IL FASCIO DI TENEBRA DEL NOSTRO TEMPO: SUL FANTASTICO

Su quanto sia importante vedersi e discutere, come è avvenuto sabato con Evelina Santangelo, a Ragusa. Su quanto sia importante fermarsi per capire come si possono usare le parole, dissimili nella forma, simili negli intenti. E su quanto sia importante capire se e come il fantastico, che in letteratura non è un genere, ripeto, ma sottende la letteratura stessa, possa contribuire, e in quale modo.
C’è una frase di Giorgio Agamben, ripresa da Antonio Caronia, che può aiutare. Il passaggio, per intero, è questo:
“Se la fantascienza di Dick, di Ballard, di Burroughs, ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro, ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra che proveniva dal suo tempo (per usare un’espressione di Giorgio Agamben) senza indulgere ad alcuna tentazione salvifica, fu perché essa sapeva vedere nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio. Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla”.
L’onnipresente presente è qui, ora. Riflettevo, in questi giorni, sulle molte distopie che leggiamo, alcune molto belle peraltro, ma tutte a un passo da noi, come se quel mondo da immaginare e restituire fosse troppo vicino, fosse il nostro. Quando guardiamo Black Mirror vediamo noi stessi, la distorsione è leggera, quella prefigurazione è già reale. Il fantastico, spesso, non riesce a creare mondi diversi da quelli che conosciamo, e non parlo ovviamente di replicare l’irripetibile euforia tecnologica di inizio Novecento, ma di tutto quello che è stato creato dopo, nella meravigliosa discarica della serie zeta e nelle visioni sofisticate di Ballard e Dick, che quel fascio di tenebra presagivano e rilanciavano.
Il problema, forse, non è tanto scardinare il reale con il possibile, ma andare ancora avanti nell’immaginare cosa potrebbe esserci oltre l’immobilità che è nostra. Uno dei motivi per cui amo Ted Chiang, di cui sto leggendo Respiro, è che lavora quasi ossessivamente sul tempo, su come piegarlo, curvarlo, attraversarlo, stringa per stringa, spirale dopo spirale. Non è una questione di viaggiare nel passato, ma di farlo tornare a muovere. Siamo fermi, come aveva presagito anche Ray Bradbury, e ci illudiamo in movimento. Siamo fermi nel rancore, meravigliosamente autoconsolatorio laddove ci rassicura che no, non siamo noi a sbagliare, ma il Sistema, il Potere, il Male che ci accerchiano e soffocano, e ogni volta che lo scriviamo le nostre ferite fanno meno male perché altri, molti altri, dicono che abbiamo ragione, e like, like, like.
Ma in questo modo non siamo molto diversi da quegli youtuber, i mukbanger,  di cui parlava il Post, quelli che mangiano on line, senza abbuffarsi, mangiano e lasciano che gli altri li guardino masticare, mettere salse, staccare bocconi, inghiottire, per condividere le solitudini di chi non ha nessuno con cui celebrare il rito del cibo. Guardiamo nello specchio, e vediamo solo noi stessi. Occorre, credo, una ripartenza.

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