IL CONTESTO

Sono una di quelle che spulcia fra i ricordi proposti da Facebook, e non solo. Diciamo che i social sono venuti incontro a una vecchia fissazione di quando ero ragazza, e in quel caso spulciavo le agende per vedere cosa mi era capitato o cosa avevo pensato l’anno precedente. Bene, questa mattina mi viene incontro un post del 2016, cinque anni fa. Succedeva questo:
“Improvvisamente, su twitter, vengo inondata di tweet furibondi scatenati da una signora, Lucia Franzese, che chiede che gli insegnanti di sostegno vengano ascoltati nel confronto con il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone a Fahrenheit, e il sottinteso è che il potere (noi) non li ascolterà. Basisco. L’intervista a Faraone è stata fatta il 13 febbraio 2015. Cosa è accaduto, dunque? Che la signora Lucia ha pescato non so dove la notizia dell’intervista e ha scatenato un tweet-storm sbagliando di quasi due anni le date (peraltro quell’intervista era stata preparata con una settimana di anticipo, accogliendo le domande che venivano fatte dagli ascoltatori). Care e cari, è una vicenda esemplare: la rete rilancia alla cieca, senza verifiche, per pura rabbia. E per quanto le ragioni della signora Lucia siano giuste, in questo modo si vanifica ogni possibilità reale di discussione. Amen, sorelle e fratelli.”
Interessante, no? Cinque anni fa ero obiettivamente turbata da qualcosa che invece sarebbe diventata la norma: ovvero, intervenire fuori contesto. La faccenda del contesto è forse quella che permette di inquadrare fino in fondo alcune cose che ho scritto nei giorni precedenti: il famigerato abbassamento dell’asticella (che ha provocato rivoli prevedibili ma fuori, appunto, contesto: i giovani che sarebbero ignoranti, o i rifiuti editoriali, e via andare) e la lingua inclusiva, caso in cui si è scatenato l’inferno, ancora una volta fuori contesto. Io ponevo la questione come opportunità e nell’80% dei casi  è stata comunque recepita come imposizione, confusa col metoo, e via andare anche qui.
La questione numero uno, dunque, si sposa con una postura che, quella sì, ci è stata quanto meno agevolata dai social: interpreto una questione pro domo mea. Tutto si riferisce sempre a me, al mio vissuto, alle mie frustrazioni, alle mie difficoltà. Non funziona così, in nessun campo: o forse, per meglio dire, non dovrebbe funzionare così, ma così è. Perché è esattamente la proiezione di noi stessi su ogni cosa che leggiamo a rendere meno facile la decodificazione o addirittura la comprensione del testo. Cosa posso dire, io, al signore che strilla che è tutta colpa del metoo, quando quello di cui vado parlando col metoo non ha niente a che vedere? Nulla, perché non mi leggerebbe, o mi leggerebbe senza “vedere” quello che sto dicendo. Cosa posso dire io a chi mi chiede di spiegare e dettagliare l’uso dello schwa in ogni contesto quando il centro di quel che scrivevo riguardava la reazione al presunto obbligo e non il come e il quando? Nulla, perché in un batter di ciglia (ma lo avevo previsto nel post di ieri) sono diventata un’attivista con le bave.
Vorrei precisare che non mi sento ferita e tanto meno vittima. Chiunque, come me, sia in rete da, ormai, 17 anni tondi, ha attraversato ben altre tempeste. Sono semplicemente preoccupata: perché a forza di trasformare il mondo circostante in uno specchio, diventiamo molto più vulnerabili di quanto pensiamo e diciamo di essere. Tutto qui.

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