mondo e cerchiamo di capire la complessità della situazione africana

  2. Non potevi descrivere quella che è stata una giornata a dir poco intensa in maniera migliore. Il riferimento al fenomeno delle maids mi ha fatto pensare a Miriam, la nostra housekeeper filippina a Khartoum. Miriam aveva lasciato le Filippine credendo di arrivare in Arabia Saudita e lavorare in un ospedale. Il suo viaggio si è invece concluso a Khartoum, dove era già stata ‘venduta’ ad un uomo sudanese che al suo arrivo le aveva prontamente sequestrato il passaporto. Ci è voluto l’incontro casuale con un diplomatico italiano per tirarla fuori da quella situazione. La storia di Miriam ha avuto in qualche modo un happy ending – ormai tutta la famiglia l’ha raggiunta a Khartoum e le famiglie con cui ha successivamente lavorato le hanno restituito tutta la sua dignità – ma mi chiedo per quante altre donne o ragazzine potremmo dire la stessa cosa.

  3. Mi associo ai commenti, ottima fotografia di Addis e del sentire etiopico. In quei giorni ero a Bruxelles, all’incontro annuale tra la Commissione Europea e la Commissione dell’Unione Africana. La migrazione doveva essere un tema in agenda, ma ha dominato la discussione – complici i 900 morti solo quella settimana. La Commissaria dell’UA per gli Affari Politici (ed umanitari)in un incontro con un Commissario Europeo ha osservato “In passato gli Europei venivano in Africa a razziare gli Africani per farne schiavi, oggi sono gli Africani che volontariamente rischiano la vita per consegnarsi ad una probabile schiavitù. Dobbiamo riflettere, c’è qulcosa che non va in Africa”. Ne é seguito un dialogo franco imperniato sullo sviluppo dell’Africa ma anche e soprattutto sul diritto ad una migrazione legale. Un buon inizio, speriamo Si rifletta in misure altrettanto effecaci.

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