DUE DOMANDE

La prima è di Giovanna Cosenza: e riguarda ancora Il corpo delle donne.
La seconda è mia, e riguarda i libri. In particolare, un romanzo d’esordio che ho letto ieri pomeriggio e che ancora una volta racconta i dolori del precariato, di mamma che paga master  che non servono a nulla e di quanto è terribile il mondo per una ragazza (vale anche al maschile, ne ho letti altri dello stesso tenore, ultimamente). Vero. D’accordo. La domanda è: è colpa mia se comincio ad essere irritata da questo tipo di libri?
(Mi rispondo da sola per evitare polemiche: assolutamente sì. E’ colpa mia).

35 pensieri su “DUE DOMANDE

  1. beh, ma funziona così da sempre, il genio inventa il genere e poi tutto un filone segue… a volte fa meglio, spesso fa peggio; in attesa di una nuova buona idea

  2. dedicalo alle mamme della generazione che ci ha preceduto,quelle che a furia di stare in cucina si sono cotte gli organi interni anche se le cartelle cliniche non dicevano così.Oppure ai padri che lavoravano nei petrolchimici che pisciavano sempre azzurrino o violetto con molta schiuma.Per ritrovarsi dei figli che inviano curriculum a vanvera nella speranza che qualcuno confonda il proprio grido per una professionalità che nessuno gli ha mai voluto vornire.Dedicalo anche a questa gente il libro

  3. Diamonds: guarda che non tutte le madri e tutti i padri raccontati in questi libri vengono da quell’esperienza. Nel caso specifico, la mamma paga-master è una signora assai benestante.
    Quel che voglio dire è che colpevolizzare la generazione dei padri e delle madri – come viene fatto in moltissimi casi- è spesso autoassolutorio. E rischia di essere un boomerang per chi scrive.

  4. Io non l’ho capito perchè ti irritino, non è polemica è che er post è corto!
    Pure a me me irritano, ma non so se è per lo stesso motivo.
    C’è da dire che al secondo libro precariesco mi sono rotta le palle e non ho approfondito il genere.
    Conosco bene il settore, e mi identifico, anche perchè ho scelto una strada professionale che non prevede alternative, e per la quale devo per forza fare lavori di merda per ancora diverso tempo – e lo posso fare solo perchè parto da relativamente benestante, se no m’attaccavo a sta cipp.. Quindi se ci dovesse essere una lamentazio in quella direzione non mi irriterebbe. La sensazione che ho avuto è invece che si sfrutti un’ambientazione e una serie di problemi che ora sono spesso detti ridetti e svuotati di senso, e non si proceda oltre. Non ci sia talento, non ci sia carne, solo una fumosa pretestualità.

  5. Semplicemente: l’apripista passa per per aver aperto la pista. Chi ritorna su quella traccia, o ci non aggiunge altro di sostanzioso o viene a noia. Non è la generazione 1000 euro a venire a noia, è l’insufficienza di analisi e narrazione. O sbaglio?

  6. La domanda di Giovanna è lecita, ma non so se il freno all’esposizione o lo stop temporaneo possano essere la soluzione.
    Ripeto quanto ho già scritto a Disambiguando: non sconfiggi Matrix uscendo da Matrix, ma riconoscendo che Matrix è “solo” 0 e 1. Questo è quello che ha capito e fa Luciana Littizzetto, per dire: non nega l’esplosività della carne, la annuncia, la suggerisce, ma contemporaneamente la depista e la disinnesca.
    Bisogna riconoscere, piaccia o meno, che l’esposizione della carne qui e orafunziona secondo determinati meccanismi, e provoca determinati effetti. Secondo me non è un caso che la “disponibilità fantastica” funzioni seguendo determinati schemi, che non sono fissi, che si evolvono e che inseguono un certo fantasma.
    Il problema non è “cosa” si espone, ma cosa si evoca esponendo, e perché questa, qui e ora, è l’evocazione vincente.

  7. Comincio a pensare che tanti, troppi giovani vogliano conquistare il successo con l’alta formazione (svuotando le tasche ai genitori), perché soltanto così si può accedere ai nevralgici gangli del potere (nei più disparati settori). O meglio, tale è l’illusione della maggior parte delle famiglie. Ben sapendo invece la realtà della mobilità sociale in Italia. Poi, uno su cento ce la fa e 99 rimangono disillusi, frustrati e gridano al complotto o a Roma ladrona o a chissà cos’altro. Però intanto molti continuano a rincorrere i sogni che saranno distrutti in pochi anni.
    Inoltre, studi seri ci raccontano che siamo il fanalino di coda europeo per la media di laureati, ma se sappiamo con precisione che l’intera Italia funziona attraverso le raccomandazioni (una rondine non fa primavera), di che cosa stiamo parlando?
    Allora viva chi decide di fare il contadino, l’idraulico o l’imbianchino mi viene da pensare a volte. Lavori dignitosissimi, senza desideri di potere.

  8. Ottima considerazione, Sulromanzo.
    Ora però ti chiedo: tu fai l’imbianchino? L’idraulico? E i tuoi figli? Tutti in fabbrica a 18 anni? Non vuole essere una provocazione, solo una domanda. Perché mi pare che – come per molte altre cose – la regola “meglio non avere ambizioni” sia bella, nobile e di buon senso, purché a seguirla siano sempre gli altri.

  9. Da che in questo paese nei libri di narrativa non c’era nemmeno il più piccolo accenno al lavoro, oggi ‘il lavoro’ è diventato un genere narrativo molto trendy.
    E vero che zoomando sul lavoro cogli una fetta ampia della vita di una persona, di una famiglia, di una società, però bisogna vedere pure come la cogli , cosa vuoi vedere e soprattutto cosa fai vedere.
    Se devo esprimere una mia opinione personale, un po’ mi hanno stufato.
    Riguardo alla domanda di Giovanna Cosenza, non lo so.
    Fare silenzio sul corpo della donna, sbiancarne l’immagine.
    Ma come si fa, chi lo dovrebbe fare?
    I media sicuramente non lo faranno, e allora uno fa finta di non vedere per niente? Mi pare difficile da praticare, ecco.
    E poi devo dire che a me che non guardo molta televisione, già guardare blob mi è utile, mi fa male, a volte mi arrabbio e mi dico le stesse cose che dice Giovanna Cosenza, però intanto vedo quello che vedono gli altri, vedo che l’immagine proposta della donna è quella lì, non mi posso fare illusioni, qualora mi sia possibile farmele, perché questo paese, comunque, con quello che c’è dentro, cose e modelli, non è che posso spegnerlo.normale oppure su blob o, addirittura, su un documentario in cui oggetto della visione non è ‘il corpo della donna’, ma ‘l’immagine del corpo della donna’?
    Secondo me questo è importante, è come dire ‘ehi, ma lo vedi cosa stai guardando? Cosa ti fanno guardare?”.
    C’è un effetto straniamento già in blob, e ancora di più nel documentario della Zanardo, che produce pensiero.
    Intanto già questo, e non è poco di questi tempi, mi pare importante.

  10. Francesco, risposta semplice.
    Divido il mio tempo in due cose, lavorativamente parlando.
    Primo: sbarco il lunario facendo manovalanza culturale. Mi sta stretto, ma appena potrò mi dedicherò ad altro. Una questione esclusivamente economica.
    Secondo: impegno del tempo per imparare i segreti della terra, per ricavarci un giorno verdura esclusivamente biologica. Sto osservando, sto studiando, sto rubando segreti a chi ne sa più di me. Mi manca il salto che avverrà fra pochi anni, dedicarmi solo o soprattutto a quello.
    Non ho figli ancora. La mia famiglia è in tutte le sue componenti non laureata, rari diplomati, tutti con lavori semplici.
    Non è questione di non avere ambizioni, è ridimensionarsi un po’, troppi vogliono essere protagonisti nel potere. Questo è il cancro.

  11. scusate, è saltato un pezzo.
    dopo la considerazione che comunque questo Paese non posso spegnerlo, mi chiedevo se la cornice in cui viene presentato il corpo della donna non sia importante.
    Perchè un conto è presentare quel corpo come ‘normale’ in un programma di intrattenimento, un conto è presentarlo come ‘immagine di un corpo’. A me, spettatrice normale, la cosa pare molto diversa.
    (poi prosegue uguale. Scusate la prossima volta cercherò di stare più attenta)

  12. Ancora una postilla.
    Una preoccupazione personale: non vorrei che, a furia di criticare il modo in cui si rappresenta il corpo della donna, si demonizzasse – tout court – il corpo delle donne.
    Dico questo, perchè girando su diversi blog, mi pare che a volte si fosse innescato questo corto circuito.
    E’ un po’ come quando si è affrontato il tema di certi cartelloni pubbliciatari e della eventuale conseguente censura.

  13. Ho letto adesso il commento di Lorella Zanardo sul blog di Givovanna Cosenza e sono assolutamente d’accordo con lei.

  14. Se il fastidio espresso e’ per la rappresentazione “rituale” del precariato, posso essere d’accordo. Per quel poco che ho visto, per esempio parlando di film, perche’ i romanzi sull’argomento li evito, ho gia’ la mia vita e mi basta, manca totalmente in Italia la capacita’ di fare film di denuncia seri sull’argomento precariato, disoccupazione anche della mezza eta’ e delle figure impiegatizie medio-alte, mobbing ecc.
    Ma manca anche proprio la capacita’ di parlarne nei termini giusti, in tv, sui giornali, nell’informazione in genere.
    Lo dice chi tutte queste cose o quasi le ha vissute, e non le vede mai rappresentate con il giusto rilievo. Forse perche’ ne emergerebbero i reali termini, le dimensioni drammatiche, generazionali, epocali.
    Quando Mussi da ministro disse, sbigottito: “qui in Italia le industrie cercano solo analfabeti!” sintetizzo’ bene la situazione.
    La cosa che piu’ mi fa rabbia e’ chi, dall’esterno o da situazioni molto diverse, con scarsa conoscenza e piu’ o meno in buonafede, sentenzia, stigmatizza, generalizza.
    L’Italia e’ quello che e’. Pensiamo al mobbing: ci sono due scelte, quando si vuole neutralizzare un problema grave: ignorarlo, non parlandone affatto, oppure parlarne troppo e a sproposito. Abbiamo scelto la seconda strada, con prevedibili risultati di sovraesposizione, insofferenza e disinformazione. Ora forse si sta facendo lo stesso sul precariato: sfruttare la moda.
    Scusate, avrei interi libri da scrivere in proposito (e un po’ ne avevo scritto in passato), ma per un commento sbrodolerei troppo.

  15. “colpevolizzare la generazione dei padri e delle madri” è una forma di vittimismo da gettare al fiume.Peraltro farlo con la classe politica del regime mediatico che ci ritroviamo da 50 anni equivale a rendersi complici di un depistaggio.Se invece il problema è lo sfruttamento di un aureo filone letterario fino all’esautorazione dei significati si potrebbe dire che solo post come questo possono rinfocolare il dibattito(ancora lui)sui rischi di un inflazione

  16. @Sulromanzo
    Credo che il fraintendimento di fondo, in effetti, sia tra formazione di alto livello, ambizioni professionali (e di vita, più in generale) e “sete di potere”. Onestamente non ho certezze sulle proporzioni tra le tre cose. Nel senso che non so quanti di coloro che vanno all’università, frequentano un master eccetera lo facciano perché pretendono di essere parte della classe dirigente. Allo stesso modo, sono d’accordo con te sul fatto che “mandare i figli all’università” è diventata un’ossessione: ragazzi che palesemente non ne hanno le capacità vengono indirizzati a studi di alto livello, magari ci mettono sette anni a diplomarsi in un istituto tecnico e poi vogliono a tutti i costi iscriversi a ingegneria. Perché questo, naturalmente, è stato loro inculcato dai loro genitori, incapaci di accettare che i propri figli possano, appunto, fare gli idraulici o gli imbianchini, lavori dignitosissimi e anche soddisfacenti (soprattutto dal punto di vista economico: sappiamo tutti quanto guadagnano un insegnante, un ricercatore precario, un giornalista che va avanti a collaborazioni).
    Però.
    Però resta il fatto che in questo Paese la formazione di alto livello è considerata un disvalore, e questo è intollerabile. Resta il fatto che la nostra classe imprenditoriale (una delle peggiori in Occidente) preferisce assumere manovalanza non qualificata piuttosto che puntare su gente preparata. Resta il fatto che gli stessi manager sono, in gran parte, non laureati. Qui si fa strada l’idea che studiare sia una perdita di tempo. In altri Paesi si investe sempre di più in formazione. Chi ha ragione? Per una parziale risposta, guardate che posti occupa l’Italia nelle graduatorie su innovazione, ricerca, competitività (ma anche mobilità sociale, pari opportunità, cultura generale…)

  17. E poi si potrebbe parlare della frammentazione dei corsi di laurea, inutile e deleteria. Una formazione universitaria statica, messa alla berlina che produce pochi laureati che non entreranno nel mondo del lavoro. Ennesima bastardata da parte di quelle generazioni tappo di questo paese. Tappo perchè, oltre a produrre merda, continuano a far crescere quel serbatoio di precari che, tra un pò, rasenterà i loro sederi. Sono pienamente d’accordo con Francesco, la soluzione è quella di far passare il messaggio “studiare è una perdita di tempo”, bella soluzione.

  18. Mah
    Ho apprezzato moltissimo il commento di Milena D. Che secondo me dice molte cose vere, proprio su un modo di rappresentare che è sempre falsato. In qualcosa Sulromanzo ha ragione – è bello anche il suo progetto, ma perchè se firma sulromanzo e non carote biologiche? va beh na provocazione:) – è vero che ci sono un sacco di lavori assai più redditizi che nessuno in italia vuole più fare, e io mi pento di non avere sta gran propensione per l’idraulica stante le vacanzine che se fa er mio de idraulico. Ma è solo parte della questione. La questione secondo me è che il nostro è un capitalismo distorto, una specie di primo mondo zoppo, una copia del primo mondo vero ma in stallo.
    Vedete, è assolutamente normale che i figli di una nazione ar settimo posto (finto, secondo me, ma vabbè) dei paesi più ricchi vogliano fare lavori fichi, e che hanno a che fare con i vertici del loro contesto socio culturale. In linea teorica il capitalismo fico ha bisogno di queste leve. Per altro i call center sono pieni di studiosi di cose letterarie e antropologiche e psicologiche, non vi crediate che ci sono gli economisti, o i laureati in legge. C’è il mondo che la ricerca italiana non è in grado di assorbire. Un tempo l’università era un ascensore sociale, era giusto che lo fosse. Oggi finisci un dottorato e stai colle pezze al culo, perchè certe dinamiche di casta sono ritornate più forti che prima. E allora te, per rimanere in università e pubblicare le tue tre cazzate, ti fai le tue ore giornaliere di call center. In un capitalismo antipatico ma funzionante, nei call center ci sono gli extracomunitari, e certi lavori sono appannaggio delle minoranze etniche, le quali scalano socialmente il contesto di approdo per graduali ordini professionali C’è ineguaglianza, non è la società senza classi, ma almeno la Germania, o il Canada, sono capitalismi che girano, che ricambiano socialmente, che creano una classe intellettuale e dirigente. Che se ti fai il mazzo Dio caro si l’ascensore sociale funziona ancora, persino se non sei bianco te guarda.
    In Italia l’ascensore sociale è fermo, a meno che non ti dai a mestieri ai limiti della legalità, tipo l’immobiliarismo paraculo. Ma devi morì dove nasci. Sei figlio di un mondo che un salto l’ha fatto, ma non riesci o per colpa tua, o per resistenza del contesto a fare altrettanto. Io su me stessa sento entrambe queste cose per esempio. Sento una speice di impotenza che non so contrastare, e la resistenza del contesto a cui appartengo. Credo che di questo dovrebbe parlare un romanzo sui giovani precari, di questo senso di stritolamento, di questa impotenza frutto della propria inefficacia politica moltiplicato per il decrepito stallo di questo paese.

  19. In Italia i master, dopo che con l’università di massa la laurea ha perso questa funzione, servono unicamente a fare una selezione di classe. Oltre a essere una svalutazione e un’ammissione di incapacità dell’università di formare gli studenti (nei master si insegnano a caro prezzo cose che l’università dovrebbe insegnare normalmente, e che un tempo insegnava!).
    Non è certo un problema di alta formazione dal momento che, ad esempio, il dottorato (fuori dall’accademia) è considerato carta straccia, quando non una palla al piede.

  20. C’è anche un altro fattore, credo. Ed è in quell’impotenza che sottolineava zauberei. Su Repubblica di oggi si parla di una ricerca di Alessandro Rosina e Paolo Balduzzi, “Giovani oltre la crisi, la carica dei Millennials” , che parla dei ragazzi più giovani – tra 18 e venticinque, grossomodo – come di una generazione su cui puntare. Dei fratelli maggiori, Rosina dice: «I trentenni di oggi sono stati i primi a fare i conti con le nuove forme di lavoro flessibile e la scarsità di ammortizzatori sociali e davanti alle difficoltà hanno reagito in modo passivo, ritirandosi, cercando al massimo la salvezza sul piano individuale, rinunciando a combattere come gruppo».
    Con tutte le semplificazioni del caso, credo che non sia così falso.
    Tornando ai libri, fatte salve alcune eccezioni, noto che i romanzi sul precariato si centrino terribilmente sull’individualità. Al punto, e qui si torna al post, da risultare un boomerang. In altri termini: ho fortemente detestato la protagonista del romanzo appena letto.

  21. Vero, quando ero in fabbrica e quando partecipavo alle prime mailing list sul telelavoro, mi accorgevo che i ragazzi piu’ giovani non avevano proprio in loro i geni della protesta, della coscienza collettiva (non voglio dire di classe). Ciascuno chiuso nel suo privato, con una idea sbagliata dell’individualismo, o arrogante o rinunciataria.
    Nel primo caso, a fronte di un sindacato ritenuto non rappresentativo si sbandierava orgogliosamente la propria unitarieta’, la propria partitella IVA, sbarazzandosi di qualsiasi diritto sociale faticosamente acquisito dalle generazioni precedenti come di anticaglia superata, inutile palla al piede, privilegio dei nullafacenti eccetera, convinti di far carriera con la furbizia, l’assenza di scrupoli, l’iniziativa, (questa anche positiva, di per se’), senza accorgersi che cosi’ ci si esponeva inermi ai contraccolpi di un sistema senza piu’ regole, un liberismo trionfante all’americana senza i lati buoni del medesimo, perche’ applicato in una realta’ farraginosa e clientelare, altro che meritocratica.
    Nel secondo caso, i rinunciatari, sono divenuti tali anche perche’ bombardati da una propaganda martellante tesa a colpevolizzarli, a metterli in difficolta’, a far capire che era tutta colpa loro se non ce la facevano. Cosi’ si teneva a bada la loro rabbia e si impediva che si incanalasse pericolosamente in forme di consapevolezza e ribellione sociale.
    Del tipo: e’ colpa tua che hai troppa esperienza, o troppo poca, devi fare il master, hai fatto troppi master, chiedi troppi soldi, ne chiedi pochi e ti svaluti, non sai scrivere un curriculum , ti vanti troppo, sei modesto… e cosi’ via. Arzigogoli mentali per non ammettere la semplice verita’: che di lavoro qualificato e stabile ce n’era sempre meno, ed era riservato ai raccomandati con corsie preferenziali. Cosi’ alla fine uno si butta sul privato come una lumachina e diventa tipo Arisa.
    Poi, ultima cosa e la pianto, sul discorso delle qualifiche, non e’ neppure vera la storia che ci sono troppi laureati di materie letterarie o sociali, pochi tecnici. Quante volte avrete sentito dire che mancano ingegneri, per esempio? Bene, e’ informazione distorta anche quella.
    Per esperienza personale e dei miei amici ho visto tanti di quei laureati tecnici a spasso, di varie eta’, qualifiche, esperienze, nazioni addirittura, che vi potrei fare un elenco lunghissimo. Anche disposti a trasferirsi, anche senza famiglia al seguito.
    Ribadisco, c’e’ tutta una realta’ scomoda che si vuole negare.

  22. Eh allora Loredana ora la capisco la polemica che temevi:) E’ un tipo socioculturale questo che ti sta sulle scatole, non un romanzo – è una persona che potresti incontrare (speriamo che nun so io!).
    Mi ha interessato pure il secondo commento di Milena. Io ci ho esperienza di psicologi. Un disastro. Si laureano e devono lavorare a gratis per altri cinque anni, la dove ovunque all’estero per fare le stesse cose sono retribuiti. Esattamente come i loro colleghi medici specializzandi sono retribuiti per la specializzazione.
    Ora. Io ho provato a pensare a una protesta. Organizzarla, contattare fare- perchè questo andazzo ha anche un ricasco imbarazzantemente grave sulla qualità del servizio offerto dai centri di igene mentale, dove lo stato fattura, ma il tirocinante – trentenne che tiene famiglia o vorrebbe – non prende una lira. E’ dura lavorare col dolore altrui a gratis, e il dolore altrui che pretende da te la dedizione, e ti viene pure la signora che potrebbe pagarsi la terapia privata e ti tratta con supponenza, ha un disturbo grave e te vorresti strozzarla. Ho provato a proporre degli scioperi per esempio nell’ospedale dove ho fatto il mio ultimo tirocinio – Gemelli – figuramose. Ho provato a raccogliere delle cavolo di firme. Ma fanno spallucce. Dicono, eh tanto se ci fermiamo noi tutto continua uguale. Eh tanto qui eh tanto li. Parli con il capo dipartimento e quella ti dice ma cosa pretendi! Ma cosa protesti! E si incazza con te. Forse la situazione è aggravata dal fatto che per lo più le psicologhe sono donne, e le vediamo quanto sono agguerite ste donne italiane, per l’appunto.
    E allora lo confesso, io mi stufo. Sto al gioco. Ripiego nel privato e mi occupo di me, e tiro avanti, e dritto. Perchè ahò ci avrò la fissa der potere? e sia. Sono individualista? benone. Ma cazzo voglio fare questo lavoro, lo voglio fare perchè è la cosa che so fare meglio, e non posso perdere tempo.

  23. No, Zauberei. Il rifiuto era nei confronti del romanzo perchè enfatizzava quel tipo socioculturale sottolineando il suo essere “vittima”. Come vedi, dalla discussione che stiamo facendo, il discorso è MOLTO più complesso.

  24. mi dispiace intervenire così tardi, ma è l’unico momento in cui posso fermarmi davanti ad uno schermo a leggere sul serio quello che ho davanti, poter riflettere ed eventualmente rispondere. Proprio per questo pur leggendo quotidianamente il blog non intervengo mai perchè credo che i miei commenti sarebbero davvero fuori tempo massimo e quindi inutili, non parte integrante della discussione. MA stavolta mi sento troppo coinvolta e quindi vado, anche se ormai siamo già tutti in attesa del post di domani. Dunque, io ho quasi 25 anni, ho fatto lettere e poi un master che non mi ha insegnato molto, seguito da uno stage che non credo abbia contribuito a formarmi professionalmente ma mi ha messo davanti alla realtà lavorativa (fino ad allora per me totalmente sconociuta). Sempre grazie a questo stage ho trovato il lavoro che ho ora (lavoro che potrebbe fare una qualsiasi persona anche con un diploma di scuola media inferiore, si intende). Ma sono comunque precaria, tra qualche mese non so cosa ne sarà di me. Quindi vorrei che del precariato si parlasse seriamente e seriamente si trovasse una soluzione. Ma nonostante questo (e nonostante sia abbastanza “coinvolta” lavorativamente parlando con il film “Generazione mille euro”-anche se non l’ho visto-) o forse proprio per questo rifiuto libri e film su questo genere perchè fanno solo male alla causa. Non fanno denuncia perchè sono superficiali, e sfido chiunque a non sapere che esistono i precari. E invece questa è l’unica informazione che forniscono film e libri di questo tipo. Il resto sono battute, sesso, il solito italianissimo deleterio “buttiamola in caciara, tanto restiamo sempre a galla” che rovina e immobilizza il nostro paese da decenni. E’ la politica che ci sta dietro che va risolta, è tutto quello di cui avete parlato oggi che andrebbe denunciato, ma non si fanno film o libri così. Si fanno invece su storie individuali in cui il precariato è solo il contesto storico su cui appunto queste storie si stagliano perchè è questo che va di moda raccontare oggi. Se fosse andato di moda lo stile bucolico avrebbero raccontato di ragazzi che si innamorano sotto gli alberi in mezzo alle caprette anzichè in appartamenti in subaffitto. Ecco l’unica differenza.
    p.s. chiedo scusa per la prolissità e per eventuali pensieri contorti o errori, ma a quest’ora mi si incrociano davvero gli occhi

  25. Anch’io riprendo le fila del discorso tardi, in effetti forse ero stata un po’ troppo superficiale nel liquidare la questione, ma mi pareva si fosse partiti dal romanzo e da come fossero venuti a noia non certi temi, ma certi modi di trattarli.
    Per quel che riguarda il mondo del lavoro, sono d’accordo con l’analisi di Milena.
    Dieci anni fa ho lavorato in un call center per diversi mesi e lì mi sono accorta, non per particolare acume, ma perché la cosa si toccava veramente con mano, che la realtà del lavoro stava cambiando e in modo radicale.
    Era un call center, è vero, ma in vitro era un modello aziendale che si andava affermando in modo trasversale in tutti i settori, privati e anche pubblici, e pure nella vita sociale.
    Non so se Milena parla dello stesso periodo, ma era evidente già dieci anni fa che la consapevolezza da parte dei lavoratori più giovani di essere titolari di diritti, la coscienza collettiva come dice Milena, non esisteva più, sostituita dall’illusione che ‘diventare imprenditori di se stessi’ ed essere molto ‘proattivi’ sarebbe stato il presupposto di magnifiche sorti progressive, anche se individuali, anzi progressive proprio perchè individuali(stiche).
    Per rispondere a Tinamarti, secondo me Bajani, Ferracuti, Baldanzi, Murgia, Nove, Celestini e sicuramente qualche altro che non ricordo hanno trattato del mondo del lavoro in modo non superficiale.
    Celestini, oltre a trattarne a teatro, ultimamente ha scritto un romazo ‘Coscienza di classe’ che ancora non ho letto, ma conosco molto bene il mondo di cui parla, che poi è il call center in cui ho lavorato.

  26. non intendevo generalizzare, so che c’è chi affronta in modo serio la questione lavoro anche sul versante letterario/artistico. Mi riferivo, ma non l’ho specificato (ma un po’ si capiva tra le righe del mio flusso di coscienza), ai film e ai libri di chi vuole solo cavalcare l’onda

  27. Sì certo, in realtà con quella citazione volevo correggere anche il mio primo post in cui dichiaravo che certi romanzi mi avevano stufato, in realtà mi hanno stufato quelli che vogliono cavalcare l’onda e fanno dei quadretti di genere.
    Dieci anni fa invece avevo bisogno di qualcuno che parlasse, nominasse, le cose che vivevo e che vedevo io come del pane. E a certi autori, come Celestini per esempio, sono addirittura grata per averlo fatto.

  28. Se la mamma che ha pagato il master comincia a sgozzare venditori di tecnocasa allora credo, anzi sono sicuro, che valga la pena leggerlo.
    insomma dipende sempre da dove si vuole andare a parare.

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