Sto ripensando alla trasmissione di due giorni fa, quando abbiamo parlato dei necrologi scritti da Manganelli (Il vecchio gioco di esistere, Hacca) e di quel condolersi collettivo che è proprio di social. Ci penso perché penso alla rapidità del tempo, di questo tempo.
Per quanto io faccia e scriva tante cose, e abbia giornate pienissime, resto quella che cammina piano. Sono la tartaruga di Zenone e di Achille non mi curo. Sono quella che ogni volta viene sorpassata da persone sbuffanti (“eh mamma mia che lentezza”) e mandata a quel paese dai motociclisti mentre attraverso (sulle strisce, ma sempre piano). Non è colpa dell’artrosi. E’ che immagino un sacco di cose quando cammino (quali fiori piantare, quanto sono belli i figli, dove sarà finito stanotte il gatto, che meraviglia il libro che sto leggendo – o che delusione -, quali storie si stanno intrufolando per essere scritte).
Quindi, sono lenta dentro. E penso a quanto siano cambiate le cose proprio sul lutto. Che oggi è faccenda sbrigativa. Ti si chiede di mettertelo alle spalle, ora, adesso, o comunque di non esibirlo, perché è, in un certo senso, imbarazzante. Il dolore provoca incertezza, apre fratture negli altri, che da te sono abituati ad avere altro, e altro dunque ti chiedono, e tu rispondi alla richiesta pensando che è così che si fa. E ti trattieni persino dall’insultare chi ti dice “in fondo era vecchia e malata”, pensando così di consolarti.
Il lutto era lungo, dodici mesi si diceva, e dodici mesi erano e sono il tempo che ti ci vuole, che il tuo corpo e la tua mente pretendono per adattarsi. Ora devi sbrigartela in una manciata di giorni, perché non sta bene, perché abbiamo bisogno di essere rassicurati da quella che pretendiamo essere la tua forza d’animo.
Annie Ernaux, scrittrice meravigliosa, ha raccontato il suo duplice lutto in diversi libri: Il posto, dove ricostruisce il padre a partire dalla sua morte, Une femme (Una vita di donna) e Je ne suis pas sortie de ma nuit (Non sono più uscita dalla mia notte) dove usa la letteratura per sconfiggere l’isolamento del dolore e cerca una verità sulla madre “che non può essere raggiunta che con delle parole. (Vale a dire che né le foto, né i miei ricordi, né le testimonianze della famiglia possono darmi questa verità)”…”scrivere nel senso della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine buia del ricordo individuale, grazie alla scoperta di un significato più generale. Ma sento dentro di me una certa resistenza a farlo, vorrei conservare di mia madre immagini puramente affettive, tenerezza o lacrime, senza attribuirgli un senso”.
E aggiunge:
“mia madre non ha una storia, c’è sempre stata. E’ così, le madri non dovrebbero mai morire, la loro perdita appare sempre come una sorpresa che lascia attoniti”.
Nel caso di Ernaux (e prima di lei di Simone de Beauvoir con Una morte dolcissima) la parola scritta cerca una realtà non concepita. Beauvoir usa parole gemelle: “Per me, mia madre era esistita sempre e non avevo mai pensato che l’avrei veduta scomparire un giorno, un giorno assai prossimo. La sua fine si situava, come la sua nascita, in un tempo mitico”.
Forse gli scrittori, e soprattutto le scrittrici, servono a questo, a trovare le parole per sconfiggere, se non la morte, la solitudine della morte e il suo ripudio, la titubanza e anche la ripugnanza che chi subisce una perdita suscita negli altri. Non è un progetto letterario, ma un progetto di ricostruzione di quanto abbiamo perduto, non solo di chi. La capacità di condividere, anche il dolore.
Dunque, forse, a qualcosa la letteratura serve, giusto?