DA STROUT ALLA FAME: FATEVI FERIRE, PER UNA VOLTA

C’è un passaggio in quel libro lieve e densissimo che è Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, dove la protagonista frequenta un corso di scrittura creativa. Dalla finestra entra, se non ricordo male, un uccello, piuttosto grande, e lei e la scrittrice che tiene il corso si spaventano, parecchio. Prende la parola una psicoanalista californiana che frequenta ugualmente il corso e che non interviene quasi mai, e dice alla scrittrice: “Lei non ha ancora superato il suo disturbo post-traumatico”. La scrittrice, e la protagonista, la guardano con odio, e tacciono. Più avanti, si ritroveranno a parlare e si diranno quanto ci sono rimaste male, e quanto si sono sentite ferite da quelle parole, e la scrittrice dirà qualcosa del genere: non c’è niente di peggio delle persone che usano le proprie competenze per mortificare gli altri.
Ho letto ieri sera quel passaggio e mi è rimasto in mente perché il mio primo pensiero è stato “ma oggi anche chi non ha competenza alcuna vuole usare le parole per mortificare gli altri”, e poi mi è venuta in mente un’altra immagine, completamente diversa, quella che ha usato Edoardo Albinati in “La scuola cattolica” per descrivere una classe di maschi adolescenti, i granchi nel secchio che si arrampicano ognuno sulla schiena degli altri. Senza riuscire, ovvio, a uscire dal secchio.
Internet non c’entra, credo. E’ ovvio che i social rilancino sempre più, e amplifichino, questa rabbia livida, questa sensazione di essere depredati dagli altri, di meritare più degli altri, di sentirsi monchi e infelici per colpa degli altri, questo oscuro desiderio di aggredire, mortificare, fare del male, anche se per poco. Cosa fai, come agisci, in un mondo dove una storia di orrori (Caivano) si è trasformata in “sei a favore o contro Corrado Augias?” (ripeto, è così: c’è una storia, c’è un commento, e il problema è il commento, e non la storia, e a seguire tutto un lucidar di medaglie su un argomento di cui, e scusate se mi permetto di dirlo, visto che me ne sarei occupata, non è che ci sia stata tutta questa attenzione, come la sessualizzazione dell’infanzia nell’immaginario, e tanto meno da un bel po’ di femministe che sostenevano che chi lo sosteneva era un po’ moralista)?
“La fame” di Caparròs, che infine domani sera presenterò, mi ha lasciato una ferita: non quella, care e cari, dell’animuccia bella che dice “oh, poveri noi, c’è la fame nel mondo”. La ferita è quella del valore delle parole. Ho sempre creduto nel “Nulla è sicuro, ma scrivi”, eppure adesso mi rendo conto di quanto sia difficile farle emergere, quelle parole, nelle tante, mortificanti e arrabbiate, in cui galleggiamo. Nel momento in cui la mia generazione è più preoccupata di raccontare la propria paura di invecchiare e morire che il mondo in cui siamo e sono i nostri figli. Naturalmente si va avanti. Ma mi piacerebbe che molti leggessero quel libro. E se ne facessero ferire, fino al cuore, Ramòn.

2 pensieri su “DA STROUT ALLA FAME: FATEVI FERIRE, PER UNA VOLTA

  1. Forse, più che il desiderio di ferire o mortificare gli altri, quello che si è sviluppato è il bisogno di essere protagonisti e non c’è dubbio che i social aiutino in questo: basta”postare un commento” per sentirsi dei critici letterari , cinematografici o esperti tuttologi! I ” commentatori” litigano tra loro su questioni che non hanno nulla a che vedere con l’articolo cui si riferiscono e di cui più o meno volontariamente stravolgono il senso…

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