FRAMMENTI DI SALONE: IL NOSTRO SCONTENTO

Martedì mattina Nicola Lagioia ha presentato il programma del Salone del Libro: so che non dovrebbe dirlo chi, come me, ha dato il suo contributo per pensarlo, ma è forse il programma più ampio e, sì, ambizioso di questi avventurosi tre anni. Lo trovate qui.
Vorrei, allora, cominciare a raccontare alcuni dei filoni di cui mi occupo, perché so bene che nelle sintesi giornalistiche sfuggono, magari, le intenzioni che ci sono dietro, e che non sono, in nessuna parte del Salone, quelle della passerella di ospiti.
Il nostro scontento nasce, anche, grazie al blog, grazie alle discussioni che si sono svolte qui e sui social, e soprattutto da un’inquietudine che da diversi mesi mi porto addosso e ho condiviso con i compadres del Salone. Provo a spiegarmi: corriamo un rischio, noi tutti che in vari modi proviamo a opporci a una realtà politica che sgomenta, ed è quello di impaludarci nella contrapposizione scrittori buoni versus populisti (leggi: politici populisti) cattivi. Che per carità, ci sta, ma non basta.
Quando i politici di cui sopra seminano il veleno del “prima degli italiani” si fondano su una sofferenza reale che per anni non è stata vista, e forse non viene vista ancora. Quando CasaPound urla nelle periferie che bisogna dare le case ai terremotati e non “agli zingheri” mente, certo, e in quella menzogna nasconde una parte di verità: le case ai terremotati non sono state date, anche se non è certo sottraendole ai rom che le otterranno. Quando certi viceministri urlano a loro volta, sia pure via Twitter, che povertà e disoccupazione sono la loro priorità, mentono, perché è con sempre maggiore evidenza che si constata che le priorità sono quelle elettorali e punto, ma dicono la verità quando affermano che ci sono dolori, rabbie, solitudini che non sono state, ancora una volta, viste.
Un esempio di queste ore: c’è un gran ghignare, su Facebook, a proposito dei commenti lasciati sulla pagina di Inps per la famiglia dagli utenti che richiedono il reddito di cittadinanza e che, sì, sono sgrammaticati e che, no, non declinano bene i congiuntivi. E basta con questi dannati congiuntivi, però, e basta con la narrazione che gli ignorantoni che mal scrivono e mal parlano poi per forza mal votano. Ci sarà un modo di capire cosa muove queste persone? Ci sarà un modo, maledizione, di sottrarre la narrazione dei penultimi alle destre?
Ora, non si pretende affatto di risolvere tutto con la letteratura: la letteratura fa come la famosa locomotiva di Scerbanenco, prova a rallentarla mettendocisi davanti, sapendo che non la fermerà, ma intanto salire su quei binari è un inizio, intanto osservare e raccontare è un inizio. Non ripara, perché sarà lungo e doloroso il processo di riparazione degli strappi per cui, vorrei ricordare, abbiamo tutti una responsabilità, il giusto e l’ingiusto per così dire, ammesso che qualcuno sappia davvero dove sta la linea che separa le due parti.
Questo è un primo tentativo: abbiamo chiesto a cinque scrittori, Silvia Ballestra, Mauro Covacich, Antonella Lattanzi, Matteo Nucci, Evelina Santangelo, di raccontare una storia. La storia di qualcun altro, di un penultimo, di italiani che soffrono, sono soli, incazzati, abbandonati. Le ascolterete, grazie a quella meravigliosa trasmissione che è Tre Soldi, la settimana che precede il Salone su Radio3. Poi le ascolterete dal vivo al Salone stesso. Poi, chissà, ci saranno altre storie per rallentare la locomotiva.
Non è, appunto, che un inizio. Piccolo, come sempre. Ma non si può che procedere per tentativi.

Un pensiero su “FRAMMENTI DI SALONE: IL NOSTRO SCONTENTO

  1. Cara Loredana,
    se non fosse adulazione,vorrei fare anch’io gli auguri per il compleanno al direttore del salone del Libro.
    Poi passo a tentare di spiegare il mio pensiero, su quello che sento come una divaricazione non facilmente sanabile, tra intellettuali e persone qualunque.
    Mi ritengo fare parte dei terzultimi e per condizione anagrafica riconosco come necessario, anzi fondamentale il ruolo degli intellettuali.
    Credo che anche in questi tempi in cui la superiorità culturale è avvertita come insopportabile ostentazione di privilegio, si possa invece riconoscere chi mette le proprie risorse intellettuali al servizio della comprensione della realtà e chi al contrario utilizza la conoscenza come strumento di emancipazione soltanto personale e direi sopratutto come miglioramento del proprio status (economico, di classe ecc.).
    Ieri, per dire, ascoltavo la presentazione del tuo libro e avvertivo, ovviamente una distanza tra coloro che facevano parte di un circuito culturale ed il resto degli spettatori che come me, ne sono affascinati ma non ne fanno parte.
    Credo che si debba avere una consapevolezza del privilegio di far parte di una élite culturale, pure se oggi potrebbe significare precarietà, duri anni di lavori non pagati, sottopagati, ecc.
    E che, per qualcuno che raggiunge una visibilità ce ne sono chissà quanti altri, che non emergono o lavorano lontani da qualunque riconoscimento.
    So che tu non hai proprio neanche, come si dice oggi, il codice postale di casa, dei quartieri benestanti, ma ugualmente chi opera nella cultura con intento anche politico si deve interrogare su una posizione privilegiata, quando ce l’ha.
    Ieri hai ricordato il tuo amore incondizionato per Steven King e di come la sua scrittura eccelsa ci mostri e ci spieghi l’America bianca, arrabbiata, frustrata, con un desiderio di rivalsa anche violenta verso coloro che non hanno saputo ascoltarla.
    Qualcosa di simile, dicevi oggi nel post, a quello che succede qui da noi, adesso in Italia.
    Mi interrogo su queste derive di incattivimento della società, su come non la solidarietà ma l’individualizzazione sia il modello a cui ci rifacciamo, con il risultato scontato di diventare inifluenti per operare qualunque miglioramento della nostra condizione di sfruttati e se questo non bastasse, anche molto infelici.
    Ho solo inquietudini come vedi, e nessuna ricetta purtroppo. Una cosa però mi è venuta in mente a proposito del lavoro che sarà sicuramente molto bello (a partire dal titolo) sul nostro scontento: ossia che dobbiamo far parlare molto e senza troppa mediazione, le persone che si considerano penultime, ma non come sfogo, che quello l’abbiamo sentito(anzi ce l’hanno fatto sentire Casapound e Forza Nuova), ma laddove qualcuno si rendesse disponibile, come contraddittorio.
    Cari saluti. Patrizia
    P.S. mi hai fatto pensare a proposito del tuo libro e della letteratura in generale, che si può fare un saggio di sociologia scrivendo racconti e per di più che pescano nel “fantastico”.

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