Si è pronunciata la parola distopia a proposito del meraviglioso Il Silenzio di Don DeLillo, e, al solito, il termine risulta tecnicamente esatto ma improprio. Da ultimo, anzi, letteratura fantastica, horror incluso, sembra coincidere con la distopia. Puoi anche schifare le storie di vampiri e ritornanti, ma se scrivi una distopia va benissimo, è letteratura. Tutto è cominciato molto tempo fa, agli inizi del Novecento almeno, se non più indietro, ma la passione recente nasce più o meno con La strada di Cormac McCarthy: lo scrittore, già amatissimo, pubblica il romanzo nel 2006 e vince il Pulitzer l’anno successivo. La storia sembra una distopia post-apocalittica, ma nei fatti è una storia di paternità, e poco conta infatti quel che è avvenuto nella catastrofe che ha fatto scomparire tutti gli esseri viventi tranne gli uomini, decimandoli, e annientando le risorse energetiche e tecnologiche. Conta l’andare di quel padre e di quel figlio senza nome che si dirigono nel Sud dell’America per sfuggire all’inverno. Poco conta, appunto, che non si frequentasse il genere: McCarthy l’ha fatto, facciamolo anche noi.
Qualcosa di simile si è ripetuto dopo lo straordinario successo della serie televisiva tratta da Il racconto dell’ancella, che Margaret Atwood aveva scritto nel 1985 in piena era reaganiana e che, almeno in Italia, era stato quasi ignorato. La serie, peraltro molto bella, conquista nuovi lettori e soprattutto nuove lettrici, diviene parola d’ordine delle giovani femministe che da ancelle si vestono e Atwood, che vince il Man Booker Prize nel 2019 con la seconda parte della storia, Testamenti, viene improvvisamente contesa come una rockstar. Eppure, lei dice, non ho scritto nulla che non sia realmente accaduto in qualche momento della storia degli esseri umani.
E’ vero: dovunque si diriga l’’immaginazione distopica, non fa altro che ripercorrere strade già battute. Dittature che hanno provocato milioni di morti, pestilenze. E’, insomma, una faccenda di memoria: eccezion fatta per le distopie che rientrano nell’ambito della climate fiction, laddove il disastro ambientale esiste, certo, ma avviene lentamente, e immaginarlo definitivo e violento non è che un’accelerazione. Possiamo raccontare cacce selvagge a favore di televisione, o giochi mortali, come nel raffinato Quintet di Robert Altman, immaginare cloni dotati di sentimenti come in Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro o reinventare tutto come Jeff Vendermeer nella Trilogia dell’Area X. Molto spesso, però, i toni si ammorbidiscono perché i lettori sono giovanissimi, e quella che fu la ferocia di Battle Royale diventa, mantenendo quasi la stessa storia, uno young adult, da Hunger Games a tutti gli epigoni.
E’ curioso, comunque, che manchi l’altro versante: l’utopia, perché la distopia si pone come suo rovescio, come narrazione di una società tutt’altro che desiderabile collocata nel futuro, anche molto vicino. Quella società è riconoscibile, perché somiglia molto alla nostra, ma i suoi lati negativi si allungano come la più nera delle ombre fino a coprire il ricordo, e dunque noi ci lasciamo andare pensando che in fondo, se ci comporteremo bene, se differenzieremo carta e plastica, useremo borracce, leggeremo Safram Foer, limiteremo le bistecche, il mondo sarà salvo. E l’altra parte, quella sognata anche dal coniatore del termine, John Stuart Mill, che nel 1816 pensava al desiderio e al suo opposto, non certo ai totalitarismi? Quella che Jules Verne prefigura nel 1879 ne I cinquecento milioni della Bégum, dove coesistono due luoghi, l’utopica France-Ville e la distopica Stahlstadt, per intenderci, e il doppio sarà anche una decina di anni dopo ne La macchina del tempo di H.G.Wells: da una parte gli Eloi, dall’altra i feroci Morlock?
Con il Novecento, comunque, il raggio di tenebra colpisce forte, e la distopia prende forma e si struttura: quando racconta i totalitarismi, immagina società dove gli uomini e le donne sono controllati e spiati da un potere politico, religioso, o tecnologico, rappresentato da un leader di notevole carisma, dove la divisione in caste o classi è fortissima e molto spesso invalicabile, dove la propaganda è vitale per il potere ed è impossibile sfuggirle, dove è sconsigliato dissentire, dove è lecito torturare corpo e psiche, dove si viene spiati da una polizia segreta e dove il mondo al di fuori è descritto come spaventoso e corrotto.
Prende forma anche il secondo filone, quello post-apocalittico, che si afferma con forza a metà del secolo scorso: Hiroshima e Nagasaki hanno dimostrato che la cancellazione dell’umanità è possibile. Le ombre sui muri calcinati sono reali. Il vento d’uragano, la vampa, le ustioni, l’azzeramento di ogni forma di vita sono reali, o lo sono stati. Sono nelle fotografie, nei documentari. Nei libri di storia. Dunque, non è così impossibile immaginare un mondo dove non esiste più vegetazione, dove l’acqua è tossica, gli animali quasi estinti e occorre, perché altrimenti di cosa staremmo narrando, che i sopravvissuti ripartano da quasi zero, per ricreare un ordine. Ce n’è anche un terzo, l’ucronia, il cosa sarebbe successo se o storia alternativa: il termine deriva dal greco e significa letteralmente “nessun tempo” (da οὐ = “non” e χρόνος = “tempo”) e indica la narrazione di quel che sarebbe potuto succedere se un preciso avvenimento storico fosse andato diversamente. Il termine è stato coniato dal filosofo francese Charles Renouvier in un saggio (Uchronie) apparso nel 1857. Volendo, anche lo steampunk, ambientato in epoca vittoriana, ma modificata, è da considerarsi ucronico. Ma gli esempi più famosi sono Fatherland di Robert Harris, insieme a L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick. In pratica, in quasi tutte le storie, il Reich ha vinto la guerra e il mondo va ridisegnato geopoliticamente.
Sono sempre gli anni Ottanta a contenere il germe della nuova distopia. Sono gli anni in cui John Carpenter dirige 1997: Fuga da New York e immagina la città come un carcere di sicurezza che serve l’intero paese: “Non vi sono guardie dentro il carcere. Solo i prigionieri e i mondi che si sono creati. Le regole sono semplici: una volta entrati, non si esce più”. Perché fuori ci sono tribù cannibali nelle fogne, assassini, gladiatori. E sempre negli anni Ottanta viene concepita la maschera di V per Vendetta, serie a fumetti di Alan Moore poi divenuta film, con il suo personaggio mascherato, ribelle e anarchico che agisce in un regime dittatoriale, il Norsefire, salito al potere dopo una guerra nucleare, con corredo di polizia segreta e campi di concentramento per minoranze etniche e sessuali. Lo spettacolo, avrebbe detto Guy Debord e sostiene il protagonista mascherato, porta a concepire l’azione in funzione di esso. Margaret Atwood, nello stesso decennio, ambienta Il racconto dell’ancella in una teocrazia totalitaria che ha rovesciato il governo degli Stati Uniti e ridotto le donne in schiavitù, sessuale e non. Lo iniziò a scrivere durante un soggiorno a Berlino Ovest, nella primavera del 1984, anno fatale evidentemente: intuisce la possibilità nel futuro, mette in relazione i comportamenti umani già avvenuti e li proietta in avanti.
Ancora negli anni Ottanta, la tecnologia viene guardata con sospetto. Nel romanzo manifesto di William Gibson, Neuromante, sempre del 1984, Case è un hacker o “cowboy della consolle”, il cui sistema nervoso è stato danneggiato, rendendogli impossibile il collegamento alla “Matrice”, la rete informatica globale, e viene reclutato per una missione che in realtà prevede tutt’altro, come l’evoluzione di un’entità, Invernomuto, in intelligenza assoluta. Ma due anni prima c’era stato Blade Runner di Ridley Scott, nello stesso anno Terminator di James Cameron, sempre ambientato in un futuro post apocalittico dove le macchine sono non schiave, ma schiaviste. Nel 1987, Paul Verhoeven realizza RoboCop . Ancora. In Atto di forza (Total Recall) che Paul Verhoeven dirige nel 1990 ispirandosi sempre a un racconto di Dick, Ricordiamo per voi, Douglas Quaid, operaio edile sposato con Lori, sogna Marte, e decide di andare alla Rekall, una compagnia capace di impiantare false memorie di viaggi mai accaduti attraverso un avanzato tipo di realtà virtuale, e finirà in un incubo multiplo. Più avanti, nel 1995, in un film diretto da Kathryn Bigelow, Strange Days, un ex-poliziotto vive spacciando clips per il “filo-viaggio”, sulle quali vengono registrate esperienze altrui che possono essere rivissute da chiunque. Tra gli incubi della distopia, nello stesso anno, ci sono anche quelli maschili, come in Seksmisja diretto dal regista polacco Juliusz Machulski, che immagina, ahi ahi, un 2044 governato dalle nazifemministe. Oppure, e siamo nel 1985, in Brazil diretto da Terry Gilliam l’incubo è la burocrazia che uccide chi tenta di ribellarsi e i pochi che ancora riescono a sognare.
Salto avanti. Nel 1999 James Berger intitolava After the End un saggio interamente dedicato al post-apocalittico, che spaziava dalla letteratura al cinema, ai media, e osservava che nella fase finale del ventesimo secolo abbiamo avuto l’opportunità, prima accessibile solo attraverso la teologia o la finzione narrativa, di vedere oltre la fine della nostra civiltà, di scorgere, in una strana sorta di retrospettiva prospettica, come si presenterebbe la fine: come un campo di sterminio nazista, o un’esplosione atomica, o una wasteland ecologica o urbana. E se siamo stati in grado di vedere queste cose è solo perché esse sono già accadute”.
Non si scrive se non di ciò che è già accaduto, come abbiamo visto. Prosegue Berger: “Si dice spesso che la modernità è preoccupata da un senso di crisi e vede sempre come imminente, o addirittura arriva ad agognare, una catastrofe finale. Questo senso di crisi non è scomparso, ma coesiste con un’altra sensazione, quella secondo cui la catastrofe finale è già avvenuta (forse non sappiamo esattamente quando) e l’attività incessante dei nostri tempi – l’informazione, con la sua processione quasi indistinta di disastri – è solo una forma complessa di stasi”.
Poi è venuto il Covid 19. E da allora abbiamo cominciato a pensare che fosse tutto vero. Ma probabilmente dimenticheremo ancora, così come abbiamo dimenticato altre volte, perché forse la nostra catastrofe è proprio qui: nella nostra immobilità.
Molto interessante, grazie.
Inizialmente, ovvero quando non era ancora diffuso l’attuale innamoramento per la distopia (favorito dalla letteratura YA, forse: e moltissim* lettori e lettrici, specialmente giovani, non considerano la distopia ma “il distopico”) quello di “distopia” era un termine meramente tecnico: distopia è l’anti-utopia, è l’immaginare un futuro peggiore del nostro. Poco importava se questo futuro fosse indagato e scandagliato o se fosse lo scenario per storie emblematiche, come nel caso di “La Strada”: era comunque distopico, perché appunto rispondeva a quel segmento.
Oggi naturalmente questo sottogenere si è evoluto e noi che lo studiamo da un po’ siamo impegnat* a capire come, per poter includere la metamorfosi negli studi critici (ci abbiamo provato nel “Manuale di scrittura di fantascienza”, Odoya 2019, che ho scritto con Franco Ricciardiello, nel quale abbiamo incluso come sottogeneri della fantascienza sia la “distopia” che il “distopico”, distinguendoli.)
Comunque, non è del tutto vero che manchi l’utopia: da qualche anno percepivo un certo bisogno sottotraccia di questo tipo di narrazione, e con la pandemia (e il ritornello “siamo in una distopia!”) il bisogno è aumentato ancora. Prima del 2020, la forte spinta ambientalista delle giovani generazioni aveva già dato origine a un nuovo genere di narrazione, figlio della fantascienza ma anche dell’ecofiction: il solarpunk, che è lo sforzo di narrare un futuro sostenibile, ecologico, inclusivo/femminista e anticapitalista. E non solo: il solarpunk vuole anche capire come arrivarci, per questo è molto attento alla ricerca scientifica e ai progressi tecnologici volti alla preservazione, al risparmio, al riuso. (Cosa buffa: questa nuova utopia ecologica/anarchica è spesso anche postapocalittica!)
Studiandolo, mi/ci è molto piaciuto, quindi ci stiamo lavorando per diffonderne i temi e gli scenari, e con l’apertura di un sito web apposito stiamo ricevendo tantissime richieste di collaborazione: è un segnale interessante pure questo, secondo me.
Spero che anche l’utopia, come la distopia, possa vivere un momento di discussione e di diffusione che la renda accessibile e alla portata di tutt*, come è stato per la distopia.
Grazie 🙂
Buongiorno,
grazie per l’interessante articolo. Nella piccola realtà in cui lavoro stiamo affrontando il genere distopico già da tempo prima della pandemia. Continuiamo a porci domande sui “mondi alternativi” ed è un viaggio assolutamente ricco. Con delle storie per ragazzi, già pubblicate in una collana dedicata, abbiamo iniziato a studiare “molti mondi”, chiavi di accesso a future proiezioni. Lieti che possa essere una bella onda da cavalcare.