DIMMI SOLO UNA PAROLA, VIA TWITTER

Ieri sera ho scritto uno status su Facebook che è stato capito a metà. In alcuni casi, anzi, è stato interpretato nel senso opposto. Lo status era questo:
Il Vajont Kobane il quattordicenne di Napoli Gaza Renzi Riina la pizza le sentinelle Yara l’anniversario della morte del Che l’Isis. E’ un decimo, grossomodo, degli argomenti su cui i vituperati “intellettuali” dovrebbero esprimersi, con la dovuta competenza, con la serietà che conviene, con innaturale preparazione, nei loro status su Facebook, e non importa se le loro parole risulterebbero povere, banali, non influenti in almeno alcuni di questi argomenti. Non è chiamarsi fuori: è spaventarsi. E’ temere che ogni ribellione, ogni approfondimento, ogni desiderio di infrangere i muri, finisca qui, in questa richiesta: dove siete voi che non pubblicate uno status? Cosa state facendo? Ecco: cosa stiamo facendo? A cosa ci stiamo riducendo?
In diversi casi, il significato che è stato attribuito alle mie parole era quello di “intellettuali, svegliatevi”. Volevo dire, invece, che è insensato attendere da altri la parola definitiva su tutto: primo, perché è impossibile nei ritmi con cui viene richiesto (quattro o cinque volte al giorno), secondo, perché anche se i cosiddetti intellettuali intervenissero quattro o cinque volte al giorno su tutti gli argomenti su esposti e altro ancora, le loro parole, giocoforza sintetiche perché in uno status o in un tweet non ci sta molto, sarebbero inutili.
Facciamo un esempio, che è sempre il solito ed è molto noioso, perché credo di esserci tornata su decine di volte: i femminismi. Che siano nell’onda discendente è ovvio e non smentibile: ogni occasione è buona per rivendicare “libertà” DAI femminismi, semplificati fino all’osso in “bigotte che si turbano per una coscia” e accusati di tacere su tutto, in specie sulle donne combattenti di Kobane.
Qualche giorno fa, una scrittrice attenta come Danila Comastri Montanari si è aggiunta al coro deprecando il silenzio femminista sul punto. Così:
e dove sono le “intellettuali” impegnate e le femministe scandalizzose, che inondano i giornali di lettere di protesta quando compare una pubblicità un po’ scollacciata, un gonnellino rosa, un concorso da miss? Come mai, invece di occuparsi di simili pinzillacchere, non si mostrano – almeno a parole – al fianco delle loro sorelle che si battono contro lo stato più maschilista del mondo?”
La risposta potrebbe essere, per esempio, nel convegno organizzato da molti movimenti, che si tiene domani alla Casa delle donne di Roma. La locandina dell’evento (che non risolverà la situazione di Kobane, ma almeno proporrà informazioni di prima mano) ha circolato sui social: l’hanno ripresa in pochi, e pochi di coloro che urlano “dove sono le femministe?” hanno sentito il bisogno di informarsi.
Allora, cosa dovrebbero fare le femministe e le intellettuali “scandalizzose”? Twittare, naturalmente. O postare status a raffica. Sarebbe stato risolutivo? Evidentemente no. Avrebbero contribuito a informare? Neanche un po’.
Quando, due anni fa, si iniziò a parlare di femminicidio, non fu a causa di twitter e di appelli e petizioni, che hanno avuto una parte (una parte, sottolineo) di utilità: ma perché quei tweet e status si inserivano su anni di lavoro e approfondimento e azione sul campo che avevano reso fertile il terreno.
Ora, invece, si chiede l’urletto, rapido e luminoso come una stella cadente, e poi si passa al prossimo argomento. Se non rispondi, perché ritieni che il meccanismo sia consolatorio e dunque inefficace, sei tutto quel che di negativo si possa concepire: e qui entra, evidentemente, il risentimento antico che rischia di paralizzare i movimenti, il “perchè tu sì e io no”, il “basta con chi parla in mio nome”. Eccetera.
Ora, visto che non mi sono mai sentita una che parla per le altre, e tanto meno una Madre da abbattere (al massimo una zia balzana), mi limito a ripetere che questo fervido scrollarsi di dosso tutto quanto è stato fatto negli ultimi anni è poco sensato, molto poco politico, molto pericoloso. Date uno sguardo ai documenti di Scosse dopo il lavoro sull’educazione di genere, e comprendete quanto ci sia da fare, e quanto la copertura delle altrui cosce non abbia nulla a che vedere con i femminismi (anche se, come detto le solite decine di volte, una responsabilità comunicativa e di poteri, nella diffusione di questo stereotipo, esiste all’interno stesso dei femminismi, che però sono e restano plurali e non si identificano con una sola persona nè con una sigla).
Dunque, la prossima volta che state per scrivere “dove sono…?”, pensate a dove siete voi, e cosa fate voi, e quanto siete informati voi, e quando desiderate informare voi. E non è una rispostaccia: è un invito sincero. Perché nessun cambiamento passa attraverso un social network, nonostante quel che pensiate.

11 pensieri su “DIMMI SOLO UNA PAROLA, VIA TWITTER

  1. I Wu Ming già in agosto hanno sottolineato (tra altre cose) il ruolo delle donne nel PKK, che corrisponde anche a un egualitarismo che quella formazione rivendica nella società civile, al contrario dell’ISIS con le sue combattenti (punto 6 dell’articolo che linko).
    https://storify.com/wu_ming_foundt/per-capirci-qualcosa-la-guerra-all-isis-il-ruolo-d
    L’articolo è stato ripreso e dibattuto in rete, ed era linkato anche su Retekurdistan (dove appunto c’è anche il volantino del convegno alla Casa delle Donne di cui parli tu, Loredana).
    A me quindi fa un po’ specie che uno/a imputi agli altri di non prendere posizione su una cosa che lui/lei stessa magari ha scoperto tipo l’altroieri, solo nel momento che è arrivata col botto sui media mainstream italiani… Mi fa pensare che la cosa non fosse (e forse continui a non essere) proprio in cima ai suoi pensieri e preoccupazioni.

  2. Avevo linkato anche io l’articolo (fin qui la cosa migliore che ho letto sull’argomento), per dar voce a chi ha parlato e scritto in un modo che non sarei stata in grado di fare, perché credo che fare rete dovrebbe essere questo. Sulla vicenda curda, in modo simile a quanto avvenuto con Gaza, mi sembra ci si muova, quando si accusa l’altrui silenzio, più per ostilità verso quelli che si reputano avversari (femminismi, intellettuali, altro) che per chiedere una partecipazione che, in modi e forme diversi, c’è già.

  3. “Supponi che, come è ben possibile che accadesse, nel 1962 o 1963 io facessi una conferenza sulla psichiatria. Fra le altre cose, mi capitava allora di spiegare come, per un qualsiasi individuo sofferente e in difficoltà, l’essere etichettato come malato di mente potesse in certi casi contribuire a un’interiorizzazione dell’etichetta. Ossia, inconsapevolmente, insensibilmente, questa persona poteva essere sospinta ad assumere alcuni dei comportamenti socialmente previsti per il ruolo “malato di mente”. Sempre ci tenevo però a precisare che questo fenomeno, già studiato da Lemert e da Becker non spiega affatto né l’inizio né la natura del disturbo mentale, anche se talora può influenzarne, in qualche misura, il decorso, o il decorso apparente. Ora, ecco il punto. Nel 1962 potevano venire ad ascoltarmi sì e no trenta persone; parlando con loro avevo l’impressione che la maggior parte di loro avesse compreso senza equivoci quello che volevo dire. Anni dopo, mi venivano ad ascoltare non trenta, ma trecento persone. la metà di loro se ne tornava a casa convinta che io avessi detto che la malattia mentale non esiste, perché io avevo detto che se un soggetto è trattato da pazzo egli si adegua all’etichetta solo per questo motivo e non perché affetto da una malattia mentale. Ed eccomi sistemato, per loro ero un antipsichiatra.”
    Giovanni Jervis, Gilberto Corbellini, La razionalità negata
    potresti fare un ashtag #voisietequi con link affanculo
    ma perché ti accolli tutt@ gli/le squinternat@?

  4. Purtroppo alla oggettiva fase discendente dei movimenti delle donne, femministi e no, si accompagna, se non precede, una loro precipua condizione, difficilissima da superare: avere diffidenza l’una dell’altra, soprattutto quando qualcuna delle associate vuole passare dalle parole ai fatti. Si viene tacciate di volere gestire il potere, di parlare anche per le altre in silenzio, di arrogarsi pensieri non propri. Ma è così difficile per noi donne declinare al femminile l’azione politica? Ci fa così paura “il potere”, da deprecarlo a parole e da inibirlo anche a quelle che vorrebbero affrontare le sfide nuove che il genere femminile trova sul proprio cammino? Possibile che non ragioniamo sugli obiettivi, ma sulla malafede di chi vorrebbe agire nella direzione delle mete condivise da raggiungere? Semmai riuscissimo almeno ad individuarle!!!

  5. Maddalena, è così. La questione del potere (o presunto tale, perché nella stragrande maggioranza dei casi di potere non si tratta, ma di momentanea visibilità, spesso neanche gradita) resta centrale e non abbastanza affrontata.

  6. @Loredana, già, scusa, ho dimenticato di dire proprio che l’articolo l’ho letto grazie alla tua segnalazione! Si vede che tra lo scandalo per una scollacciatura e l’altra ti era avanzato un po’ di tempo… 🙁

  7. Tragico e beffardo destino unisce le divisioni per il potere (più o meno effimero) tra i gruppi femministi con quello tra le associazioni LGBT… siamo forse all’entropia definitiva delle/dei discriminati attraverso l’accettazione contenta della propria schiavitù e oppressione!?

  8. Quello che dite tu e Jacky Brown (e lo dico semplificando, ma penso di aver capito) è un po’ quello che sta capitando ora con Sabrina Guzzanti e il suo tweet che improvvisamente è diventato 1) solidarietà a Riina e 2) pubblicità per il suo film. Solo a me è sembrato sarcasmo per come ci siamo ridotti? Non so se sia perché la gente non vuole sentire e preferisce cercare e trovare conferme al sentire che le viene inculcato come ottimo e desiderabile, o se in effetti lo spartiacque sarà sempre e comunque nella differenza tra chi sa leggere l’ ironia, e chi proprio non ce la fa. Senza esprimermi al momento né sugli uni né sugli altri. (cioè, ma quello che hai detto ieri si capiva tanto bene, e pure il tweet della Guzzanti si capiva tanto bene, o sono io che non ci arrivo?)

  9. Privilegiata ormai in alto e altissimo loco, la scelta di pronunciarsi su argomenti complessi mediante due frasette e un’immagine o, meglio, un cinguettio, sembra aver prodotto una demenza generalizzata. A proposito di femminicidio come d’altro.
    Penso che le “intellettuali” davvero impegnate darebbero un buon esempio evitando i social…

  10. Invece bisogna farlo, secondo me, virginialess: perchè in questo momento ti danno la misura di quel che accade. Per questo post sono stata fatta fuori dalle amicizie di non poche pure-e-dure che dal momento che non posto e non twitto su Gaza e Kobane mi considerano il male. Ma questo va compreso, e prima ancora appreso. Perchè è questo che ci sta immobilizzando.

  11. Nel senso di canale di trasmissione in tempo reale da luoghi/situazioni critiche?
    Sì certo, per informare, diffondere, attivare ecc.
    Criticavo la pretesa di utilizzare i social per “sputare sentenze” a richiesta, ovviamente insignificanti, sui più svariati temi, come appunto lamenta l’articolo.
    Chi vuole esprimersi seriamente (intorno a ciò che sa) ha bisogno di spazi più ampi (tra cui i blog) per articolare il discorso. Anche su Gaza e Kobane, avendo qualcosa d’interessante da dirne, con buona pace delle signore in questione.

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