I RICORDI DI FACEBOOK

Chi usa Facebook, sa che esiste una funzione che si chiama Ricordi, e che ti permette di vedere cosa hai postato in quel determinato giorno negli anni precedenti, o per lo meno da quando sei sul social. L’idea non è nuova, e ovviamente preesisteva nelle pratiche di almeno alcuni di noi: io, che ho l’abitudine di conservare le agende, fino a non molto tempo fa andavo a verificare cosa stavo facendo nello stesso giorno di uno o due anni prima. Quando ero adolescente, anzi, ero incappata in uno strano loop che mi portava a ripetere quello che avevo fatto: una gita, un gelato, un pomeriggio con le amiche in quel determinato quartiere, o negozio, o bar. E’ durato, per fortuna, poco.
Però, dando un’occhiata ai ricordi di questo 12 dicembre, mi sono resa conto che per due anni di seguito, inconsapevolmente, mi sono trovata impigliata in un due diverse polemiche su Facebook, peraltro molto violente, e probabilmente dimenticate dai diretti interessati (non da me, che ho una memoria da scorpiona, ma ovviamente non arrivo a ricordare la data esatta).
Dunque, mi sono detta stamattina, è bene che io resti lontana dai battibecchi, che non servono e guastano l’anima, che semmai ha motivi più seri per guastarsi del prendersi a capelli via tastiera. Poi mi sono detta anche che quello che mi ero appena detta era insensato, e faceva anche paura: da quando in qua le mie giornate, il mio umore, il mio relazionarmi con gli altri, dipendono da un algoritmo?
Da un bel po’ di anni, solo che non sempre è chiaro nella mia mente.
Ogni tanto ripenso a quel libro importantissimo, per me, che fu No Logo, dove, diciannove anni fa, quasi venti ormai Naomi Klein ci metteva in guardia dal nostro muoverci inconsapevoli nella terra dei brand. Oggi  non ci basta più desiderare di entrare – e alla fine entrare davvero, perché sottrarsi è difficile – nel meraviglioso universo di consumi promesso dallo swoosh di Nike e dalla mela di Apple. Diciannove anni fa il baffo e la mela erano segni di riconoscimento, marchi incisi nella mente e a volte sulla pelle dell’acquirente: segni che erano chiavi per il paradiso, funzionali non solo per vendere scarpe e computer ma per creare un’appartenenza che ci rendeva felici di comprare quelle scarpe e quei computer per diventare membri della stessa vastissima élite.
Siamo andati avanti, sì: oggi il prodotto da vendere siamo noi. Non più le nostre parole, la nostra musica, le nostre fotografie: e nemmeno, semplicemente, la nostra faccia e il nostro corpo. Nel momento in cui siamo su Internet, rilanciamo tweet, rispondiamo alla domanda retorica di Facebook “a cosa stai pensando?”, postiamo un commento su YouTube, persino mentre apriamo la gmail di Google siamo, insieme, promotori di noi stessi e veicolo pubblicitario. Meglio ci promuoviamo, più le aziende saranno interessate a contattarci per promuovere anche i loro prodotti: in cambio, quasi sempre, di un piatto di lenticchie.
Siamo davvero andati avanti. Il No logo è diventato Me logo, un incubo in cui milioni di persone si trasformano in brand di se stessi: si esibiscono in battute che non fanno ridere, e che proprio per questo attirano visite su YouTube (se lo fa lui posso farlo anche io), si mettono lo smalto, cucinano biscotti, cantano, ballano, mangiano, fanno sesso, dipingono, fotografano e scrivono. Purché tutto quel che fanno sia sempre più facile, purché venga incontro a chi guarda o chi legge. “Nella maggior parte dei casi – diceva in “Morti di fama” una influencer – chi ti segue e ti commenta vuole semplicemente diventare come te. Famoso, secondo la loro idea. E più ti adula più vuole sostituirsi a te. Per questo vuole che tu ti renda simile. Un giorno sono stata rimproverata perché usavo parole troppo auliche: è saltato fuori che la parola “difficile” era “chirurgico”. Quello che ti si chiede, insomma, è abbassare sempre il livello. Solo così non sei minaccioso. Solo così puoi dire, tra le righe, che sei dalla parte della fama per caso, e che i tuoi fan possono prendere il tuo posto quando vogliono”.
La famosa domanda sulla morte della letteratura trova probabilmente la sua risposta qui. Come facciamo a creare un immaginario comune se siamo noi stessi il nostro immaginario? Conosco molti scrittori che non leggono i colleghi, e lo dicono quasi con vanto, anche sui loro Facebook, naturalmente. E ogni volta resto sgomenta: perché pur leggendo molto, moltissimo, so di non leggere abbastanza, e so che mi sfugge, sicuramente, qualcosa di importante, ma altro non posso fare, perché la vita che ho, le giornate che ho, non me lo permettono (e non lo permettono a nessuno, se è per questo).
E allora? Allora niente, non c’è altra strada, credo, se non la consapevolezza, anche a costo di auto-indurla a forza, giorno dopo giorno. Anche quando, dopo il caffé, dai un’occhiata ai tuoi famosi ricordi, e auspicabilmente, come dovresti, li dimentichi.

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