Ma allora, come si vendono i libri? Bellissima domanda, a cui non si può non rispondere: ah, saperlo. Chiunque pretenda di avere la formula magica, a mio umilissimo parere, sbaglia. Arrivando con il testo giusto al momento giusto, si potrebbe forse dire, ma è ben difficile calcolare i tempi. Colibrì di Sandro Veronesi sta vendendo, certo, anche grazie a un’impressionante unanimità di recensioni stellari. Ma non vende quanto Stefania Auci, che probabilmente molti di quei recensori non hanno neppure letto. E perché vende Auci? Solo perché nel mondo, dopo Elena Ferrante, ci si interessa alle saghe scritte da donne? Non basta, e forse non è così importante (e sono contentissima per lei, nel mio nano-canone).
Perché il discorso fatto fin qui dovrebbe avervi fatto intuire dove voglio arrivare: come si è detto, esiste un immaginario che riguarda, ancora oggi, le lettrici e le scrittrici. Quell’immaginario si plasma (ancora oggi, di nuovo) su un’idea che ritiene entrambe piacevoli, sentimentali, confortanti, rilassanti, utili nel primo caso e, in un modo diverso, nel secondo (oh, invitiamo una scrittrice donna altrimenti pare brutto, oh, assegniamo un premio letterario “nell’era del metoo”, così siamo in tendenza).
Naturalmente non è sempre così, naturalmente esistono le eccezioni, esistono i critici attenti che leggono le autrici (quelle che già non conoscono, intendo), esistono molte book influencer che studiano il testo che recensiscono più del set fotografico, e che prima o poi, a seconda dell’umore e del proprio divertimento, cambieranno anche quel set, scegliendo i barili di chiodi di cui si parlava all’inizio, o una mortadella, o una confezione di analgesici invece delle marmellate e delle posate d’argento. Non è questo che conta. Ah, giusto, cosa conta?
Dalla sola forza dell’applauso possiamo dedurre quanto una massa si sia costituita (Elias Canetti)
Due cose, contano. La prima è la consapevolezza, la seconda è il piacere. La prima riguarda il nostro essere nei social, come al solito. Che non è, mai e poi mai, un tema secondario, perché è la nostra modalità comunicativa e anche di informazione principale. Date un’occhiata agli ultimi dati di vendita dei giornali per accertarvene. Quanta consapevolezza abbiamo? Quanto lucidamente guardiamo alle possibilità reali del mezzo?
Passo indietro. Negli anni Zero funzionava così: quando si organizzava una tavola rotonda o un convegno o un festival, i blogger davano un tocco di colore agli eventi, oltre a fornire informazioni gratuite e indicazioni su cosafatendenzaoggi agli old media, i quali li saccheggiavano e talvolta, quando serviva la scivolata nel costume, li citavano come creature di un mondo a parte, stravagante e un filo ossessivo (perché all’epoca si riteneva che la rete tutta fosse faccenda innocua, e che certo non avrebbe insidiato mai e poi mai la carta e la televisione, e delle catastrofi in corso si parlava al massimo in qualche racconto distopico).
Un blogger, purchessia, e non importa se scriveva di libri o del gatto o di politica o si fotografava le scarpe: all’epoca, molto più di oggi, nei singoli blog si parlava di un po’ di tutto, non era ancora tempo di specializzazioni e di nicchie – che si delineavano, certo, ma non erano un vincolo – e non si doveva per forza essere fashion e food e book e mom, ma molto spesso si era tutto questo insieme. Ah, i vecchi tempi: quando le scritture erano – non tutte, certo, ma in buona parte sì – meno calibrate sulla possibilità di entrare nel gruppo dei famigerati “influencer”. Quelli che contano. Quelli a cui si offre un banner, la recensione di un biberon o di un libro o di un film, una percentuale, sia pur irrisoria, sulle pubblicità. I vecchi tempi, che non è bello rivangare, anche perché nel mondo digitale il concetto di vecchio è relativo, e si parla di una manciata di anni e a volte di mesi, quando i blogger erano meno furbi, e l’idea di microfama, che già germinava, finiva col limitarsi al “ti linko, mi linki?” per arrivare al numero di visualizzazioni e citazioni necessari per diventare una blogstar.
Una blogstar si trovava nelle parti alte delle classifiche dei blog più visitati, aveva un mucchio di accessi e di commentatori e di parodie, era corteggiata in raduni e blogfest, magari arrivava a vincere un Macchianera Award e in molti casi esibiva un gadget da vendere ai lettori: la maglietta, i cappellini e le tazze da colazione con su impresso il logo del blog, il banner da far circolare, il blogbook che raccoglieva i post più belli, la galleria fotografica su Flickr (ma che strano, ma che effetto fa parlare di queste cose, volatili e morte prima che i loro nomi e la loro funzione divenissero patrimonio di tutti e non solo di una nicchia: ricorda la malinconia già senile di coloro che dicono addio al fax e al videoregistratore e alla pellicola Kodak, e per i più anziani al registratore Geloso, il superotto e il Mottarello).
Ma una volta raggiunto lo status di blogstar, cosa cambiava? E cosa desideravano gli aspiranti famosi se non essere presi in carico dai deprecati old media, stampa, libri, televisione?
C’è stato, almeno in alcuni casi, il salto alla fama più duratura: all’epoca sembrò normale che si trattasse di una selezione limitata, e che coloro che avevano dimostrato talento o simpatia o anche avvenenza riuscissero a scrivere un libro, condurre un programma alla radio o in televisione, divenire attendibile giornalista politico o celebrato conduttore e opinionista. Il cambio di paradigma è arrivato molto dopo, quando pretendere tutto questo è divenuto il motivo principale per stare in rete, e si è passati dalla grande conversazione alla grande promozione. Con l’arrivo dei social media, i blog cambiano, si fanno strumento di marketing e automarketing, portano all’estremo quel che all’epoca era solo un germe, spesso festoso: condividere la notorietà, che non si limitava al solo produttore di contenuti, ma veniva diffusa da chi partecipava commentando quei contenuti e linkandoli altrove. Seth Godin lo aveva previsto.
Seth Godin è quello che si definirebbe un pensatore, che sa di economia e di filosofia e di marketing e di Internet. Ne La mucca viola e ne I piccoli saranno i primi, Godin sostiene che all’interno di una comunità vengono annullati i confini tra autore e lettore: a colpo d’occhio, un’assoluta uguaglianza, ma non è così, perché fin dall’inizio l’autore (blogger o youtuber o instagrammer) detta le regole del gioco e comunica al solo fine di promuovere, che lo voglia o no, che lo sappia o no. E nella maggior parte dei casi chi lo segue desidera sostituirsi a lui, scrivere un libro esattamente come lui o divenire influente esattamente come lui. La spirale è perversa: perché per alimentare l’utilissimo desiderio di emulazione altrui l’autore tenderà spesso ad abbassarsi al livello del proprio seguace, e dunque addio meraviglia, addio originalità, addio Mucca Viola: per Purple Cow, Seth Godin intendeva lo straordinario e l’inconsueto, il prodotto “fatto per persone che non desiderano perché hanno tutto ciò di cui hanno bisogno”. Altri tempi: nel giro di pochi anni, le mucche non sono più nere, non sono più viola, ma sono normalissime vacche marroncine o pezzate: perché non di inarrivabile c’è bisogno, ma di qualcosa che ci somigli, che confermi che siamo tutti bravi allo stesso modo. Che possiamo, anche noi, essere star in politica, nello spettacolo, nelle arti, ovunque.
Vale anche per alcuni scrittori e scrittrici, certo. Vale per tutti noi, soliti freaks sotto il solito, immutato tendone.
E allora? Allora sappiamolo. Basta questo, per cominciare. Ricordiamocelo quando scoppierà la prossima polemica che rimbalzerà di bacheca in bacheca, con chiamata alle armi dalle due parti, con grande spreco di energie non per intervenire sul punto, ma per liquidare, di volta in volta, le femministe o gli amici del patriarcato, con sconcertante (davvero) invito a togliere il proprio like a queste o quelli. Ricordiamo il contesto. Chiediamoci cosa vogliamo davvero: giocare, scrivere o fotografare le famose tovagliette perché ci piace o perché riteniamo sia una scorciatoia per il successo (che è molto più raro e faticoso di quel che ci vien detto). Restiamo lucidi, insomma (e magari anche umani, ma non vorrei chiedere troppo).
Peraltro, e lo scrivo solo alla fine, generalizzare è sempre una fesseria: le due influencer citate nella polemica originale, Petunia Ollister e Carolina Capria, sono donne che di libri sanno, e se non piace il loro modo di comunicarli si può leggere altro e anche, vista la situazione, farsi il proprio benedetto canone, perché tanto, a questo punto, Harold Bloom coincide con la terrazzetta di casa nostra, mica con l’Occidente.
Il resto, davvero, conta poco. Buona prosecuzione.
Allora andiamo, tu ed io
Quando la sera si stende contro il cielo
T.S.Eliot, Il canto d’amore di J.Alfred Prufrock