L’ultima cosa che si può dire tornando dal Salone del Libro di Torino è che manchi una comunità letteraria. Non vedi? C’eravamo proprio tutti, chi a presentare il proprio libro, chi a presentare il libro altrui (alcuni bellissimi, invero, come Triste Tigre di Neige Sinno, che ha vinto il Premio Strega Europeo). Eravamo insieme nelle code interminabili per i bagni, insieme nelle code per il caffè, insieme a fumare una sigaretta agli ingressi dei padiglioni. Ci siamo salutati e abbracciati, con la promessa di vederci e sentirci presto. Abbiamo sospirato sul mondo che ci circonda, riso per una battuta divertente, ci siamo immalinconiti per gli anni che passano. Abbiamo bevuto. Siamo andati a cena. Siamo andati alle feste. Abbiamo condiviso un taxi.
Abbiamo contato i poliziotti presenti (alcuni). Abbiamo ascoltato (pochi) con sconcerto Faccetta nera dagli altoparlanti dello stand Città di Torino (hackerato, è intervenuta la Digos).
Ah, due di noi, Zerocalcare e Christian Raimo, sono usciti per parlare con le ragazze e i ragazzi che manifestavano in favore della Palestina.
E’ che il Salone che è stato bello e grande e partecipato, come altre grandi occasioni d’incontro, ti porta a interrogarti su quella che un tempo si chiamava comunità letteraria. Che secondo me esiste, e non è solo quella che ci si immagina leggendo le cronache, con le mani occupate da calici di vino e stuzzichini al formaggio. Ma che forse non trova ancora il modo di riconoscersi fino in fondo, e di incidere fino in fondo.
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Sette Saloni dopo, domani torno al Salone del libro di Torino. Ci torno con uno stato d’animo strano: perché è il primo Salone da ospite e l’ultimo da conduttrice di Fahrenheit, ma ci torno comunque con la gioia che mi ha accompagnato in questi sette anni e con cui ho attraversato un’esperienza non dimenticabile.
Oggi c’è un nuovo gruppo di lavoro, di cui fanno ancora parte vecchi compagni di strada, a cui vanno gli auguri miei e, spero, di tutti. Sul Corriere della Sera Paolo Di Stefano ricorda stamattina una frase di Ernesto Ferrero: “Questa voglia di essere presenti ai grandi eventi culturali rivela una passione politica non soddisfatta da nessuno. È come un’offerta di disponibilità, un’esigenza di impegno che non trova ascolto altrove”.
Non so se sia ancora così. Sicuramente c’è voglia di stare insieme al di là dell’occasione, al di là del “vado e saluto tutti” e del “vado a presentare il mio libro”. Di questo occorre tener conto. Per il resto, ci vediamo a Torino.
In un febbraio di sessant’anni fa Cristina Campo scrive ad Alejandra Pizarnik una delle non poche lettere che le due poetesse si sono scambiate nel tempo. In particolare scrive una frase bellissima: “Lei possiede il grande coraggio, la grande pietà, “il sacro dono del ridere” ed è proprio la donna che vuole la rosa in inverno”.
Le rose d’inverno e il desiderio di vederle schiudere costituiscono l’immagine perfetta dello stato d’animo di questi giorni, che sono stati pienissimi e importanti: una manifestazione, I giorni della merla a Macerata, con Lucia Tancredi, la rappresentazione di Omissis alla Scuola Holden a Torino, con i miei compagni di via Fabiana Carobolante, Alfredo Morana e Alessandro Petrocco, e la rituale riunione preparatoria del Salone del Libro 2023.
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