GIULIO GIORELLO E IL SET DI FUORI ORARIO

Nel 1996 Enrico Ghezzi raccolse 98 “preludi” nel libro Cose (mai) dette: quelli che precedevano le notti e le visioni di “Fuori orario”, annunciando con citazioni e rimandi di rocambolesca noncuranza le sovrapposizioni tra cinema e tv e fra cinema e cinema.  Ciprì e Maresco e il Jean Vigo dell’Atalante (il film da cui è tratta la sequenza del tuffo immortalata nella sigla), eveline e Ed Wood, Burroughs e King Kong. Volendo prendere per buona l’ etichetta di situazionista della Tv che Ghezzi condivideva con Carlo Freccero e Antonio Ricci, “Fuori orario” era in effetti attinente con le teorie di Debord e compagni: perché, a detta del suo autore, “rischia l’ uso improprio delle immagini, le fa reagire e interagire”.  Insomma,  la sofisticata sintesi di una triade hegeliana nata nella vecchia Raitre di Guglielmi, secondo la quale “Schegge” era l’ archivio permanente che costringe l’ archeologia a farsi presente televisivo, “Blob” l’ archeologia dell’ immediato, e “Fuori orario” il luogo dove tutto si mescola, dove il cinema diventa Tv e viceversa. In termini personali, era anche la realizzazione di quanto Ghezzi delineò nella sua tesi di laurea (in filosofia), che si chiamava “Cinema moralia” e intendeva conciliare l’ amore per Adorno e Benjamin e la passione per il cinema.
La storia e le intenzioni di “Fuori orario” nascono da quell’intreccio, dapprima solo teorico, fra cinema e televisione, fra il tempo della registrazione e il tempo della diretta. “Perché ‘ Fuori orario’, raccontava Ghezzi, partì in diretta, nel 1988: tre ore nella notte del sabato, con un enorme set contaminato da repertorio cinematografico e video raffinatissimo. Set dove andava e veniva una quantità di gente, impegnata in svariate attività: Giulio Giorello, lo psicanalista Elvio Facchinelli, Gianni Emilio Simonetti che cucinava dolci all’oro. Ma il tutto costava molto e rendeva poco in termini di pubblico. Poi, una bella sera, la regia inquadrò le nudità di Cicciolina e Biagio Agnes impose la registrazione. Dopo un lungo vuoto, il secondo “Fuori orario” prese il via il 2 novembre 1989. Lanciando e sostenendo l’ importanza del (mai) visto. Quella parentesi, Ghezzi la spiegava così: “Significa vedere con inversioni continue. Perché da una parte abbiamo effettivamente trasmesso inediti e film mai usciti nelle sale. Dall’altra abbiamo avuto l’ ambizione di rendere mai visto anche lo stravisto: abbiamo, cioè, repertorizzato la diretta televisiva. Per esempio:  per il decennale della bomba alla stazione di Bologna, mandammo due ore di puri e semplici materiali Rai grezzi, non montati, e che pure restituivano il senso delle attese, l’ odore della polvere. Anche un brutto servizio della Tv anni Settanta acquista in questo contesto un’ intensità affine al cinema underground. Investire con occhio filmico la televisione e reimmettere nel flusso della diretta il cinema: questo è stato il nostro oltraggio”. In poche parole, “Fuori orario” ha portato avanti  il discorso opposto a quello dominante, che vuole il cinema ucciso dalla Tv: “Chi fa questa accusa pensa che il cinema sia già morto. La televisione lo costringe a reagire: rimpiccolendolo, facendogli soffrire censure, spot, imponendo a Sentieri selvaggi le scritte che chiedono una trasfusione. Ma questo è il suo martirio e il suo trionfo, in senso cristiano”.
Parlai con Ghezzi, quell’anno, e pubblico qui sopra un frammento di quella conversazione perché mi piaceva l’idea di ricordare Giulio Giorello così, mentre si muoveva in un impossibile set televisivo insieme ad altri visionari. Di visionari ne abbiamo persi parecchio, in questi mesi. Non si tratta, mai, solo di numeri, e non solo, neppure, di affetti. Si tratta di un’idea di mondo che scivola via, mentre passiamo ad altro, come sempre.

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