DIO NON PREMIA LA MISERIA: LE FAVOLE FREDDE

In effetti non è una fiaba, quella che stiamo vivendo, e se lo è, è nera. E’ una fiaba come quella raccontata da Kazuo Ishiguro ne Il gigante sepolto, dove la nebbia che cancella la memoria del mondo diventa sempre più fitta (neanche una riga sui 22 anni dal G8, figurarsi su Roberto Saviano, e così via). E’ una fiaba fredda, dove i vapori della rabbia salgono ma si dissolvono nell’inazione.
Penso al fiabesco di Ottessa Moshfegh e credo che ci somigli. Dunque vi posto qui l’articolo che ho scritto per Linus ad aprile. Dove appare anche l’Hårga di Midsommar.

 

“Non so come immaginiate il Medioevo, ma Ottessa Moshfegh ne ha disegnato uno senza troppo pensare agli approfondimenti e ai dettagli storici. Il romanzo è Lapvona ed esce per Feltrinelli, e in effetti non ci dice nemmeno che siamo in epoca medievale. Semmai, lo comprendiamo da quell’alternarsi fra disperata povertà e insaziabile fame e ricchezza incalcolabile. In poche parole, da una parte c’è un signore del castello, Villiam, meschino e avido, che mangia anatre e salsicce e beve vino: “Villiam era un ingordo e mangiava quanto un’intera famiglia, ingozzandosi a ogni pasto e tra un pasto e l’altro. Ma non era mai sazio e non aveva che un filo di carne sulle ossa. Non faceva passeggiate né molto altro a parte stare seduto e farsi intrattenere da chiunque fosse al suo servizio in un dato giorno”. Dall’altra c’è un villaggio che non ha cibo per sopravvivere, e, ai confini di tutto, il pastore Jude (cugino di Villiam) e il figlio deforme Marek, che si consuma nella fede in Dio e nel dolore delle percosse del padre. Quando Marek causa la morte del figlio di Villiam, Jacob, non viene punito dal signore del luogo ma, anzi, rimane a castello in sostituzione del ragazzo perduto. E solo una volta conosciuto il lusso capirà che esistono differenze fra ricchi e poveri: “Era impossibile non accorgersi che i servitori puzzavano tutti distintamente di cavolo bollito. Perfino Lispeth, che era giovane e carina, aveva l’alito acido e cattivo. Spesso, quando passava un servitore, restava nell’aria un odore di uova marce. Questo perché la loro dieta consisteva principalmente di cavolo, mentre a Villiam, Dibra, padre Barnaba e ora anche a Marek veniva servito ogni cibo immaginabile dall’orto rigoglioso, dalla fattoria e dalla cucina del castello.”
Sembra una fiaba, è vero. Ma nelle fiabe così come le conosciamo le cose infine vanno a posto, c’è sempre una fata o un mago o una creatura incantata che premia gli umili e imbandisce tavole colme di burro e polli e canditi. Qui, semmai, le divisioni aumentano. La siccità spinge gli abitanti del villaggio a mangiarsi fra loro, mentre nulla accade ai signori: “Non era stata la misericordia divina a salvare il castello dalla siccità, ma uno stratagemma usato da tempo dai governanti nelle stagioni senza pioggia. La neve che si scioglieva dalle montagne più alte e che alimentava fiumi e ruscelli, così come pozzi e cisterne, veniva deviata da una diga verso un lago artificiale nascosto in un boschetto di pini all’estremità opposta della proprietà. Il fossato del castello era sempre pieno d’acqua. Sul prato sbocciavano i fiori. Tutto era rigoglioso nella quiete del giardino”.
Per di più, non c’è nessun istinto di rivolta nella popolazione, non sognano di rovesciare i governanti né di pretendere giustizia: si limitano ad ascoltare le storie di quanto ricchi e preziosi siano i loro banchetti per poi tornarsene, rassegnati, alle loro case.
Le fiabe sono precog, evidentemente, perché da sempre raccontano quel che siamo, e Ottessa Moshfegh ha scelto di sottrarre la consolazione, quell’e vissero felici e contenti che però contiene sempre un accenno alla condizione di chi narra (e noi siamo qui senza niente sotto i denti). E’ un modo per dirci che alle fiabe crede, e infatti le popola di streghe e di santi veri o immaginati.
Credere è un atto di fede e di passione verso la storia che si racconta. Soprattutto quando la storia è fantastica, credere significa essere convinti della sua plausibilità nell’essere, per definizione, non plausibile. Gli orchi non esistono, così come non esistono uomini che si mutano in lupi sotto la luna piena. Le pulci giganti non esistono, così come non esistono porte che si spalancano per far tornare i morti tra i vivi. Le streghe che cambiano una vecchia in fanciulla non esistono, così come non esistono i mondi roteanti, folli, sbagliati su cui si affacciò Lovecraft. Eppure, se chi scrive crede, riesce a convincere chi legge o chi assiste a guardare nella stessa fessura e a scrutare le stesse tenebre, per quanto spaventoso possa – e debba – essere. Per fare un esempio quando, ai tempi, vidi al cinema Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, ho avuto la sensazione che Garrone non credesse a quanto ha raccontato. Garrone ha tratto il film da Lu cuntu de li cunti di Giambattista Basile: lo stesso da cui nacque quella gemma del teatro che è La gatta Cenerentola di Roberto De Simone, laddove però De Simone “credeva” a quello che ha fatto. Forse non credeva al dattero magico, ma alla passione e alla rabbia che sono dietro ogni magia sì, credeva, eccome. Le fiabe che Garrone scelse sono tre: La cerva fatata, La pulce, La vecchia scorticata. In modi diversi, parlano di superbia, potere, desiderio, saggezza, come tutte le fiabe. In modi diversi, ospitano draghi marini, cuori incantati, mostri, orchi, streghe, meraviglie. Ecco, nel film quella meraviglia non c’era: se non, ripeto, visiva, la stessa che si prova camminando in una straordinaria galleria d’arte. Come disse Stephen King a  The Paris Review, rispondendo alla domanda “quali sono le differenze fra popular fiction e letteratura?”:  “la vera rottura viene quando ti chiedi se un libro ti coinvolge a livello emotivo. E una volta che quelle leve iniziano ad abbassarsi, molti critici scuotono la testa e dicono No”.
Dunque, non basta credere. Perché la sensazione è che Ottessa Moshfegh si sia limitata a mostrarci la desolazione che il fiabesco nasconde. E mi è venuto in mente un altro film, Midsommar, girato da Ari Aster nel 2019. Tecnicamente un folk horror, dove cinque studenti, Dani, il suo fidanzato Christian e i suoi compagni Mark, Josh e Pelle visitano una comune svedese, l’Hårga, per una festa di mezza estate che si tiene una volta ogni 90 anni, e scoprono che la festa prevede una serie di riti via via più spaventosi: spingere al suicidio due membri anziani, un accoppiamento volto a una nuova nascita, l’elezione di una Regina di maggio e, infine, il sacrificio umano per propiziare i raccolti. Storie già avvenute, e raccontate magistralmente dallo stesso King (la morte di Susan nello Charyou tree della Torre nera) e da Shirley Jackson (ovviamente, La lotteria). Ma qui risultano più potenti perché riconosciamo proprio la fiaba dietro la storia: nel caso, Il Mago di Oz, dove ad affiancare Dani-Dorothy sono compagni maschi e molto meno piacevoli dell’uomo di latta, del leone codardo e dello spaventapasseri, e dove la razionalità del gruppo (sono studenti di antropologia) viene annientata dalla fede perversa dei membri della comunità. Fede, comunque. Nei fantasmi o nelle streghe o in quel che si vuole: e in Lapvona non sembra esserci fede, ma un terribile sconforto sull’immutabile destino dell’umanità, dove Dio “non premia la miseria”, come in effetti è stato ed è, oggi come ieri e l’altro ieri.  In un certo senso, è un fallimento: perché il livello emotivo non è neppure sfiorato. Eppure qualsiasi storia, se è una buona storia, agisce su quel piano: anche se usa i mostri marini.”

 

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