DIVAGAZIONE SULLA LETTRICE, QUATTRO: LA CRITICA ED ELIZA DOOLITTLE

Facciamo un gioco. Digitate su Google la parola “lettore” e guardate i risultati fra le immagini. Nonostante il maschile, appariranno in maggioranza donne, ragazze, bambine che leggono, e diversi lettori, sì, ma di carte di credito e Dvd. Eppure, se penso alla lettura, la fotografia che mi viene in mente è quella del giovane Severino Cesari a Castelluccio di Norcia, nel settembre 1970, i piedi immersi in un abbeveratoio, lo sguardo fisso su un libro. Ma l’immaginario è una faccenda complessa da scardinare, specie in tempi che, invece, sono quanto mai semplificati (anche se niente affatto semplici).
Anche Internet,  come ogni medium, è complesso: raccontarlo come facile e soprattutto omogeneo serve a un solo scopo. Vendere. Infatti si vende di tutto: alberghi, ristoranti, scarpe, libri, biscotti e oroscopi sono irresistibili se ben recensiti dalle “persone comuni” che in apparenza vanno a sostituire il marketing ma che nella maggior parte dei casi SONO sollecitate dal marketing. L’utente comune, e dunque anche anche il lettore comune, è il brand, il marchio, il gadget, la merce che deve vendere prima (e talvolta al posto) di fare qualcosa che valga la pena vendere.  Forse è per questo che tutti lo stanno corteggiando.
Il 26 agosto 2012 il New Yorker intervista Bing Liu, esperto di data-mining all’università dell’Illinois: a differenza della pubblicità, dice Liu, le recensioni dei consumatori “offrono l’illusione della verità”. D’accordo, sono false per un terzo: ma persino gli utenti che le commissionano le “sentono” vere.
Non è il caso delle book-influencer. Sono fermamente convinta che, almeno nella maggior parte dei casi, le parole che spendono sui libri fotografati su Instagram o sui blog, siano sincere, e che come tali vengano percepite. Servono a vendere? Lo abbiamo visto ieri: no. Servono a orientare il lettore già forte? Forse. E allora, se si escludono quelli che fanno vendere davvero (Tv e Premio Strega, come detto), chi lo orienta, il benedetto lettore forte? La critica?
Se la lettrice è donna, il critico è maschio, quasi per definizione. So perfettamente che esistono le critiche letterarie, e donne che recensiscono libri: ma sono poche.  In America esiste VIDA, Women in Literary Arts, che sul sito vidaweb.org pubblica ogni anno i risultati del monitoraggio effettuato su diverse testate in lingua inglese su quante scrittrici vengono recensite su riviste e quotidiani. Pescando, per esempio, nel rapporto 2012, emergeva  che nella prestigiosa Granta le donne che recensiscono libri sono 3 contro 28 maschi e le recensite 11 contro 54. The London Review of Books ne recensisce 74 contro 203, The New York Times Book Review si attesta su 237 contro 488. VIDA mette a disposizione anche una comparazione triennale, dove si scopre che, nella prospettiva di genere, le cose sono andate peggio per le scrittrici in moltissime testate: New Republic (16 contro 80), The Atlantic (4 contro 16), The New Yorker (58 a 138). Scorreteli, i numeri: perché sono quelli che contano, scrive Amy King nel post introduttivo, nonostante quello che dicono editori e redattori delle riviste e dei supplementi chiamati in causa. Quando uscì lo studio, il Guardian fece  un titolone: “Gli scrittori maschi dominano il mondo dei libri”.  Perché i  numeri sono numeri: le scrittrici vengono recensite meno, le donne che recensiscono sono in numero minore dei colleghi. Poi, si possono indagare le cause. Si può sostenere – ed è legittimo – che non si possono certo applicare le quote rosa  all’editoria, e che qualità e genere sono due cose diverse.
E’ verissimo. La qualità non si lega al genere sessuale di chi scrive. Ma non credo si possa negare che le scrittrici vengano “viste” meno dei loro colleghi: per “viste” non voglio dire che non vendano (vendono), che non vengano premiate (da ultimo, un po’ di più), che non vengano raccontate (anche se, quando finiscono sulla copertina di una rivista, si aprono i cieli e le saette percuotono la terra). Anzi, negli ultimi mesi si brontola parecchio sul fatto che le scrittrici sarebbero fin privilegiate nel trattamento ricevuto. Diamolo per possibile. Ma quando il gioco si fa pesante, e bisogna conferire autorevolezza durevole, ecco che le scrittrici spariscono.
Come molti sanno, Andrea Cortellessa ha appena stilato il suo canone del XXI secolo. Su quarantacinque scrittori, cinque scrittrici. Quando uscì la sua antologia sui narratori italiani degli anni Zero, la proporzione era simile: venticinque scrittori, cinque scrittrici.  Ai tempi, glielo feci notare durante un’intervista alla radio: non la prese bene, e la controargomentazione era quella che immaginate. Le quote rosa non si applicano alla letteratura. E, ripeto, ci sta. Ma la domanda è: quante scrittrici hai letto? Quante scrittrici vengono lette con l’attenzione che si riserva, o si dovrebbe riservare, se sei un lettore professionista, a un testo?
La risposta soffia nei venti di questi anni, che in un mondo letterario sempre più piccolo vede farsi minima l’autorevolezza critica. La recensione conta per fare rassegna stampa, non perché muova le vendite, e questo è ormai assodato: eppure, nel momento in cui si azzarda il canone, ammesso – e io non ne sono convinta affatto – che i canoni servano ancora, forse occorrerebbe porsi molte domande. Premetto che gli autori scelti da Cortellessa sono, nella grande maggioranza, autori che stimo, e in non pochi casi stimo molto, ma la sensazione che resta è che si legga chi già si conosce, e si tributi riconoscimento a chi già ne ha avuto in precedenza.
Non è una questione di “circolo degli amici”, come si sente ripetere da anni fino allo sfinimento: in un mondo così piccolo, ci si conosce tutti, anche all’interno di circoli che si propongono come alternativi. Quel che viene lamentato è faccenda antica: così come si corteggiano le book influencer, si corteggiano i critici e i comunicatori culturali, si attaccano quando si ritiene che non ci prendano in considerazione e si blandiscono quando si spera di ottenerne l’attenzione. Succede anche a me? Ovviamente sì: ma io lo so perfettamente (perché, altrimenti, avrei pubblicato in precedenza sotto pseudonimo, secondo voi?), anche se essere lucidi non è sempre un vantaggio, fidatevi. E’, ripeto, una faccenda antica e non estirpabile.
Basterebbe un po’ di curiosità in più. Basterebbe aprire libri di autrici (e, certo, di autori) che non conosciamo, che non abbiamo già letto, che non abbiamo “scoperto”: perché se la critica è maschile, non rinuncia all’antico piacere che provò Henry Higgins nell’insegnare a Eliza Doolittle a intonare a perfezione “La rana in Spagna gracida in campagna” (era My Fair Lady, da Pigmalione, naturalmente). E’ brava, è merito mio. Anche qui, vecchia storia.
Ricapitolando. Da una parte, le lettrici non amatissime ma utili, anche quando si fanno comunicatrici sui social portando soffi tiepidi di speranza agli editori. Dall’altra, le scrittrici che nei canoni non entrano, anche quando il loro valore viene premiato: perché, forse forse, resta il sospetto di eccessivo sentimentalismo nei loro testi, anche quando sono affilati e formalmente imprevedibili.
Cosa ne sarà, allora, della comunicazione e, sì, valutazione dei libri? Su questo, ancora una puntata. Domani.
Tu che eri a Mylae con me sulle navi
quel cadavere che l’anno scorso hai piantato in giardino
ha cominciato a germogliare? Fiorirà
quest’anno? O il gelo improvviso
ne ha danneggiato l’aiuola? Oh tieni il Cane lontano
che è amico dell’uomo, se non con le unghie
lo metterà allo scoperto! Tu
hypocrite lecteur! – mon semblable – mon frère!”
T.S. Eliot, La terra desolata

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