IL CORPO, IL DOLORE, LA PAURA, LA SCRITTURA: PARTE SECONDA

Tutto quel che ci sembra di scoprire ora, con le storie di dolore che leggiamo sui social e nei libri, la letteratura fantastica  lo sapeva già, ma lo raccontava in un altro modo. Un tempo la Cosa Senza Nome era la Creatura di Frankenstein: intorno agli anni Ottanta si è elevata a metafora del cancro (o dell’Aids), dunque di qualcosa che non viene creato ma si crea da sé e ci cresce dentro in un agghiacciante «body horror» (secondo la definizione coniata nel 1986 dalla rivista Screen), orrore del corpo e per il corpo. Mutazioni genetiche, malattie, mutilazioni, ibridi, invasioni aliene che passano per il corpo: questo è ciò che incuriosisce e attrae gli autori horror, in letteratura e al cinema, in quel decennio e dopo, per mostrare che, appunto, la paura è dentro di noi. Avviene nei film, nei romanzi, nei fumetti. Avviene in Alien di Ridley Scott, Videodrome e La mosca di David Cronenberg, La cosa di John Carpenter, Raw – Una cruda verità di Julia DuCournau, la miniserie a fumetti Black Hole di Charles Burns, il romanzo Carnival Love di Katherine Dunn, La metà oscura dello stesso King, dove dal corpo si scinde un alter ego. L’alter ego era quello di King, o meglio, era la sua esperienza nella vita di un altro che era lui stesso: Richard Bachman, che ha usato a lungo come pseudonimo, gli serve per creare George Stark, eteronimo di Thad Beaumont, che fa lo scrittore (a Ludlow, la stessa di Pet Sematary) e lo seppellisce, come King seppellì infine Bachman. Non gliene verrà un gran bene. Dal nostro corpo e dalla nostra mente arrivano i fantasmi peggiori.
Quando siamo bambini temiamo il buio, la solitudine e certamente le cose senza nome che prendono la forma di topi e serpenti, e che toccandoci ci condanneranno a una condizione che non conosciamo. Abbiamo paura di addormentarci, di quel momento che è impossibile percepire in cui la nostra coscienza sfuma. Abbiamo paura, crescendo, di mutare, perché i seni che si gonfiano e i fianchi che si allargano e il sudore che diventa acre decretano che stiamo abbandonando per sempre quello che conoscevamo, e quello che ci si spalanca davanti è ignoto, e come ogni mondo che non sappiamo ci spaventa. Abbiamo paura, se ragazze e donne, quando rimaniamo incinte, perché quel che è certo è che siamo in una situazione che deve avere il suo sbocco, e non possiamo fermarla, né lo desideriamo, eppure ci sentiamo in trappola. Abbiamo paura che l’infanzia dei nostri figli abbia fine, anche se questo significherà non trascorrere più notti sedute su una sedia accanto ai loro letti quando hanno la febbre o la tosse o la sesta malattia, per controllare il loro respiro: ma la loro adolescenza, e poi la loro giovinezza, sono lo specchio della nostra età adulta, e poi della nostra vecchiaia, e scandiscono il tempo che ci rimane.
Abbiamo paura di molte cose, ma la prima paura è quella della cosa senza nome, che è la morte, e che cresce nel nostro corpo anche se non siamo malati, e rallenta i nostri movimenti e logora i nostri muscoli, e non possiamo fermarla.
Ma possiamo, nelle storie che immaginiamo, dirci un’altra cosa. Ovvero, che “Un universo di orrore e smarrimento circonda un palcoscenico illuminato, sul quale noi mortali danziamo per sfidare le tenebre”. (Stephen King, 22/11/63, 2011)

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