NEL FINALE DI AMLETO MUOIONO TUTTI

Diciamo subito che io non faccio testo. Sono una lettrice così curiosa che più di una volta mi è capitato di sbirciare le ultime pagine di un libro per scoprire il finale: non faccio testo, dunque, perché  quello che mi interessa in una storia non è come finisce, ma il modo che chi scrive adotta per arrivare fin là. Volendo, la vecchia storia del viaggio che vale più della meta.
Lo spoiler, invece, è ormai il grande timore non solo degli appassionati di serie televisive o dei cultori di cinema, ma anche dei lettori. Scrive Jacob Brogan per Slate (qui l’articolo tradotto in italiano per Il Post) che prima del ventesimo secolo la parola “spoiler” aveva il significato di “devastatore”. In effetti qualcosa di simile è rimasto nel suo significato attuale. Provate incautamente a dire qualcosa (non tutto, qualcosa: un cenno appena) su una puntata di Game of Thrones che altri non hanno ancora visto e rischierete, se non la vita, la solidità delle vostre amicizie. Questo, nonostante George RR Martin in persona si sia dichiarato perplesso sulla faccenda:
“Sì, c’è un piacere quando leggi un libro, o guardi uno show in tv – Cosa accadrà ora? Chi vincerà? Chi perderà? Ma in nessun modo è l’unica ragione per guardare un film o una serie. Non è l’unica ragione per leggere un libro”.
Ora, ci sono storie che prevedono la suspence e il colpo di scena. Rivelare la soluzione di un giallo, il disvelamento di un enigma, il capovolgimento di una situazione può indubbiamente venir vissuto come una ferita, o comunque come un dispetto. Anche se personalmente non ne sono turbata, non racconterei il finale del Barile di Ammontilado di Poe, nè quello di The Stand di Stephen King (a proposito, auguri!, e a proposito, ecco cosa pensa King degli spoiler: “You might as well say ‘I’m never gonna watch Wizard of Oz again because I know how it comes out'”).
Ma stiamo parlando di casi dove la suspence va mantenuta, e dove il piacere del lettore si basa sulla sorpresa (anche, e non sempre, e non per tutti).
Altra faccenda è la nevrosi da spoiler che riguarda tutta la produzione letteraria: perché, almeno e ancora una volta e per tutti i secoli a venire a mio parere, nella maggior parte dei casi conoscere la trama, finale incluso, non pregiudica il piacere del lettore.
Andiamo sul facile: Jacopo Ortis si suicida, i Promessi sposi si sposano, Orlando non impalma Angelica, i Buddenbrook si disgregano, Pinocchio diventa un bambino vero,  in Domani nella battaglia pensa a me una donna muore nel corso di un incontro galante. Cosa cambia, adesso, o lettori?
Ho già raccontato ieri su Facebook della tirata d’orecchie ricevuta a Pordenonelegge da alcuni (e rimbalzata su twitter con una certa acidità) perché, nell’incontro con David Leavitt, ho parlato del finale del suo I due Hotel Francfort. L’ho fatto – e non me ne pento minimamente – perché ritenevo che fosse indispensabile per capire, insieme a lui, il personaggio principale del romanzo, e perché ritenevo e ritengo che la bellezza del romanzo stesso non fosse certo nella sorpresa, che peraltro tale non era, visto che la maggior parte delle interviste americane affrontava serenamente quel punto. Nè, del resto, conoscere la trama ha impedito a svariate centinaia di persone presenti di acquistare il libro (che stramerita, sottolineo).
L’episodio mi fa pensare, però. Perché molte volte, quando intervisto una scrittrice o uno scrittore, qualcuno mi supplica di non raccontare il libro. Ma allora, mi chiedo, perché fare interviste? Perché ascoltarle? Perché andare alle presentazioni? Di cosa si dovrebbe parlare, con un autore, se non di quel che ha scritto? Della sua vita privata? Di un concetto astratto di letteratura?
E mi chiedo anche quanto l’abitudine alla suspence abbia capovolto una consuetudine secolare di lettori che sapevano perfettamente come si svolgeva la storia che si accingevano ad affrontare.  Anzi, secondo alcuni studiosi, conoscere il finale può addirittura aumentare la tensione: se so che Edipo sta commettendo incesto o che Amleto morirà, voglio sapere il COME. Voglio godere la soluzione scelta per un esito noto, perché è qui che mi meraviglierò.
Esiste un diritto del lettore a non sapere? Benissimo, ma invece di rivendicare sempre e comunque questi benedetti diritti, il lettore dovrebbe chiedersi perché, soprattutto negli ultimi anni, viene indotto a considerare ogni testo narrativo e letterario come un serial a puntate. Poi, può tranquillamente decidere di non ascoltare interviste e non frequentare presentazioni pubbliche per mantenere intatta la sorpresa. Non può, però, ingabbiare l’approfondimento letterario tra le stesse sbarre in cui è costretta la critica televisiva e cinematografica: non per tutti i libri, almeno. Perché Nathan Zuckerberg e Jon Snow sono diversi, anche se li amo entrambi.

14 pensieri su “NEL FINALE DI AMLETO MUOIONO TUTTI

  1. Mah, se non ci fosse il diritto a non sapere come va a finire, Shahrazād (così si raccomanda di scrivere wikipedia) sarebbe durata una notte sola, mica mille.

  2. Il punto, secondo me, è che non si può discutere seriamente di un’opera narrativa (romanzo, film, serie etc) senza parlare anche del finale. L’ossessione dello spoiler è espressione del desiderio di non discutere seriamente e far sì che l’opera sia pure espressione di spirito tribale e superiorità personale, insomma di distinzione – ‘Io ti sono superiore perché guardo Breaking Bad’, ‘Noi valiamo di più perché abbiamo letto tutti gli Harry Potter’. L’odio dei consumatori verso i critici competenti deriva ben da quello.

  3. Completamente d’accordo con Stefano, si è sviluppato un approccio “completista” ai media: visto, visto, mi manca l’ultima stagione, ho visto l’edizione originale. Non so se è un effetto derivato dai videogiochi o dal successo delle serie tv (chi ha influenzato chi) ma ha trasformato le aree di discussione in gare a chi c’è l’ha più lungo dove persino i lavori basati su fatti storici vengono segnalati per spoiler. Poco conta che tutto venga poi discusso solo in termini di “capolavoro” e “orrendo”

  4. Non sono per niente d’accordo. Non mi sembra un approccio nuovo da parte dei lettori, per me ad esempio lo sviluppo della trama è tanto importante quanto lo stile e me li vorrei godere come scelgo io.
    Esiste il diritto a non voler sapere il finale di un libro (che c’entra col non voler affrontare una discussione seria? Prima lo leggo, poi ne parliamo) e il diritto a fare una critica o un’intervista seria e completa. Basta dire “se non volete sapere il finale non leggete oltre, o uscite grazie”, non mi pare un dramma. Anche perché chi fa l’intervista questa scelta l’ha avuta.

  5. Neanche a me sembra drammatico dire “uscite”: mi sembra ridicolo. Un libro (ripeto, non un giallo o un mystery) si discute includendo il finale: non è un serial, è un romanzo. Nessuno viola la libertà di scelta del lettore: che allora intervenga alle presentazioni dopo aver letto il libro non mi sembra un’idea peregrina.

  6. Beh, una presentazione non è per forza una recensione per come la vedo io. Serve a tante cose, a portare l’autore a contatto col lettore, a invogliare a leggere il libro se non lo si conosce, e anche nei mistery e nei gialli a questo punto non importa il cosa ma il come. E poi c’è spoiler e spoiler se permetti. Se durante la presentazione mi vieni a dire che un personaggio fondamentale del romanzo a un certo punto o alla fine muore, poi non ti lamentare se il libro te lo tiro 🙂

  7. Spoiler: i nazisti perdono e Hitler si uccide.
    (fuori dallo scherzo: una volta consigliai a un tale, persona colta in campo scientifico ma sorprendentemente ignorante per quanto riguarda la storia, un film sulla battaglia di Gettysburg. Gliene parlavo e lui mi fermò perché veramente non aveva idea di chi vincesse. Sapeva genericamente che il Sud era stato sconfitto ma non come fosse andata quella specifica battaglia).

  8. Definiamo le regole, come fanno i blog che trattano delle serie TV. Gli articoli che ti dicono come va a finire, mettono in chiara evidenza all’inizio che l’articolo contiene spoiler, gli altri no. Ognuno sa cosa aspettarsi e sceglie a ragion veduta. Così a Mantova ci saranno cortili in cui echeggia il finale e cortili più discreti e un premuroso volontario dell’organizzazione all’ingresso informerà i convenuti sulla specializzazione del cortile.
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    Perché poi andiamo a vedere la Traviata anche se sappiamo come va a finire (anche quest’anno la baldracca muore, come dice Guzzanti-Tremonti) ma non sopportiamo che ci dicano in anticipo l’esito di una storia che non conosciamo?
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    Credo perché il piacere di sentirsi raccontare delle storie è fatto di diversi ingredienti. Il piacere di scoprire la trama un passo alla volta è un ingrediente irrinunciabile se non conosciamo la storia, ma una volta che la trama è nota, la narrazione, soprattutto quando a raccontare sono Verdi o Shakespeare, basta a soddisfarci. Ci sono casi poi in cui la narrazione serve a confermare quello che già si sa, come ad esempio il raccontare i miti e le storie fondanti, in cui non conta tanto come va a finire ma il fatto che il racconto rafforza i valori basati sul mito e condivisi dalla comunità. O ci sono casi ibridi, in cui l’attesa non deriva dalla trama della Traviata o dell’Amleto, ma da come gli interpreti in quelle unica e irripetibile serata in cui assistiamo allo spettacolo renderanno quella stranota trama.
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    A questo punto tirerei in ballo i neuroscieziati, quei tizi che ti mettono in testa dei caschi con degli elettrodi e altri strumenti per misurare quello che succede nella testa e che in questo modo vedono come i neuroni e le varia aree del cervello si attivano e interagiscono tra di loro nel mentre che sei impegnato nelle attività che i succitati tizi vogliono studiare. Credo che se
    – metti uno di quei caschi in testa a un gruppo di volontari
    – dai loro da leggere lo stesso romanzo breve
    – hai rivelato la trama e il finale solo ad alcuni dei volontari
    il neuroscienziato troverà significative differenze nelle attivtà cerebrali di quelli che sanno rispetto a quelli che non sanno.

  9. Del resto il problema, se vogliamo considerarlo tale, esisteva anche prima ma non era così sentito – istericamente sentito, direi – come oggi. Credo dipenda anche molto dall’attuale predominio delle serie tivù e del fatto che, rispetto al passato, non sono viste da tutti nello stesso momento, come era necessario nella tivù di un tempo. L’effetto comunque è lo stesso: è impossibile parlare seriamente di queste opere indubbiamente importanti.

  10. Non vorrei essere troppo salomonico (leggi: “cerchiobottista”!) ma credo che la questione sia ben più banale di quanto sembri dipendendo da libro a libro, da genere a genere: vi sono libri (e film, e pièces teatrali, e fiction, e serie televisive, ecc. ecc.) che in effetti giocano molto sull’effetto-sorpresa, dunque rilevarne il finale ne “rovina” l’approccio, altri che possono bellamente prescinderne. Il fattore-tempo e il fattore-popolarità (quindi il quanto una creazione artistica sia entrata jacobsonianamente nel patrimonio culturale condiviso) giocano un ruolo determinante: è evidente che rivelare il finale de “I promessi sposi” difficilmente ne disturberà la lettura (anche se potrebbe essere ipoteticamente devastante se si vuol creare un’aspettativa tra studenti che non ne conoscessero la storia, per esempio…), ma fare altrettanto di un’opera di King -specie se nuova- senz’altro sì. Rivelare i finali di una serie televisiva la cui struttura narrativa (la sceneggiatura) è costruita appositamente sulla suspence tra una puntata e l’altra, è deleterio (oltre che poco educato e rispettoso di chi vuol fruirne senza averla mai vista), rivelare i colpi di scena di un film sono il miglior -e più conosciuto modo- di indispettire chiunque voglia andarlo a vedere ex-novo. E’ chiaro che se quel film, quella serie tv, quel libro sono già dei “classici” e dunque la trama è conosciuta universalmente, subentrerà il piacere di scoprire in che modo si arriva al finale (pensiamo a quante versioni di Dracula o di Frankenstein si sono succedute al cinema: la stragrande maggioranza di esse ha incontrato sempre un notevole successo di pubblico, eppure tutti conosciamo la storia e il finale!).
    Altro discorso è EDUCARE al piacere della lettura, della visione o dell’ascolto di un’opera artistica PRESCINDENDO COMUNQUE da trama e suo epilogo: qui subentrano quelle competenze “tecniche” che fanno parte della sfera più razionale e che influenzano anche l’emotività: se io so apprezzare la costruzione di un romanzo e l’uso della lingua in cui è scritto/tradotto, è chiaro che sarò molto emozionato nel leggere COME l’autore/gli autori mi conducono verso il finale, prescindendo dallo stesso. Ma siamo già a un livello “di secondo grado”, direi.

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