GLI ANNI DEL KETTLING

Lo so, diventa sempre più complesso muoversi nel presente: troppe le verità e troppo brevi, subito sostituite da altre. Troppi i fatti. Troppe le apparenti chiamate in causa, troppe le sollecitazioni a esprimersi, a indignarsi (non a ribellarsi,  che è azione, e dunque richiede maggior forza, richiede un movimento, mentre l’indignazione, oggi come oggi, presuppone l’immobilità).
Su cosa parli, oggi, su cosa scrivi? L’ingenuità di una ragazzina che diventa  Miss Italia, il gender, il vestito di Simona Ventura, il jobs act (e su quello sì, su quello occorrerebbe ribellione, ma non c’è, perché i tempi sono cambiati, vuoi mica pretendere quel che già avevi per i tuoi figli, sciocca?). E se ti esprimi, non vorrai mica farlo senza distinguo? Non vorrai mica farti confondere con tutti quelli che twittano e postano? Non tu?
E’ difficile, in parte lo è davvero. Chi scrive letteratura fantastica, per dire, lo sa benissimo: se vuoi perdere credibilità nel delineare le caratteristiche di un villain, di un Cattivo, lo devi proporre come totalmente malvagio, anche se il Bene e il Male non sono granitici. Devi dunque operare i distinguo, temere il paradigma della vittima, perché, come scriveva il sempre lodato (e non scherzo, perché Critica della vittima è un libro indispensabile) Daniele Giglioli,
“niente è piú nichilistico di un’etica capace di fondarsi solo sul male ricevuto, reale o possibile: edificata sul ricatto del nulla cui sempre si rischia di essere ridotti, la mitologia vittimaria è una religione della morte”.
Ha ragione, ma scriveva anche:
“Prima mossa dovrebbe essere cominciare o ricominciare a sentirsi parti in causa, non rappresentanti di una universalità spettrale quale è quella promessa dall’etica vittimaria. La condizione di vittima pretende a una risposta unanime; ma una risposta unanime è soltanto una risposta falsa, che non permette di vedere quali sono le vere linee di frattura, ingiustizia e ineguaglianza da cui è segmentato il terreno dei rapporti di forza. Politica e conflitto sono sinonimi. Politica, ha spiegato Jacques Rancière, è quando di idee su come ripartirsi il mondo ce ne sono almeno due. Che ce ne sia una sola, invece, è “polizia”, nel senso settecentesco di policy, police, ordinaria amministrazione, funzionamento ben lubrificato dello status quo. Che la vittima sia diventata quel lubrificante è insieme un’evidenza e uno sfacciato paradosso, quando a rigore dovrebbe costituirne l’inciampo, lo scandalo, il punto d’arresto. La mitologia vittimaria è una subalternità che perpetua il dominio. Troppo promettere nonché idea ingenua del potere sarebbe credere che spariranno insieme. Ma questo è l’ordine del giorno, e a ogni giorno basta la sua pena”.
E dunque occorre analizzare la mitologia, e provare non a farne a meno, ma a ribaltarla con un’altra. Ma come si fa a farlo nel momento in cui gli strumenti vengono meno? Può farlo un paese (non la sola Italia, invero) dove l’istruzione viene scoraggiata, la cultura deprezzata, il miraggio della visibilità e dell’essere brevi, arguti, piacevoli e dunque fievolmente celebri, attecchisce e viene rilanciato dagli stessi intellettuali, che al gusto della battuta breve, arguta, piacevole e dunque in grado di renderli fievolmente celebri, si affidano ogni giorno di più?
Non avevo bisogno di questa premessa per esprimere solidarietà, per l’ennesima volta, a Erri De Luca: e non faccio distinguo alcuno sulle sue parole, perché di parole si tratta (una, “sabotaggio”: che è cosa molto diversa dal dare dell’orango a qualcuno o dall’invitare a sodomizzarlo/a con una Barbie: sia chiaro per quelli che alzano il ditino). Il punto non è la solidarietà a De Luca, che dovrebbe essere faccenda normale, e dovrebbe esserlo specie fra i suoi colleghi, come sottolineava ieri Roberto Saviano. Il punto sono i distinguo, i se, i ma. Che sono certamente necessari a capire la mitologia in cui ci muoviamo: ma in questo caso specifico dovrebbero essere utilizzati per scardinarla, non per negarsi.
Il tempo speso a effettuare distinguo inutili, questo voglio dire, dovrebbe essere impiegato ad analizzare quel sistema complesso in cui siamo chiamati a muoverci. Non a negare l’esserci, il fare, il capire. Che è esattamente quello che sta avvenendo.
Da Wikipedia: Il kettling, conosciuto anche come tecnica di contenimento o corralling, è una tattica utilizzata dalla polizia per contenere la folla di protestanti durante una manifestazione.

Spesso i poliziotti pressano i manifestanti spingendoli verso un’area predisposta e ben delimitata, talvolta lasciandogli una sola via d’uscita, decisa dalla polizia stessa, talvolta accerchiando la folla per spegnere gli animi ribelli, lasciandoli senza cibo, acqua e servizi igienici

5 pensieri su “GLI ANNI DEL KETTLING

  1. Una volta veniva chiamato semplicemente “condizionamento”, mi pare. Marcuse e Foucault ne scrissero molto, sempre se non erro…

  2. > l punto sono i distinguo, i se, i ma. Che sono certamente necessari a capire la mitologia in cui ci muoviamo: ma in questo caso specifico dovrebbero essere utilizzati per scardinarla, non per negarsi.
    Non sono mica tanto d’accordo. I se sono sempre salutari e enunciare un obbligo di schierarsi cos’è se non una forma di kettling, applicata a quelli che per legittimi motivi non intendono schierarsi?

  3. Caro picobeta, con una battuta mi verrebbe da risponderti che sugli ignavi scrisse parole definitive un certo Dante Alighieri… 🙂

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