Massimo Maugeri invita a dibattere su Fame di realtà di David Shields, e riporta anche parte della prefazione di Stefano Salis, di cui a mia volta posto uno stralcio.
Fame di realtà è un manifesto, una dichiarazione di poetica, un quadro dello status quo narrativo, certo. Ma è anche un’esemplificazione concreta di ciò che tale manifesto vorrebbe prospettare per la letteratura degli anni a venire. La stessa struttura autoriale classica è messa in discussione: un volume costruito con altri libri, ma senza note, senza rimandi espliciti, senza interruzioni di lettura. Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo.
Il libro è fatto di 618 frammenti, a volte brevissimi, a volte più lunghi e meditati. I pezzi sono selezionati e collocati all’interno di un alfabeto che descrive – con altissima percentuale di arbitrarietà – altrettante parole-chiave, funzionali, ciascuna, allo svolgimento del discorso nel suo complesso. Centinaia sono le citazioni, a volte letterali, a volte interpolate dalla voce dell’autore (di nuovo: concretamente Shields ci fa vedere come dovrebbe agire il manifesto che propugna…), di altri scrittori: opere letterarie, articoli di giornale, saggi, dichiarazioni, opere non ancora pubblicate, interviste e articoli reperibili sul web, persino chiacchierate private con scrittori e intellettuali. E persino (capita in almeno un caso, con Dave Eggers, uno dei numi tutelari di questo libro) dichiarazioni di autori, in seguito dagli stessi autori ritrattate, ma perfette – le dichiarazioni precedenti, diciamo, le idee, come dire… originarie – per ciò di cui si va discutendo. Né ci si ferma solo alla letteratura: jazz, arte, mercato, TV, cinema. Qualunque argomento è buono per supportare la tesi.
David Shields – americano, cinquantaquattro anni, nove libri prima di questo, tra i quali The Thing About Life Is That One Day You’ll Be Dead (Knopf, 2008), che riuscì a entrare nella classifica dei bestseller del «New York Times», romanziere ora chiaramente stufatosi del genere – dichiara esplicitamente, alla fine del volume, che il libro dovrebbe essere letto dal fruitore senza avvertimenti e senza consapevolezza della miriade di citazioni che contiene. I legali della casa editrice americana, la prestigiosa e potente Random House, che per prima ha pubblicato l’opera, hanno sconsigliato l’autore dall’omettere totalmente le fonti, e per di più in questa enorme quantità. E dunque potrete controllare quando volete “chi ha detto cosa”; ma, vedrete, non vi servirà più di tanto. «Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata», scrive Shields in chiusura.
Il gioco del “chi l’ha detto?”, il piccolo Trivial di Fame di realtà, lo dichiariamo in partenza, non vale la candela. Non è un’opera da leggere andando continuamente a verificare a chi appartiene la citazione tal dei tali. Dopo un po’ ne avrete abbastanza (anzi, si perde la cosa più importante di questo libro: condividere o confutare le idee che vi sono esposte) e l’esperimento, per di più, funziona poco, almeno per noi italiani, perché la stragrande maggioranza dei citati sono autori ben poco noti da queste parti; per lo più saggisti, giornalisti, scrittori che hanno riflettuto e stanno riflettendo su come si è modificata la letteratura negli ultimi anni. Autori di una certa area culturale anglosassone che potremmo individuare, grosso modo, in quel gruppo eterogeneo di scrittori e saggisti stanchi dei moduli tradizionali della narrativa e della saggistica, che utilizzano le nuove tecnologie e sperimentano, con risultati alterni, gli esiti di una ricerca complicata e delicata. E, in più, l’incertezza sulle parole degli autori che leggete è, come dice Shields, un pregio, non un difetto del libro.
«Uno dei temi centrali di Fame di realtà è il furto e il plagio e cosa vogliono dire queste parole. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare», spiega Shields, sempre nell’Appendice. «Sarebbe come scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale». Magari questo vi sembra un sofisma, e va bene: almeno spiega, però, il modo in cui il testo è stato scritto e perché. Per entrare nello spirito del libro, è forse questa la frase (che Shields usa per chiudere) più appropriata: «Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà».
Va da sé che il tema del diritto d’autore sarà sempre più centrale negli anni a venire, quando il concetto stesso tenderà a sfumarsi (insieme a quello di plagio) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità di materiale disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente che le nuove tecnologie (Internet in testa) ci garantiscono. Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire il complesso soggetto del cambiamento del concetto di diritto d’autore, ma lo sfondo culturale sul quale si adagia il libro di Shields è esattamente questo.
La tecnologia, inoltre, opera sulle idee: un fenomeno, questo, che spesso gli intellettuali e i critici letterari faticano ad accettare, eludendolo a bella posta e a priori, ma che si rivela difficile da aggirare. Basta guardarsi intorno, e basta avere un minimo di nozione di storia della cultura per vederlo in atto.
Per esempio: viviamo in un mondo assai diverso da quello in cui è nata e si è sviluppata la forma narrativa “romanzo”, quella che maggiormente le prende nel libro di Shields. Perché mai dovremmo pensare che questa non si debba evolvere per stare al passo coi tempi? O che magari, invece, sia diventata inservibile per essere rappresentativa della cultura e della nozione contemporanea di letteratura?
Ecco: forse è questo, ancora più del plagio (ma è evidente che sono temi connessi), il nocciolo del manifesto di Shields.
Se ne sono accorti in parecchi, del resto. A lettura finita, o mentre ancora leggete, vi renderete conto che Fame di realtà centra direttamente l’oggetto sul quale da anni molti critici letterari stanno riflettendo. Ecco perché l’impulso a rileggere queste pagine, a coglierne sempre nuovi spunti (o a controbattere, ancora con più violenza), sarà, lo garantiamo da prefatori entusiasti, irresistibile.
Molti scrittori americani, dal canto loro, ammettono che questo libro rimarrà a lungo sul loro comodino. Già, perché l’opera di Shields è finita nelle mani giuste. Ancora prima di uscire (la prima edizione americana data febbraio 2010), è stata letta e commentata in bozze. Appena pubblicata (con i commenti pre-lettura nei risguardi di copertina) ha subito scatenato un dibattito in America e in Inghilterra come non se ne vedeva da tempo, soprattutto sulla critica letteraria. Dibattito che nelle comunità internettiane e, soprattutto, tra gli scrittori di narrativa ha spopolato. E che non era, si badi, il trito dibattito su “il romanzo è morto?” (tipico tema balneare per stanche redazioni culturali dei giornali nostrani) ma, ben più sostanzialmente, su quale forma di letteratura ci dovremo aspettare per il futuro, quali modelli narrativi, quali suggestioni arrivano dalla realtà che ci circonda e che viviamo tutti i giorni.
I colleghi scrittori di lingua inglese hanno fatto a gara per recensire, lodare o anche (come ha fatto Zadie Smith in un articolo che diventerà forse libro, verosimilmente un contro-manifesto rispetto a questo che state per leggere) per contrastare il libro di Shields: da Geoff Dyer a Dave Eggers, da Tim Parks a Jonathan Lethem a Phillip Lopate, finissimo saggista e uno degli autori più citati e tenuti in considerazione da Shields.
Non abbiamo intenzione di riassumere le idee di Shields, banalizzandole. A grandi linee si può dire che la tesi è che il romanzo – inteso come costruzione di una storia fatta di sola immaginazione, con personaggi, trama, punti di vista – sia atrofizzato o siano atrofizzati gli autori. Tanto che gli scrittori letterari più interessanti, forse spiazzati da un mondo sempre più artificiale, continuano a mescolare la “propria” vita (o quella di altri) per «desiderio di realtà», per poter narrare: vi bastino i nomi di Zadie Smith, sebbene ostile a Shields, di J.M. Coetzee (tre romanzi simil-autobiografici), ma anche James Frey, al centro di un eclatante caso letterario qualche anno fa per il memoir A Million Little Pieces rivelatosi poi troppo inventato (e Shields ritorna moltissimo su questa vicenda, per il valore di paradigma che assume), o Dave Eggers che ha scritto almeno due «docuromanzi».
E se è vero che la cultura che ci circonda è piena di frammenti di realtà, simulata o meno (esempio: il successo dei reality show, dei film che “fingono” il documentario, alla Borat), forse l’arte, che dovrebbe imitarla (?), secondo i precetti classici, vive un’impasse o un ripensamento. O, semplicemente, sta cambiando pelle. E l’obbligo è interrogarsi su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina scritta. Inserire pezzi di realtà, fare collage delle proprie esperienze, manifestare al lettore i movimenti del cervello dello scrittore: ecco alcune delle suggestioni che Shields provocatoriamente espone. La realtà irrompe nella scena letteraria, travolge le distinzioni fiction/non-fiction, viene digerita e remixata e restituita sotto forme ambigue, dal personal essay al saggio lirico, dalla sghemba natura del memoir, con ampia facoltà di invenzione, all’autobiografismo con licenza d’immaginazione.
Tutte questioni messe in campo, con forzature, talvolta, anche decise. Citazione 307: «Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa (O forse non esiste nemmeno questa?)». Citazione 311: «Le forme si adeguano alla cultura: quando muoiono, lo fanno per una buona ragione. Vuol dire che non incarnano più il senso della vita. Se i reality riescono a trasmettere qualcosa che uno spettacolo più palesemente scritto o lavorato non riesce ormai a fare, questo per uno scrittore dev’essere più una sfida che un oltraggio». Con tanti saluti allo snobismo intellettuale di questa metà del mondo.
Ecco una citazione decisiva delle argomentazioni di Shields, quasi simbolicamente posta al centro esatto del libro: «Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di “quello di cui parlano” – che potrà sembrare un tantino tautologico – ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione dello scrittore che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto».
A un certo punto del libro, negli ultimi capitoli – fondamentali per capire il manifesto – Shields se la prende con Jonathan Franzen, il cui romanzo, Le correzioni, è stato probabilmente il simbolo narrativo dei primi dieci anni del XXI secolo. Non è utile soffermarsi su questo singolo caso: è il contesto generale che ci obbliga a ripensare cosa sarà della prosa nei prossimi decenni. «Al centro della “cultura letteraria” si trova il romanzo supervenduto di scrittori che non sono né carne né pesce, il solito monnezzone di quattrocento pagine. Incredibile, la gente continua a sciropparsi roba simile». «C’è inevitabilmente qualcosa di terribilmente artificioso nel romanzo tradizionale: riesci sempre a sentire le ruote dell’ingranaggio che girano». «Se scrivi un romanzo, ti siedi e fili un po’ di narrazione. Se sei uno scrittore romantico, scrivi romanzi su uomini e donne che si innamorano, guarnisci con un po’ di narrativa ecc. E va bene, ma non conta niente. Il romanzo in quanto romanzo è una forma di nostalgia». «I romanzi che mi piacciono sono quelli che non hanno l’aria di esserlo». Si potrebbe continuare a lungo, ma crediamo che sia sufficiente.
Shields contesta il romanzo, la sua forma, il suo status presente. È in buona compagnia, e forse non è nemmeno una novità. Ed è persino ovvio ripetere che continueranno a essere scritti ottimi, eccellenti romanzi-romanzi nei decenni a venire.
Ma come non c’è niente di male a guardare e produrre anche oggi un bel film in bianco e nero, è certo che dopo l’introduzione del colore le cose, per il cinema, sono cambiate radicalmente.
Così, alla base di questo volume, che coglie come pochi altri lo spirito del tempo (quello che chi vuole fare bella figura chiama Zeitgeist) c’è la possibilità (il dovere) di uscire dagli schemi ai quali siamo abituati.
Basta con le etichette formali nelle quali incasellare la narrativa (di comodo uso giornalistico, senza dubbio), basta con l’idea dell’originalità a tutti i costi (nell’arte succede già, da secoli: il dipinto di Bacon che riprende Velázquez è citazione, deformazione, originalità, tutti riconoscono la provenienza, nessuno si scandalizza, nessuno pensa ad appropriazione indebita), basta con il ricorso alla sola forma narrazione di una storia.
Se la letteratura è un oggetto che prima di tutto ha a che fare con l’uso della lingua – cosa che molti scrittori tendono a dimenticare – c’è bisogno di una nuova consapevolezza su come si scriveranno i “romanzi” (meglio: le opere che saranno giudicate come letteratura) nel prossimo, anzi nell’immediato, futuro.
Nel quale, non dimentichiamolo, persino la parola sarà uno strumento che non basterà più. Di nuovo, le tecnologie, la possibilità di inserire suoni, immagini e chissà cos’altro (oltre che il tempo che ci vorrà ad abituarci, all’idea e al fatto) sbaraglieranno le nozioni che abbiamo avuto finora.
Dunque copiate, remixate, frullate, ragionate, contestate, accettate, rifiutate e, se siete scrittori, producete: questa sfida è soltanto all’inizio. Il dibattito comincia a partire da questo libro. E continuerà, a lungo, nei libri, nelle discussioni on-line e su carta, nel modo nuovo di pensare all’arte.
Il nostrano Fabio Filipuzzi è sulla buona strada:
“Fabio Filipuzzi, ingegnere e scrittore a Udine, ha pubblicato 6 libri in 4 anni, dal 2006 al 2010. Romanzi e saggi di estetica, filosofia, architettura, usciti per Campanotto e Mimesis. Casa editrice, quest’ultima, dove Filipuzzi ricopre la carica di vicedirettore editoriale per la narrativa. Una produzione vasta. Peccato che almeno due dei suoi romanzi siano ***interamente copiati*** da altri autori di fama” [Handke, Enthoven]… ”
http://ilpiccolo.gelocal.it/dettaglio/belli-quei-romanzi-ricordano-handke-e-enthoven-lo-scrittore-udinese-filipuzzi-ha-copiato-dai-grandi/2313416
La prima cosa che mi viene in mente è la definizione che dava Levi Strauss del pensiero primitivo (“Il pensiero selvaggio”, Saggiatore) in termini di bricolage.
La seconda cosa che mi viene in mente è la distinzione Aristotelica di materia e forma. Negli esseri viventi la forma è entelechia, cioè principio organizzatore, in ultima analisi psiche, cioè anima. Negli artefatti umani è la finalità o il significato dell’assemblaggio materiale.
La terza cosa è un vecchio album degli anni Settanta (“Clic”) in cui un Battiato in vena d’avanguardia metteva insieme frammenti di trasmissioni radiofoniche.
Non si mette mai abbastanza in guardia la gente dalla perdita di memoria. Se ci si dimentica l’esistenza della gallina si finisce ogni volta per meravigliarsi dell’uovo. Cos’ha scoperto questo tizio? Che la digitalizzazione dell’essere rende disponibili come materiali frammenti di significato separabili e decontestualizzabili a iosa? E che l’esercizio creativo è nel disegno che si dà al mosaico più che nella novità dei frammenti stessi? E in America se ne parla assai?
Benvenuti nella repubblica di Monsieur Lapalisse.
Già nel lontano 1999, peraltro:
“Il libro è il primo “romanzo arlecchino” della storia della letteratura italiana, ottenuto per circa il 90% cucendo assieme “ritagli” di stoffa letteraria di oltre settanta autori. La storia è ambientata ai tempi del concerto veneziano dei “Pink Floyd” (luglio 1989): l’adolescente Costanzo Dorigo, dapprima attratto da una shopenhauriana tentazione di “rinuncia alla volontà” (la stessa che ha sospinto suo fratello Guiscardo nel tunnel della droga) sente poi gonfiarsi in petto una indeterminata quanto perentoria voglia di “cambiare il mondo” (come già era accaduto, una ventina di anni prima, a suo padre, ex-sessantottino rifluito)”.
http://www.ibs.it/code/9788887645019/anonimo-veneziano/scoppi-in-aria-schopenhauer.html
Avevo proato una leggera irritazione leggendo altre note su questo libro di Shields, l’introduzione di Salis mi dispone bene nei confronti dell’opera: tecnica già usata, e allora? È il panorama che questi frammenti organizzano che (forse) potrà mostrare quali sono alcuni dei congegni inceppati o giranti a vuoto nelle narrazioni di molti Grandi Romanzi Americani e non solo…
1) Il libro (lo sto leggendo in questi giorni) è interessante, non so se siano più interessanti tutte le opinioni e gli spunti raccolti o il fatto che, leggendo questi frammenti nello stesso luogo, si abbia il sentore di diverse idee colte sul nascere; una sorta di inception letteraria; ad esempio il fatto che chi scrive debba fare i conti anche con il cinema, il dvd, lo spettacolo; temi noti, è vero, ma raccolti e offerti in modo sistematico;
2) sul concetto di “fame di realtà” credo che, almeno per quanto riguarda la produzione letteraria in lingua italiana del novecento e degli ultimi trenta anni, non siamo da meno (penso anche al dibattito sul NIE) sul rapporto tra nuovi media digitali e scrittura non credo invece che tutti gli autori siano al passo;
3) è interessante il discorso su come i nuovi media influenzeranno la forma romanzo, nata più di due secoli fa e che già con l’era industriale (penso ai feuilletton di Dickens) aveva iniziato un percorso di frammentazione;
cosa accadrebbe se un giorno la soglia/tempo media di attenzione nei confronti dell’oggetto libro (o pagina) scendesse a tal punto da ridurre la letteratura a brevi messaggi? l’antiromanzo sarebbe anche un romanzo di frammenti – ripeto – teoricamente questi problemi sono già stati affrontati, ma il libro di Shields li comunica bene
C’è fame di realtà e allora che si fa? Si mettono insieme pezzi di altri libri (un tempo si chiamavano ‘antologie’) e ci si apre alle nuove tecnologie – dvd, film, videogiochi, tivù – tranquillamente definiti ‘realtà’. Ah, beh.
Non è solo che libri come quelli che immagina Shields esistono già da un po’ (qualcuno di voi ha mai letto l’Anatomia della Malinconia, un libro del Seicento composto al 90% di citazioni?), è il fastidio di uno scrittore mancato che mette su una teoria per giustificare i propri limiti, come un tale che conoscevo che diceva di non leggere romanzi perchè ‘non rispecchiano il nostro tempo’ ed era semplicemente uno che preferiva guardare il calcio in tivù alla lettura.
(che dire poi di una delle forme letterarie ‘ibride’ da me preferite, cioè il diario?)
Quoto Binaghi, perché non si dice niente di nuovo, alla faccia della soglia media di attenzione della forma libro.
Shields contesta il romanzo? Nel mio piccolo, scrivo da mesi che quest’ultimo sta diventando un oggetto status symbol, che nessuno ha voglia di leggere realmente e questa “fame di realtà” che c’è, è polverizzata in mille micro attenzioni che fanno da contorno alla letteratura. Sarà sempre di più così. Ci si affatica perfino al leggerlo lo stralcio di Salis. Dillo in due parole, prefazione noiosissima. Nessuno resiste a una tale rottura di scatole. Se rinsavisco rileggo Proust, non queste scemenze.
P.S. giacché hai scritto Zeigeist, ci tenevi per primo a far bella figura (lo spirito del tempo o come dicono…). E “la parola non basta più”. Per carità. La sinestesia del giocherellone.
Shields guarda la tv, gioca al citazionismo, ha mille gadget. simpatico come un barracuda che si sente originale (da solo). Insomma lo odio, parere personalissimo e reversibile.
E pure Salis odio. Una giornata un po’ così.
Non sarà certamente un romanzo-manifesto a determinare il cambiamento o la destrutturazione del romanzo nelle forme che la tradizione ci ha consegnato. Il reale nelle sue multiformi articolazioni di per sé incide su forme e contenuti del romanzo; il proliferare di gialli e noir per esempio, raccattati negli interstizi delle cronache quotidiane, credo sia la prova lampante di come il reale, vissuto e molto spesso rappresentato, incida sulla nozione stessa di romanzo. Shields, dopo l’immane sforzo, non so se erudito o meno, di raccogliere e citare, avrebbe anche potuto provvedere alla denominazione della sua creatura, o no? Un’ultima notazione: si potrebbe ipotizzare che il suo “prodotto” sia in un certo senso anche la metafora della rete internet? Citazioni interpolate, appropriazione indebita di pensieri, tesi, emozioni altrui, intreccio parola-immagine, mania dello sperimentalismo a tutti i costi… Se così fosse, non sarebbe un prospettare la forma futura del romanzo, ma uno scimmiottare una realtà in atto nella rete.
(Ho premuto invio senza lasciare i dati; me ne scuso).
In arte mimmo rotella faceva opere strappando manifesti incollati già quaranta o cinquanta anni fa. Dopo la rivoluzione novecentesca dell’astrattismo adesso l’arte è esplosa in galassie autonome, si torna anche al realismo e al figurativo, anzi la figura, ad oggi, è più rivoluzionaria dell’astrazione, di questi tempi cinque minuti di tv sono come fissare un pollok per un’ora.
La house music, in musica, ha già trent’anni ed è collage e citazione rubata sena citazioni o ringraziamenti.
La musica in generale vive di contaminazioni e copia incolla.
Adoro gli esperimenti e il gioco.
Mi spiace quando si vuole cavalcare l’onda delle mode e si strombazzano rivoluzioni inesistenti.
Visto che tutti o molti pratichiamo l’arte del copia incolla, allora vuol dire che la scrittura tradizionale è morta, mi pare come quando in tv minacciano che tutti moriremo di tunnel carpale e tutte le terribili nuove sindromi di chi usa il computer…
Mi viene da ridere quando qualcuno sbandiera la morte di un media.
La crisi o la fine di qualcosa in modo così millenaristico: la verità è che oggi non muore più niente, dopo pochi anni tutto torna a galla. Tra un po’ rifaremo il minuetto e il sonetto.
Innovazione e rimasticazione sono quasi sinonimi ormai.
Questo tipo di positivismo morale mi fa ribrezzo e mi sembra clamorosamente falso: per affermare un concetto si deve negare o minacciare il suo precedente, sembra di stare nell’ottocento.
La stragrande maggioranza delle persone usa la rete come lettura tradizionale, come farebbe con le riviste di carta. Finchè vedrò romanzi nei supermercati non mi preoccuperei della sorte del romanzo, bello che si insemini l’arte con cose nuove, e che si crei dibattito e discussione, ma non sprechiamo energie su rivoluzioni banali e modaiole che non avverranno…
La vera rivoluzione oggi è prendere un libro di carta andare sotto un albero e leggerselo tutto in santa pace.
D.
@marotta: “Tra un po’ rifaremo il minuetto e il sonetto.”
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Giusto!
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E a proposito di morire di tunnel carpale: sulle pagine culturali di Corriere e Repubblica leggeremo gli interventi di Magris, Baricco, Arbasino e Asor Rosa, Citati e Scurati, sul “Metalinguaggio del tunnel carpale come topos fondante di una cultura del nondetto”, sulle pagine della politica il titolone sarà: “Nel tunnel carpale del conflitto di interessi” (B. non si è appena operato?), e sulle pagine della cronaca: “Tunnel carpale: un fenomeno in allarmante aumento. Il commento di Maria Rita Parsi”.
Diana, che caspita intendi dire? Almeno hai dato un’occhiata al libro di cui stiamo parlando? Non difendo certo alcune discussioni critiche, ma l’oggetto della discussione è un altro.
ho commentato due osservazioni di Daniele Marotta, qui sopra, sul post in questione. Mi sembrava che in molti casi e in molte altre discussioni, sempre qui, questo già avvenisse. Chiedo scusa.
Non avendo letto il libro, la mia impressione è che arrivi con un po’ di ritardo su riflessioni che in ambito accademico si fanno già da qualche anno, specie in ambito anglosassone. Non vorrei fosse il solito polpettone divulgativo che cavalca l’onda dei dibattiti, peraltro un po’ inutili, sulla forma romanzo, quando le barriere del romanzo sono già da un pezzo sfondate nella prassi, senza che dettami e manifesti arrivino dalla critica. Comunque, sempre meglio leggere qualsiasi cosa prima di giudicarla da ciò che dicono gli altri.
se moltissimi leggono e scrivono sms dall’iphone,quanti avranno voglia di leggere 300 pagine?io trovo molto più “senso” del tempo in 24 o mad men che in tanti,tanti romanzi.che inizio,poi rallento,tra le cui pagine saltello sperando che non siano noiosi,e che poi accantono.non sarà ipad a cambiare il tutto,se non a stracci di poesia.anzi,credo che la poesia potrà,meglio del romanzo,dilatarsi a modo di sintesi di prosa e politica.
poi la domanda è anche,come trovare un modello sostenibile di un media alternativo.anche se breve anche se nessun altro media sarà soppiantato.quindi si scriverà solo per andare in tv,che rende.baratto..
Solo un’osservazione trasversale all’articolo. Questo tipo di discorsi sulla narrativa, i romanzi, la letteratura o la saggisitca più che altro servono a mio parere ad alimentare la tensione alla lettura del lettore forte (gli altri difficilmente capiranno o se ne interesseranno), che forse trova altre motivazioni per leggere, ma ben vengano anche queste analisi se servono a stimolare ma con l’avvertenza di non prenderle troppo sul serio. “La stessa struttura autoriale classica è messa in discussione”, si dice. Veramente non mi ero accorto che esistesse! Cmq tutti i libri sono un intreccio di citazioni di cui lo scrittore ne è più o meno consapevole. Considero la scelta di segnalare le fonti facoltativo. Chi legge Clarel di Melville e macina letture riconosce una tonnellata di autori letti da Melville. Chi non le riconosce si può godere il libro lo stesso.
Mi sembra che già Milan Kundera abbia delineato bene il romanzo moderno. Concordo con George Steiner che i romanzieri contemporanei dovrebbero – perchè lo fanno molto poco, conoscono poco le scienza – saccheggiare il mondo delle scienze per nuovi soggetti narrativi senza per questo fare fantascienza (perchè è ovvio che uno scrittore di fantascienza legga di scienza). C’è poco interesse dei romanzieri contemporanei a comprendere le mutazioni antropologiche derivate dalla pervasività del mondo scientifico.