GLI INTELLETTUALI AL TEMPO DEGLI ACCENDINI BIC

Su Diario di Repubblica, Guido Crainz scrive un lungo articolo sul tema sabotaggio, NoTav, intellettuali. Lo posto sotto. Per completezza, aggiungo il link alla poesia di Prévert citata in fondo. E, già che ci siamo, a un intervento di Albert Camus del 1946.
Forse, davanti alle polemiche di questi giorni sulle proteste contro la Tav, occorre superare il fastidio per il riemergere di retoriche e stilemi che credevamo sepolti con gli anni Settanta. Forse occorre ritornare ancora su discrimini fondanti: su ciò che divide la battaglia quotidiana per consolidare i diritti e la democrazia dalle derive che possono indebolirla o insidiarla. A un primo sguardo è certo facile tracciare il confine fra le forme illegali e violente di lotta e quelle pacifiche e lecite: anche quelle più “estreme”, come gli scioperi della fame portati quasi oltre il limite o quelle forme di dissenso in climi ostili che espongono a ritorsioni – esse sì – violente (come avvenne nelle lotte per i diritti civili nel sud degli Stati Uniti e in molti altri casi). Sarebbe salutare, anche, che fossero molto più diffuse le ricerche sulle potenzialità di forme non violente di lotta anche di fronte a dittature feroci: ha iniziato a farlo molti anni fa Jacques Sémelin per l’Europa occupata dalla Germania nazista (Senz’armi di fronte a Hitler), da noi lo ha fatto anche di recente Anna Bravo muovendosi fra Italia e Tibet, India e Kossovo (La conta dei salvati): e sottolineando la forza dissacratrice dell’ironia, la sua capacità di accendere la potenzialità realmente eversive della fantasia, non dei roghi.
Con altrettanta evidenza, inoltre, la parola sabotaggio evoca sconfitta, debolezza o addirittura impossibilità di esistere del movimento collettivo. Così fu nelle campagne italiane di fine Ottocento ai primi albori del nostro movimento sindacale (che spesso ha nelle campagne appunto la sua origine): erano segnale di debolezza o di impotenza gli incendi dei fienili o il danneggiamento notturno dei raccolti. E lo fu anche il loro isolato riemergere, sconfessato dalle organizzazioni sindacali, all’indomani delle sconfitte del secondo dopoguerra, nel clima della guerra fredda. Per molti versi inoltre il passaggio a forme violente è la negazione, non la prosecuzione della mobilitazione e della presa di coscienza. Agli inizi degli anni settanta, ad esempio, la autoriduzione collettiva del pagamento delle bollette di luce, gas o telefoni fu ampiamente organizzata da comitati di quartieri, organizzazioni sindacali, gruppi di base: alla fine del decennio la possibilità stessa di riprendere quelle forme di lotta fu stroncata dalla pratica leninista.
di autoriduzione violenta, spinta sino all’esproprio, praticata dai gruppi dell’ “autonomia operaia” (gli stessi che stritolarono le potenzialità dell’ala creativa del movimento del ’77). Altre osservazioni possono riguardare poi il rozzo pedagogismo giacobino dell’“atto esemplare”: vi è al fondo la sottovalutazione se non il dispregio della capacità di azione autonoma dei cittadini e – sotto altre spoglie – il vecchio mito della avanguardia.
A ciò si aggiunse negli anni settanta un altra tragica distorsione. Com’è del tutto ovvio il problema delle forme di lotta si pone in forme radicalmente diverse nelle democrazie o nei regimi totalitari (per non parlare, di nuovo, dell’Europa occupata della seconda guerra mondiale, quando la lotta armata fu integrata dalle forme più diverse di sabotaggio: un modo per estendere, non per restringere la partecipazione alla Resistenza). Il dramma degli anni di piombo iniziò proprio dalla negazione, tendenziale o drastica che fosse, di questa distinzione: in Germania come in Italia nell’ideologia e nella propaganda delle nascenti organizzazioni terroristiche fu centrale l’idea di vivere ormai in uno stato autoritario, se non totalitario, o avviato ad esserlo (intrecciata, naturalmente, al mito della rivoluzione). Da questa convinzione inizia il percorso che porta Giangiacomo Feltrinelli sino al traliccio di Segrate, e anche di questo parla un documento delle future Brigate rosse redatto all’indomani della strage di piazza Fontana.
A ciò si intrecciarono vie in qualche modo “intermedie”: all’inizio
del decennio, nel clima della strategia della tensione e in presenza di una gestione rigida (e talora irresponsabile) dell’ordine pubblico, divieti ingiustificati alle manifestazioni favorirono chi tendeva ad “innalzare il livello
dello scontro” trasformando i cortei in atti di guerra. Di qui una crescente “militarizzazione” dei servizi d’ordine di taluni gruppi extraparlamentari: e da qui verranno alla fine del decennio, nel declinare delle speranze di trasformazione, non pochi disperati e giovani flussi verso le organizzazioni terroristiche.
È sufficiente evocare quel clima per capire quanto ne siamo abissalmente lontani ma in questa nostra tragedia è iscritto anche l’antidoto più forte, solidamente basato su due cardini. In primo luogo la capacità di alimentare speranza, di contrapporre alle possibili derive la forza e la fiducia nel futuro delle pacifiche mobilitazioni collettive. E al tempo stesso il rispetto intransigente della democrazia, la fermezza nel denunciare ogni abuso anche minimo che possa incrinare la fiducia nello Stato democratico: quel che è successo nel 2001 al G8 di Genova nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto è stato molto più devastante di mille proclami eversivi. Per il resto, a leggere alcune dichiarazioni incendiarie dei giorni scorsi – talora non prive dei toni dannunziani de Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri (1978) – vengono solo in mente alcuni versi ironici di Jacques Prévert: «Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi…».

4 pensieri su “GLI INTELLETTUALI AL TEMPO DEGLI ACCENDINI BIC

  1. Erri De Luca, una bella eccezione.
    Facendo una breve rassegna festivaliera, mi rendo conto di quanto sia fondata quella opinione critica, sempre più corposa e sempre più diffusa, che si va scagliando contro la cultura da ‘Festival’.
    Ci sono quattro o più figuri che d’estate svolgono la professione di ‘ospite di Festival’.
    Filosofo, sociologi, psicoanalista.
    A distanza di pochi gionri volano di città in città, in lughi nei queli si fa il medesimo uso della parola: belle congiunzioni e esposizioni ruffiane per la platea adorante.
    Di solito è sempre la stessa. Nel senso che di anno in anno è il medesimo plotone di plaudenti che si ritrova allo stesso posto, occupa la medesima seggiola.
    Ci sono anche i pulman del festival. Non è un idiozia.
    A Pontremoli, in occasione del premio ‘Bancarella’, una parte della platea era composta da gruppi che in sequenza si facevano il Festival della filosofia, della Mente, della felicità, della saggezza, della serenità.
    Per ascoltare le stesse persone. Non è uno scherzo. I professionisti del Festival si fanno 3 o 4 ospitate , quasi sempre parlando negli stessi orari.
    Questa è la cultura di oggi.
    Al termine della serata, mi piglio fuori Camus, e leggendolo mi accorgo di quanto sia mutato il concetto sia di intellettuale che di cultura, virando al peggio, mercificata al pari degli sponsor di questi eventi.
    ‘Visto che non viviamo più tempi di rivoluzione, che siano almeno tempi di rivolta (..)
    L’intellettuale, questo spelacchiato, randagio, che la nostra società ora copre di disprezzo, ora minaccia con la pistola in mano, si risveglia in piena notte, ritrova la sua fedele angoscia e si chiede ‘ Che cosa farò in questa galera?.Egli vorrebbe combattere all’opposizione(….)perfino nel suo paese che lo fa soffrire, senza scrivere niente che possa incoraggiare lo spirito di cedimento. Come può farlo davanti ad una nazione lacerata tra mercanti che la possiedono e poliziotti che la desiderano, dove tutti parlano in nome di un popolo che tace o che grida sotto il peso della propria miseria.
    L’intellettuale parlerà con voce esitante, e lo farà invano. (..) gli toccherò sopportare di avere dei nemici.’ ( CAMUS. MI RIVOLTO, DUNQUE SIAMO)
    Guardo le facce di questi, i loro libri e i loro addetti stampa.
    Politicamante ‘impegnati’, intenti a tracannare spuntini e a stringere mani laide di politicanti.
    Per essere visibili, per piazzarsi, per dare un colore nuovo ogni sera al loro vuoto contenitore.

  2. la prima tentazione con questi sarebbe quella di comportarsi come quei contadini russi di cui parlò una volta Enzo Biagi,che quando si ritrovano la casa infestata di blatte spengono tutte le stufe e vanno a vivere tutto il tempo necessario nei boschi in maniera tale che quando decidono di rientrare la natura ha già aggiustato le cose e possono riprendere a convivere con i normali rovesci che qualsiasi esistenza incontra (senza che le istituzioni debbano per forza contribuire)
    http://www.youtube.com/watch?v=JaAWdljhD5o

  3. Se si leggono le cronache di chi c’era, sembra che la violenza sia naturale auto protezione e i sabotaggi non atti dimostrativi ma finalizzati a rallentare i lavori.
    Qualcuno non dice la verità. Davvero siamo in presenza di decisioni prese in seguito a un’informazione trasparente e consultazioni democratiche o tali “consultazioni” non hanno mai veramente previsto un significativo cambiamento di rotta? E’ importante realizzare l’opera o è più importante fermarla a qualsiasi costo? Come si fa a capire chi ha più probabilità di dire il vero? Secondo me un metodo di massima c’è: chi cita le fonti di quello che afferma, entra nei particolari e descrive osservazioni controllabili e ripetibili non ha necessariamente ragione ma, di solito, è almeno in buona fede; è, viceversa, generalmente interessato a dire cose tese a raggiungere i propri scopi, senza dare importanza alla veridicità di quanto dice, chi fa affermazioni generiche e non circostanziate o tenta di squalificare l’interlocutore. Peggio ancora è squalificare l’interlocutore con accuse generiche e non circostanziate come quella di essere “nimby” o di opporsi “ideologicamente” a qualsiasi opera.
    Purtroppo, essere in mala fede passa troppo spesso per “buon senso”.
    PS: tra i testi che ho letto oggi sui post recenti il peggior “cattivo maestro” mi è parso Cacciari: il conformismo e la banalità dei luoghi comuni sono veramente dannosi con la loro forza di convincimento che fa a meno di qualsiasi verifica.

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