I SASSI DEL FONDO

Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro e la lettura, su libri, decrescita, megaseller. Su Repubblica di oggi.
Come diceva l´immortale Catalano, meglio una donna bella, intelligente e ricca di una brutta, stupida e povera. Ovvero, trasferendosi nell´editoria, meglio pochi libri, belli e di gran successo di molti, brutti e invendibili. Per non parlare della sensazione di aver ecceduto, come con gli “atimpuri” di Meneghello («Quante volte?» «Nove» «Da solo o con altri?» «Con altri» «Con altri o con altre?» «Con altre»), e dei conseguenti buoni propositi (meno, meno, ne pubblicherò meno, quest´anno di sicuro ne pubblicherò meno…).
Non che in Italia (circa 60mila all´anno) se ne pubblichino più che altrove. Nei quattro paesi con cui ha senso confrontarsi – Francia, Germania, Regno Unito e Spagna – vige la regola del millesimo, secondo la quale ogni anno i nuovi titoli sono nell´ordine di grandezza di circa un millesimo della popolazione. Così nel 2007 si sono prodotti in Germania 96mila titoli, quasi 85mila in Gran Bretagna, oltre 55mila in Francia e oltre 35mila in Spagna. Troppi? Forse, ma scendere troppo sotto il millesimo, come è avvenuto in tempi non lontani nell´Europa orientale, è pericoloso, il terreno si inaridisce, le radici si disseccano, la cultura – che è fatta di tante cose, anche inutili, ma tante – perde vita. Peraltro quel che la nuda statistica ci dice è che il numero dei titoli prodotti è negli anni sostanzialmente stabile, sia in Italia sia fuori. Dunque non è lì la causa dei nostri più recenti mali, a livello di sistema perlomeno, perché certo a livello di singolo editore la riduzione dei titoli è sempre lodevole. A patto che non ci si illuda di pubblicare solo quelli buoni, sulle orme di quel tale che una volta mi disse «Voglio fare una collana di soli bestseller». «Auguri vivissimi», gli risposi, ma non l´ho poi più visto.
Se non troppe, di sicuro però le novità sono tante. Ma perché così tante? Una ragione sta nella natura del business: su circa mezzo milione di titoli in commercio in Italia, i primi cinquemila, cioè un centesimo, valgono da soli metà delle copie vendute e metà del fatturato a valore. Per un editore installarsi in questa felice riserva è una questione vitale. Non si tratta di pescare il pesce grosso, si tratta di sopravvivere. Ma siccome il business è di per sé largamente imprevedibile, l´unica via per massimizzare le possibilità di successo e minimizzare, nel senso di distribuire, il rischio appare – dico appare – quella di reiterare i tentativi. È la strategia denominata “provando e riprovando”, il cui continuato abuso finisce per portare a quella notte in cui tutte le vacche sono nere e tutte le copertine fosforescenti entro la quale, a detta di molti, ci troviamo.
C´è poi una seconda ragione, legata al fatto che produrre un libro costa poco, qualche migliaio o poche decine di migliaia di euro. Comunque meno di una indagine di mercato sul suo possibile esito. In pratica costa meno pubblicarlo che testarlo. E quindi la pubblicazione è insieme indagine di mercato: la produzione ingloba la ricerca e sviluppo. Molti libri, le novità di esordienti, sembrano libri, ma sono ipotesi di libri, tentativi di libri. Dopo, quando si è vista la reazione del pubblico, quando si conoscono le dimensioni dell´autore, quando si passa (se si passa) all´edizione in paperback, tutto è più facile, più razionale, arriva persino ad avere parvenze industriali. Ma certo tutto il bello è prima, il precario e un po´ sgangherato fascino del maledetto mestiere è tutto nell´attesa dei primi dati, della conferma di quell´intuizione (ma era poi davvero un´intuizione?), nei radi trionfi e nelle frequenti disillusioni.
Insomma, è difficile attribuire a una (supposta) sovrapproduzione i guai presenti. Che dipendono in prevalenza da un sistema distributivo nel mezzo di numerosi guadi, con la libreria tradizionale che fatica a trovare una fisionomia adeguata ai tempi, con la grande distribuzione indecisa se trattare i libri come un prodotto civetta o come un serio comparto di attività, con le vendite on line che guadagnano ogni giorno terreno e con, all´orizzonte, il minaccioso rullar di tamburi d´oltre Atlantico dove le novità più commerciali, i cosiddetti bestseller, vendono più nel formato e-book che in quello cartaceo. Tutto ciò è stato per diversi anni velato da una prodigiosa fioritura di megaseller che ha imparzialmente beneficato grandi e piccoli editori (si pensi al “riccio” di e/o, al Larsson di Marsilio, al Twilight di Fazi), librerie e catene, grande distribuzioni e e-commerce.
Ma ora che per imperscrutabile volere del Fato di megaseller non ce n´è, il livello dell´acqua si abbassa ed emergono, dolorosi, tutti i sassi del fondo. Per non dire che, con questi chiari di luna, un bel numero di assidui e laboriosi lettori i trenta euro mensili da dedicare all´acquisto di libri non ce li hanno più. Sarà anche vero che il libro è anticiclico e si avvantaggia delle crisi, ma fino a un certo punto.

25 pensieri su “I SASSI DEL FONDO

  1. A completare l’informazione, Gian Arturo Ferrari è stato per anni il direttore della divisione libri della Mondadori.
    Delle intenzioni originarie di Arnoldo Mondadori, Ferrari ne ha sposato in pieno alcune, dimenticando il contesto sociale e culturale che ha visto la nascita dell’ “impresa Mondadori”.
    Cosa vuole dirci Ferrari con questo intervento? Non l’ho mica tanto capito.
    Dalla conclusione sembrerebbe dire: ormai il mercato dell’editoria è organizzato così, anche in Europa si fa così, il problema è la crisi, le persone non hanno 30 euro al mese per comprare libri…
    Mi ricorda qualcuno…
    Insomma, che il mercato ormai sia organizzato così non è un dogma di fede: se non funziona, possiamo anche pensare di organizzarlo diversamente.
    Anche in Europa si fa così, con la proporzione del millesimo: sarebbe da fare una seria analisi dei libri che vanno a comporre quella proporzione, della loro tipologia, della suddivisione tra novità e tascabili, delle fasce di prezzo. Approfondire, ecco.
    Sui 30 euro mensili (la mia cifra è abbondantemente superiore) che mancano, siamo d’accordo. Le voci dei lettori sono chiari. Ma i lettori dicono anche che non è solo il prezzo in sé a disturbare, ma il fatto che il prezzo sia alto per la qualità “fisica”, “materiale” del libro, e che il prezzo sempre più di frequente non corrisponde al “valore intrinseco” del libro.
    Trovo interessante, nel pezzo di Ferrari, il riferimento al fatto che “un’indagine di mercato costa di più della realizzazione di un libro”. Credo che quelle considerazioni rendano chiare le considerazioni fatte da queste parti sulla preponderanza del settore marketing e commerciale in una casa editrice.
    Il completo rovesciamento della questione. L’abbandono delle armi. E torno a ripetere: dal mio punto di vista, quando chiedo a una casa editrice di fare cultura, non chiedo di pubblicare oscuri trattati sulla fenomenologia del triangolo isoscele scritti in sanscrito, o ardui romanzi sperimentali.
    Di lato, vorrei anche aggiungere che questo discorso sull’editoria riguarda non solo chi ha collane di narrativa o di varia (le ricette, la barca a vela), ma anche e soprattutto chi produce libri di saggistica, che ancora di più risente di tutti i problemi messi finora in campo.
    E poi, mi viene proprio da piangere quando parlando di libri si usano le parole “massimizzare” e “minimizzare”… 🙂

  2. La cicala o la formica?
    Mi chiedo, in tempi di crisi, il dinosauro editoriale come si comporta?
    I grandi editori italiani riescono ad economizzare le risorse pubblicando con più attenzione ed oculatezza, economizzando le risorse e le energie, come farebbe una persona fisica, oppure sono incapaci di rallentare la propria corsa e procedono alla cieca?
    Mi sembra una questione importante per capire se l’editoria italiana è in grado, di evolvere e adattarsi ai tempi, sia in senso culturale che commerciale, così come, nostro malgrado, facciamo tutti, oppure se è prigioniera di meccanismi autoreferenziali e strategie preconfezionate che porteranno irrimediabilmente ad allargare la forbice tra editoria e pubblico, con conseguente rovina di entrambi.
    Alla fine secondo me vale come per il salumiere: l’editore che si fidelizza i lettori, che garantisce collane mirate e ben curate per un certo pubblico, che lavora sulla fiducia e sulla relazione coi lettori, sarà il destinatario eletto di quei pochi euro mensili dedicati alla lettura.
    Ancora:
    A me a casa mi arriva il giornalino del supermercato e del ferramenta, perché non mi arriva pure quello di una libreria o una casa editrice?
    Voglio dire che le strategie di comunicazione e pubblicità dovrebbero andare letteralmente in braccio ai lettori, come accade con i tv piatti o le macchinette fotografiche digitali, perché questa è la logica di questi anni, il cliente è un ruminante che bruca quello che ha sotto il naso. La cultura e l’editoria potrebbero anche fare un passo in questa direzione per riuscire in qualche modo a contattare il grande pubblico di non lettori.
    Voglio un tascabile venduto coi biscotti o un 3X2 sul detersivo con libro a scelta. Se compri un camilleri ti regaliamo anche questo esordiente che ti piacerà senz’altro… ecc.
    Insomma, mi piacerebbe vedere un assalto frontale della letteratura ed editoria, alla quotidianità degli italiani.
    D.

  3. rigiro a Ferrari la domanda che già avevo posto qui a Cassini, possiamo continuare ad analizzare all’infinito la situazione del mercato editoriale italiano (ad esempio si è mai pensato di inserire la regola del millesimo anche in italia? esiste già e nessuno ne ha mai parlato? nei paesi dove esiste ci sono meno resi e meno sprechi?) ma la domanda rimane quella: cosa si può fare? cosa state facendo?a noi lettori (perlomeno a me) rimane la sensazione che vi siate seduti in riva al fiume ad aspettare i cadaveri per verificare poi chi è sopravvissuto e chi no. davvero una brutta sensazione.

  4. Sono molto affascinata da questi post editoriali.
    Qualcosa nell’articolo di oggi non mi persuade del tutto. Ma ho come la sensazione di non avere le competenze per stanare il problema. O forse vi avverto dei lampi di paraculismo, ecco.
    Cioè quella roba li del fascino della scommessa mi lascia perplessa. Ho come la sensazione che ci sia una specie di scontro tra due vuoti, il vuoto provocato da una logica che premia poco la qualità che premia poco il concetto di imprenditoria culturale (la quale come tutte le forme derivate dal capitalismo funzionale non quello che arranca, dovrebbe creare nuovi bisogni nonsbavare sui vecchi) e il vuoto provocato da un marketing editoriale fatto un po’ male. Si dice che è lo status quo, ma alla fine – certamente Mondadori meno di tutti – mette gli occhiali per guardare avanti.

  5. chiedo perdono se non commenterò tutto il testo: ho già trovato offensivo il paragone iniziale. E non ho neanche capito a cosa servisse… in che senso una donna bella e intelligente corrisponderebbe a pochi libri, per quanto di successo?

  6. magari riflettendoci meglio riuscirò a penetrare tra le pieghe dell’analisi di ferrari. ma, al momento, mi sembra come la puntuale diagnosi fatta da un luminare della medicina al quale, però, se il paziente domanda “vabbe’, allora per guarire che faccio?”, lui risponde “boh… si spari”.

  7. “insomma, è difficile attribuire a una (supposta) sovrapproduzione i guai presenti”, dice ferrari. che infatti ha risposto (più o meno non rispondendo nulla) sulla questione della sovrapproduzione, ma ha glissato su quella, ben più stringente, delle concentrazioni, di cui il “suo” marchio editoriale di riferimento (virgolette d’obbligo giacché ufficialmente oggi ferrari non è più alla guida di mondadori) sono un esempio assai vistoso e ingombrante. A quella sì, invece, a mio personalissimo avviso, si possono attribuire parecchi guai presenti (e, ahimè, futuri).

  8. Chi è causa del suo mal pianga se stesso: gli editori (soprattutto i grandi editori) sono i primi responsabili dell’attuale situazione di mercato. Lo tsunami che ha sconvolto il mondo discografico sembra non aver insegnato nulla, e il mondo editoriale sta ripetendo tutti gli errori già commessi dai discografici negli ultimi dieci anni.

  9. totale assenza di riferimenti alla mentalità da pieno triassico degli editori italiani nei confronti dell’editoria elettronica. Nemmeno citata.
    Ricordare che al termine del triassico ci fu la più grande estinzione di massa della storia non pare aiutare i colossi della editoria cartacea, che si candidano a ritrovarsi fossili a meno di aiuti governativi e leggine ad hoc.
    Peccato, ma it’s evolution, baby

  10. laura: alle tue due domande (“cosa si può fare?” e “cosa state facendo?”) posso rispondere segnalando da una parte (cosa possiamo fare) l’attività di TQ, che sta proponendo (verrà discusso in una riunione questa domenica) un manifesto per l’editoria di cui magari chiederemo alla padrona di casa di dare conto – se vorrà, se potrà – la settimana prossima anche in questo spazio di discussione; e dall’altra (cosa state facendo) un’iniziativa minuscola, programmaticamente minoritaria, ma che provi a smuovere le acque sia nel senso di porre un argine alla iperproduzione sia con un tentativo di proporre un sistema distributivo diverso, alternativo a quello esistente: è un piccolo nuovo marchio editoriale (di cui non dico di più perché non è mia intenzione usare questa discussione per promuovere alcunché), su cui trovi notizie qui: http://www.edizionisur.it

  11. @ marco cassini (chiedo venia alla padrona di casa per i “desiderata molto personali”),
    non vedo l’ora di leggere il manifesto per l’editoria che TQ sta elaborando! (e mi piacerebbe molto sapere come poter seguire più da vicino l’attività di TQ…)

  12. non è l’invidia per essere oltre il range TQ che mi fa parlare, ma mi è capitato di conversare con alcuni rappresentanti del movimento e domandare in cosa si diversificasse il “TQ” dal “Gruppo 63”. Mi è stato chiesto cosa fosse il “Gruppo 63”. spero che il manifesto sia un po’ più ispirato.

  13. @marco cassini ti ringrazio in anticipo per l’impegno a rispondere alle mie, certamente non semplici, domande e per avermi segnalato Sur di cui sinceramente non conoscevo l’esistenza (ho apprezzato molto la trasparenza sugli ordini e il fatto di avere in catalogo Ernesto Sabato, che ho letto di recente e mi ha regalato emozioni incredibili)
    Sul movimento TQ so poco, ma quel poco che so non mi convince molto, prometto fin da ora di cercare più informazioni per farmi un’idea più chiara degli intenti e delle idee che animano questo movimento.
    ci rileggeremo su questi lidi lunedì (grazie a loredana che ci regala spesso i suoi spazi e la sua pazienza)
    PS largamente OT per Loredana: viva le Marche!!!il mio compagno che ti è amico su FB mi ha detto del tuo post pro-macerata!che amarcord i miei primi quindici anni di estati al mare tra Civitanova e Porto Recanati, mercatini dell’antiquariato a Fermo e concerti allo Sferistereo!

  14. Sarà perché ormai sono un over 60, ma a me st’invenzione della Generazione Trenta-Quaranta sembra una boiata colossale, paragonabile per stolidità solo a quella del dimenticabile, anzi ormai del tutto dimenticato, pseudomovimento del New Italian Epic.

  15. Marco Cassini, grazie anzitutto per la disponibilità e anche per il rigore con cui rispondi, e Dio sa quanto è raro. Ho un dubbio. La concentrazione della distribuzione, e va bene. Ma non sono i distributori – o almeno credo – a far sì che i libri italiani siano la copia l’un dell’altro. Quelli sono gli editori. Non so se sia il megaseller di cui parla Ferrari a fargli perdere la trebisonda, ma non penso. Bisogna essere stupidi per pensare che inondando il mercato di esordienti carucce tutte quante avranno lo stesso successo di Silvia Avallone. E allora? Se cambia la distribuzione ma non la testa dei direttori editoriali, non siano punto e a capo?

  16. un pensiero basso da operatrice del settore
    con la nuova legge del libro, come lettrice e come libraia indipendente, vorrei che le fasce di prezzo dei libri tornassero più realistiche, dai 5 agli 8 euro i tascabili e le riedizioni anche se di grande formato (vedi nuove collane di tascabili giganteschi tipo Numeri primi e Vintage col prezzo alle stelle), e le novità di narrativa e saggistica fossero sotto i 15-18 euro
    l’aumento dei prezzi degli ultimi due anni va ridimensionato, era possibile ipotizzare che fosse anche per recuperare i grossi sconti concessi ai grandi acquirenti…
    avranno questo coraggio gli editori???
    è una riflessione necessaria credo
    Nicoletta, libraia a Bologna

  17. Se è vero – ed è vero! – che la crisi colpisce anche l’editoria, mettendone in luce le carenze strutturali, ora che l’acqua nello stagno è troppo bassa per tutti i pescetti, e legislative (vaglielo a spiegare a chi di dovere che un libro non è un gadget), sarà il caso di interrogarsi, accanto all’elaborazione di proposte generali e locali per riformare il settore (sulle quali, lo ammetto, come piccolo scrittore non saprei cos’altro dire se non che il nostro – di noi scrittori – compito è di scrivere buoni libri che facciano sorridere non solo il lettore, ma anche il libraio e l’editore), a cosa gli scrittori (narratori in prosa, poeti, autori di teatro, saggisti e quant’altro) sono in grado di fare, e in concreto fanno, contro la crisi. Negli ultimi due anni un certo numero di “piccoli” scrittori, e qualche “medio” (parlo di quantità e vendite, e di impatto mediatico, non di qualità, e neanche di anagrafe) si è impegnato anche nelle lotte contro la crisi, accanto a precari, operai, studenti, lavoratori della scuola e insubordinati di vario genere (solo per citare gli ultimi eventi: Val di Susa, occupazione del Teatro Valle, “Se non ora quando”). Una gran parte degli scrittori “medio-grossi” ha invece continuato a coltivare il proprio orticello (se non il proprio campo da golf) letterario, combattendo al massimo per sgomitare in cima a un appello o un manifesto, come se libertà, giustizia, legalità fossero beni da acquistare con le tessere annonarie sulle quali le firme valgono come bollini [lo stesso discorso vale per le case editrici, beninteso].
    Come se la cultura fosse una riserva a parte nel vasto campo della crisi. Come se la crisi dovesse, per volontà dell’Altissimo, colpire la scuola e i pastori sardi, le donne e i precari, ma non gli scrittori.
    E allora sarà bene ricordare che quando ci dicono che abbiamo ciascuno 33mila € di debito pro capite ci stano mentendo: l’87% del debito italiano è nelle mani di banchieeri, finanziarie e speculatori stranieri, peraltro responsabili in massima parte della crisi (a partire dall’innalzamento dello spread). E che ogni manovra, manovrina, leggina volta a “salvare l’Italia dalla crisi” e a “ottenere la fiducia dei mercati” è una tassa su chi, dopo aver subito il peso della crisi, viene costretto a farsi carico della salvaguardia del portafoglio degli speculatori e del capitale finanziario messo a repentaglio dal nuovo capo di Al Qaeda, che com’è noto si chiama “Default Europeo”.
    Mi piacerebbe vedere questo punto di vista generalizzarsi e farsi egemone, tra tutti gli operatori della cultura e dell’editoria, piuttosto che assistere allo sbircio del blog o della carta d’identità per sapere se il tale o il talaltro narratore è amino o non amico di…, se è T oppure Q o C, S, O…, se scrive o non scrive su…
    O qualcuno pensa che si possa salvare l’editoria e preservare i destini del libro accettando lo stato di cose esistente?

  18. Trovo l’intervento di Ferrari un tipico esempio della retorica di destra.
    1) Sottovalutazione del problema (la citazione di Catalano), con l’ironia facile, la citazione colta buttata là;
    2) Silenzio sulla politica editoriale aggressiva adottata dai grandi gruppi editoriali (in che cosa si differenzia il povero esaltato che Ferrari prende per il culo perché vuole pubblicare solo best-seller dall’orrida meta-collana Numeri Primi del gruppo Mondadori? – [dal sito: Il nuovo brand NumeriPrimi° vede la collaborazione tra Mondadori e RobilantAssociati, società di consulenza alle imprese leader in Italia per il brand design e la strategia di marca]?);
    3) Autogiustificazione dell’esistente: il mercato funziona così perché funziona così. Ma va? Ma il mercato sono anche le persone che lo regolano, che lo muovono, che possono decidere per esempio di non mettere la foto dell’autore a tutta pagina sulla quarta o sulla copertina di un libro, che possono non fare di tutto per accaparrarsi il premio Strega, che possono responsabilmente fare certe scelte e non altre; e trasformare (auf-heben, se vogliamo trattare Schelling con la prefazione della Fenomenologia dello Spirito) quella notte in un mondo in cui ci sono albe e tramonti.
    4) Autogiustificazione dell’esistente in base alla crisi. Le cose vanno peggio del solito, siamo nell’emergenza, con un filo d’acqua rimasta nel letto del fiume, e vogliamo pensare di cambiare qualcosa proprio in questo momento in cui l’unica politica editoriale da perseguire è quella del Si salvi chi può?
    Il punto fondamentale che GA Ferrari pare ignorare è che il libro, in un certo senso, è il peggiore oggetto vendibile per il mercato. Per un lettore attento, per esempio, un libro acquista valore invecchiando, al contrario della maggior parte delle merci. Oppure, possiede più valore se non gli viene fatta pubblicità, per esempio. Queste e moltissime caratteristiche che diamo al valore del libro sono state dimenticate o combattute dal gruppo Mondadori nella gestione Ferrari.
    Che adesso Ferrari venga a fare l’intellettuale blasé che, tra una frase chiastica e un catalanismo sull’industria culturale, sembra aver vissuto in esilio in Islanda negli ultimi anni, è un po’ fastidioso. Sarebbe più utile invece che gli stessi esempi che cita li riferisca alla sua ex-attività di editore, citando nomi e dati.

  19. ecco, nella lunga e pigra attesa di trovare argomenti per commentare Ferrari, è arrivato Raimo a farmi da involontario quanto esaustivo portavoce. nel merito, trovo importante che Christian abbia sottolineato come il libro sia “il peggiore oggetto vendibile per il mercato”. Lo è anche (mi verrebbe da pensare) perché in molti concorrono a trattarlo come un prodotto pubblicizzabile alla stregua di altri senza coglierne le peculiarità che Raimo evidenzia.
    Ciò detto, non posso spingermi più di tanto a giudicare il lavoro dei grandi gruppi rispetto a quello degli editori indipendenti, perché non ne so molto.
    Mi dicono che il gruppo Rcs (che qualcosa rappresenta) si stia (ri)attrezzando per aggiungere qualità alla quantità. Io, personalmente, non ho mai alzato fieramente il sopracciglio di fronte a Moccia, Tamaro e Wilbur Smith, semmai mi rendono perplesso i loro cloni e gli editori che questi cloni pretendono e/o creano.
    Tomas Milian che fa “er monnezza” non sarà cinema da Oscar, ma tutte le imitazioni sono addirittura patetiche e, spesso, fallimentari.
    Sarebbe auspicabile che parte dei proventi che arrivano dai best-seller (a prescindere dal loro valore letterario) servissero anche per lo scouting o per le pubblicazioni che hanno bisogno di promozione diversa. Raimo sollecita a fare nomi. Va bene, visto che in questo post intervengono lui e Cassini, allora diciamo che mi sembrerebbe auspicabile che loro possano avere investito “a buon fine” parte dei guadagni ottenuti (per esempio) con l’operazione Camilleri-Lucarelli.
    Negli anni, mi sono capitati tra le mani parecchi libri “Minimum Fax” e ne ho spesso apprezzato la qualità. Credo che questa strada possa essere percorsa ancora, anche senza manifesti TQ o manifesti compilati da Doris Lessing e Boris Pahor. La letteratura non ha età. E con questa citazione “catalana” faccio felice l’ottimo Raimo che ringrazio per il suo intervento.

  20. per stemperare con una battuta spero meno infelice di quella di ferrari su catalano posso dire per rispondere a gregori che i proventi di acqua in bocca erano già stati investiti tutti (e anche qualcosa in più) preventivamente nel periodo 1994-2010 in attività di scouting, in investimenti sulla qualità, operazioni rischiose e non produttive di utili.

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