IL BALCONE, DI ANTONIO FERRARA

E’ raro, rarissimo, che su Lipperatura appaiano racconti o testi inediti. Questa è l’eccezione. Conosco e stimo Antonio Ferrara, uno degli scrittori per ragazzi più attenti ai ragazzi medesimi. Antonio mi ha regalato un’anticipazione, che riguarda anche i discorsi fatti qui sull’hate speech. Si chiama “Il balcone”, fa parte del libro ” Scappati di mano. Sei racconti per narrare l’adolescenza e i consigli per non perdere la strada”, che  Antonio Ferrara ha scritto con lo psicologo Filippo Mittino, in uscita per San Paolo in ottobre 2013. E’ vostro. Ringraziatelo.
Il balcone
Poi esco fuori, mi alzo dal letto, apro la finestra e esco fuori sul balcone. Il cielo è nero nero e stanotte è pieno di stelle. Dal terzo piano sembra più vicino, sembra. Fa fresco, qua fuori, fa fresco in camicia da notte.
Niente sonno, non riesco a dormire, e domani a scuola non ci vado, poco ma sicuro. Non ho proprio voglia di sentirli.
Basta.
E tutto perché ha cominciato lui, ha messo le mie foto su Facebook e gli altri gli sono andati dietro. E non solo i maschi, non solo i maschi gli sono andati dietro, no, anche le femmine, le mie amiche. Hanno cominciato a scrivere insulti, su Facebook, a dire che ero proprio una così, come diceva lui, una che va con tutti.
E tutto per le foto. Me le aveva fatte quella volta che eravamo andati al lago e eravamo stati così bene, eravamo stati, io e lui da soli, e io lo amavo, e anche lui mi amava e me lo diceva ogni momento. E poi prima di fare il bagno mi aveva convinta a togliermi il pezzo sopra del costume e mi aveva fatto le foto anche se mi vergognavo e non volevo. Giura che non le fai vedere a nessuno, gli avevo detto, giura, e lui rispose sta’ tranquilla, amore, sta’ tranquilla.
Invece poi le ha messe sulla pagina di Facebook, le foto, e le hanno viste tutti. E poi ha scritto quelle cose. E adesso non riesco più a dormire.
Fa freddo, qua fuori, di notte fa freddo, sul balcone, vengono i brividi.
Domani a scuola non ci vado, comunque, non voglio andarci più, a scuola, ché in classe quelli ti guardano e fanno le battute, e dicono ecco la ragazza del lago, ci vediamo al lago, amore, che belle tette che hai, e i maschi ti chiedono pure quanto vuoi.
Mia madre a tavola mi vede strana, mi vede, e mi chiede cos’hai, Viola, ti vedo strana. Ma io non parlo, non dico niente, lei cosa può capire. Mio padre mangia, invece, guarda la tele e nemmeno se ne accorge.
Eppure Marco sembrava quello giusto. Che ne sapevo, io, che ne sapevo, uno ogni tanto tira a indovinare. Che poi le foto le ha messe su Facebook solo perché l’ho lasciato, perché non lo volevo più. Ma una cosa ci può fare, se non è più innamorata? Deve stare insieme per forza? E dopo che le ha messe, le foto, per strada l’ho incontrato, Marco, una volta, e senza le parole gli ho chiesto perché mi hai fatto questo, Marco, perché, e lui senza le parole mi ha detto così impari. E adesso non ho più un amico, e questa cosa qui va avanti già da un mese. Già da un mese, che non ci dormo più la notte.
È fredda, l’aria del balcone, stanotte, e se la tocchi è fredda pure la ringhiera. Un attimo, la salti e cadi giù.
E adesso sotto la schiena è buio, l’asfalto, è caldo, odoroso, silenzioso. E in alto vedo il palo, gli alberi, il tetto delle case. E sdraiata qua per terra adesso ho sonno, ecco, adesso ho sonno, adesso sì. E sento il sonno che viene piano piano e già mi prende, e guardo il cielo nero nero, e tutte quelle stelle.

16 pensieri su “IL BALCONE, DI ANTONIO FERRARA

  1. Insegno in un istituto superiore, conosco il problema: ne ho parlato con la psicologa che collabora con la scuola e abbiamo convenuto insieme che questi ragazzini oggi hanno in mano mezzi troppo potenti per poterli gestire, data la loro giovane età e le capacità critiche non ancora sufficientemente sviluppate. Eppure, mentre scrivo, sento che c’è dell’altro su cui dovremmo ragionare: è il sentimento di disprezzo, di odio, per l’appunto, che sottende al gesto, amplificato dal mezzo. E’ il venir meno del rispetto verso l’altro, il desiderio di far male quale risposta a un dolore/perdita/sconfitta che non si riesce ad accettare. Quattordici, quindici anni sono forse pochi per saper gestire le nuove tecnologie ma dovrebbero essere sufficienti per capire che si può fare molto male e il male altrui non può essere una risposta alle proprie ferite.

  2. Per far capire a quelli che “il bullismo non è nato con la rete” quali possano essere le potenzialità devastanti del mezzo nell’amplificare i messaggi e non lasciare scampo alle vittime può forse tornare utile una novella di Pirandello, di cui purtroppo non ricordo il titolo. In questa novella c’è un tipo, lo scemo del villaggio, che tale è perché quella è l’etichetta che gli hanno appiccicato addosso. Un giorno questo signore cambia città e si accorge che quando parla la gente non lo sbeffeggia e anzi lo sta ad ascoltare, e piano piano acquista fiducia in sé. Diventa un personaggio rispettato, se non ricordo male addirittura sindaco. Va tutto bene finché in quella città non capita un suo vecchio compaesano che lo riconosce: tutto crolla, tornano le vecchie insicurezze e in men che non si dica l’antica maschera di scemo del villaggio torna a posarsi sul suo volto, velandolo per sempre. Ecco, la rete fa più o meno questo: dice a tutti, ma proprio a tutti – oh, guardate, questo è lo scemo, questo è il frocio, questa la troia. E’ la tua maschera, la tua condanna, che ti segue ovunque, diventa pervasiva, non ti lascia più un solo buco in cui rifugiarti. In 1984 il protagonista sviluppa un pensiero autonomo perché in casa sua c’è un angolo, un solo minuscolo angolo, in cui la telecamera del Grande Fratello non può raggiungerlo; la rete quell’unico angolo te lo toglie. Da ragazzo un po’ di bullismo -diciamo così, “light” – l’ho subito anch’io, in quanto “secchione”. Un mio amico gay ne subì molto di più. Nel paesello ci sentivamo assediati, le medie furono un incubo, ma alle superiori cambiò tutto: un nuovo spazio vergine, nessuno ci conosceva, avemmo entrambi la possibilità di diventare noi stessi. Se ci fosse stata allora la possibilità di spargere per ogni dove il veleno che ci inseguiva non sarebbe bastato andare a scuola in un’altra città per liberarsi. A me non pare così difficile capire questa cosa, mi chiedo come mai tanta gente si ostini a non volerla accettare. Ovviamente, non penso che leggi al limite dell’assurdo come la famigerata norma “ammazza blog” che ora sembra stia rispuntando siano idonee a risolvere il problema, che va affrontato innanzitutto con gli strumenti dell’educazione; ma per favore non riattaccate la solfa che è colpa di chi solleva il problema, se poi ci becchiamo leggi liberticide: qui è in gioco la serenità e spesso la vita della gente, dei ragazzi e delle ragazze. Il problema lo sollevo eccome, e spero anzi che lo sollevino cento, mille, diecimila voci più ascoltate e più udibili della mia.

  3. intanto e soprattutto grazie ad Antonio Ferrara.
    e poi sì, bisogna ripartire dall’ascolto e dalla fiducia.
    Non si insegna agli adolescenti, nessuno di noi avrebbe mai voluto avere indicazioni, ma si semina la strada di attenzione.
    Per quanto si può. A scuola. A casa.
    E’ dura. C’è bisogno di inventare nuovi luoghi.
    Forse non basteranno, forse non a tutti.
    Però occorre esserci.

  4. Sono un padre che oltre a mangiare si è accorto che c’era qualcosa di grave , perchè di cose gravi si tratta e comprenderne la gravità può aiutare a ridurre il dolore o almeno a proteggere. Mia figlia negli anni del liceo ha dovuto subire per il suo non essere omologata, per non appartenere al modello unico imposto. Si tende a minimizzare il problema, ad archiviarlo come semplici ragazzate e quel che è peggio, da parte di molti insegnanti, c’è una sorta di comprensione per i bulli e di riprovazione per la vittima che appare come incapace di stare allo scherzo. Per chi, come me, appartiene ad una generazione che non ha vissuto il bullismo in questi termini, non è facile capirne risvolti e motivazioni, ma quando mi è stato certo che di persecuzione si trattava e che passava anche dai social media sono intervenuto e visto che non ho trovato aiuto negli insegnanti e nel preside, già nel mirino delle critiche per l’ignavia dimostrata a riguardo di problemi analoghi, ho dovuto farlo individualmente. So come si fa e l’ho fatto, le persecuzioni sono finite

  5. Questi commenti allargano il cuore. Davvero, ringrazio voi e ringrazio Loredana per avermi così generosamente ospitato nel suo blog tanto seguito.
    Chi a vario titolo lavora o viene a contatto con adolescenti sa bene che “Non si insegna agli adolescenti, nessuno di noi avrebbe mai voluto avere indicazioni, ma si semina la strada di attenzione”, come dice meravigliosamente Isabella nel suo commento.
    Ci vuole empatia, bisogna mettersi in gioco, suggerire la complessità del mondo, e in fondo scrivere (soprattutto per adolescenti) e educare sono entrambe pratiche che comportano la parziale rinuncia al proprio io, perchè quell’altro possa venire avanti.

  6. Non c’è nulla di più stucchevole dei cosiddetti libri di narrativa “a tesi” tanto di moda nella scolastica delle medie: un romanzo sul problema droga, un romanzo sul bullismo, un romanzo sul problema degli immigrati, un romanzo sul problema di anoressia & bulimia. Un’amica insegnante mi ha appena espresso la propria saturazione per le tesine sul femminicidio, grande novità agli esami di quest’anno. Ok per la buona fede e le buone intenzioni, ma sempre sia gridato abbasso a qualsiasi tentativo di letteratura neo-edificante.

  7. Tesi o brand è lo stesso. Alcuni costringono a più serietà di altri.
    Quello che non capisco è l’empatia per il suicidio, che viene fuori, per sbaglio, da una pagina che parla di una suicida. Qualcuno direbbe “stava male, per questo ha iniziato a drogarsi”?

  8. Beh è certo che scrittura e pubblicazione di questa storia ( i lbalcone di antonio ferrara) nascono dalle migliori intenzioni, quelle cioè di mostrare e combattere la violenza tra i ragazzi e bambini. Però anch’io sono rimasto piuttosto sconcertato dalla scelta stilistica dell’autore. capisco che non è facile, anzi è impossibile, immedesimarsi nei pensieri di una ragazzina prima di suicidarsi, però questa placida rassegnazione e questa morte dal sapore dolciastro, “calda e odorosa” come l’asfalto, mi hanno piuttosto schifato. Non mi sembra un atteggiamento verosimile per una ragazzina anche se di adatta perfettamente alla merdosa mentalità nichilista che ci viene propinata oggigiuorno. Voi cosa ne pensate?
    ciao,k.

  9. Ai tempi delle superiori la mia parte, e grossa, di dileggio collettivo me la sono subita anche io per non essere stato capace di adattarmi ai canoni dei qundicenni di allora (salvo scoprire venticinque anni dopo che probabilmente soffro di un disturbo dello sviluppo mai diagnosticato). Ricordo quante speranze riponevo in un cambio di scuola per poter ripartire da zero e quante delusioni ogni volta quando invariabilmente e senza capire dove sbagliassi, mi ritrovavo sempre all’ultimo posto. I mezzi tecnologici di ora secondo me potenziano l’aggressività di quella che è comunque un’età spietata come quella adolescenziale, dove si va formando lo spirito di competizione e l’autostima, e dove tutti hanno un feroce bisogno di trovare qualcuno da ridurre a vittima per sentirsi superiori e metabiolizzare le prime sconfitte.

  10. ho letto il racconto Il Balcone e mi piace molto la “leggerezza” con la quale il tema viene trattato specie nella suo epilogo finale.
    tre i temi per me importanti:
    l’uso delle tecnologie da parte dei giovani,
    la “fragilità” della adolescenza,
    rapporto genitori e figli.
    avrei alcune riflessioni ma per ora mi fermo alla prima.
    I giovani vanno anche aiutati a capire che cosa vuol dire usare le nuove tecnologie e a che cosa si va incontro usandole. perchè la televisione oggi ci abitua ad un mondo “dilatato” e le tecnologie pure, che mal si conciliano con il diritto alla privacy e alla riservatezza.
    ho quasi l’impressione che se da una parte è molto facile usarle, poco si rifletta sul loro uso.
    credo che oggi i docenti, professori, educatori in genere, sino messi di fronte ad argomenti nuovi che non possono essere ignorati.

  11. @lipperini. Penserei proprio che ogni occasione è buona, o dovrebbe esserlo, per fare testimonianza di fede, ma purtroppo la vanità vuole sempre la sua parte.
    Come in questo racconto, in cui delicatezza, nasconde la superbia di chi vuole scrivere i pensieri della testa degli altri. Ma in effetti gli scrittori, (anche di commenti), peccano spesso di presunzione .
    resta l’ occasione per fare un salutino
    ciao,k.

  12. Anche a me, come a K., la rassegnazione del personaggio dà un po’ fastidio.
    Ok io non scrivo, tantomeno racconti per ragazzi (ammesso che esistano davvero racconti per ragazzi, e secondo me non esistono, come non esistono illustrazioni per ragazzi). Però avrei pensato un altro finale. Tipo: la bambina non ha aspirazioni che la società si aspetterebbe da una bambina. Due anni fa aveva chiesto a mammina di frequentare i corsi di krav maga. Mammina, che sapeva bene cosa fosse avendolo praticato durante il periodo di leva obbligatoria (mammina è di origine israeliana nel mio racconto), era felice di questa inclinazione. Allora la storia cambia.
    Il bambino le dice: così impari!
    Lei risponde: no impari tu coglioncello! E lo immobilizza, facendogli capire che conosce tante altre tecniche di neutralizzazione. Anzi glielo dice proprio: sai che conosco tante altre tecniche di neutralizzazione…
    Allora il bambino che fa continua? No, si scusa.
    Non so se sia realistico. Ma nemmeno il soffio psicoterapeutico che soffia sulla storia attuale è realistico. Almeno ciò che racconto è avvincente, sbalordirebbe i bambini.

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