IL FUMO OPACO DEL LINGUAGGIO RAZZISTA

E’ un fatto che quando si scrive o si parla di rom e in generale di razzismo ci sia un vago malessere, o disinteresse: a volte educato, a volte del tipo “non sono razzista ma gli zingari mettiteli a casa tua, cara”.
Non credo possa esserci miglior risposta di quella di Federico Faloppa, che ringrazio per avermi permesso di pubblicare almeno una parte del suo intervento per l’Accademia della Crusca. Buona lettura e buon week end.
LINGUA E DISCRIMINAZIONE: ALCUNE ANNOTAZIONI
di Federico Faloppa, in “Lingua e diritti”, a cura di Domenico De Martino e Nicoletta Maraschio, Firenze: Accademia della Crusca, 2014
(…)
La cronaca sportiva è piena di episodi di razzismo, come ben documentato da Mauro Valeri nel suo Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano (Roma, Donzelli, 2010): razzismo verbale, in primis: fatto di insulti e offese. Di fronte a cui le società sportive sembrano inermi, o spesso pilatescamente indifferenti. Non risulta infatti che in Italia ci si prodighi per prevenire o, nel caso, sanzionare espressioni ingiuriose espressamente razziste e discriminanti. Anche perché il Daspo (Divieto di accedere alle manifestazioni sportive; Legge n. 401 del 13 dicembre 1989), il provvedimento di allontanamento dalla stadio per chi si rende responsabile di atti violenti, in caso di razzismo prevede che alle parole debbano fare necessariamente seguito i fatti: ogni altro atteggiamento si configurerebbe infatti solo come un’opinione, e non sarebbe perciò perseguibile penalmente.
Altrove non è così. In Inghilterra basta un insulto o un gesto non soltanto per essere allontanati dallo stadio, ma anche per essere incriminati. Lo sa bene Gavin Kirkham, un giovanotto di 28 anni arrestato con l’accusa di reato razziale aggravato “soltanto” per aver imitato gesti scimmieschi rivolgendosi al giocatore di origine ghanese del Manchester United Danny Welbeck, durante la partita di Coppa di Lega tra Manchester United e Chelsea nel novembre del 2012. Anche per questo le società sportive in-glesi prendono molto seriamente l’argomento. Il Liverpool, ad esempio, ha distribuito nel luglio del 2013 a tutti i membri del proprio staff che hanno un contatto con il pubblico una lista di parole e frasi “unaccettable”, inaccettabili, sul piano sociale, e quindi assolutamente da evitare e stigmatizzare. Lo scopo? Contrastare ogni forma di discriminazione – a partire dal linguaggio – in ambienti ancora troppo permeabili a compor- tamenti razzisti e xenofobi.
Il vademecum, parte di una policy di sensibilizzazione più articolata, elenca termini ed espressioni che gli impiegati della società dovrebbero giudicare offensivi – e quindi bandire – a proposito di razza, religione, orientamento sessuale, genere e disabilità. Non si tratta, tuttavia, soltanto di indicazioni prescrittive (ed è questa la cosa interessante). La guida infatti spiega che è “importante capire il contesto di ciò che viene detto”, come nel caso ad esempio di don’t be a woman (non fare la femminuccia), ritenuto fortemente ingiurioso in alcuni contesti ma meno in altri. E quindi armarsi di pazienza e ironia per decostruire il discorso, prima ancora che per orientarlo o sanzionarlo.
Si può sorridere di un’iniziativa del genere, osservarla con caustico sense of humour: come hanno fatto, tra gli altri, gli stessi supporter del Liverpool in un vivacissimo forum online. E comunque, nel mare magnum di iniziative politically correct (di cui non mette conto discutere ora), le cosiddette “buone pratiche” danno risultati immediati, forse, solo laddove la sanzione è certa e la soglia di attenzione è alta. Laddove, in generale, non solo le società calcistiche, ma la società nel suo insieme stigmatizza certi comportamenti, che siano fisici o “soltanto” verbali, perché antitetici alla sua stessa natura, e vocazione, multiculturale.
Ma dove la sensibilità e la stigmatizzazione non solo non sono unanimi, ma sono addirittura criticate o derise da alcune forze politiche – e da una parte consistente dell’elettorato –, e dove l’intercultura, lungi dall’essere un dato acquisito viene ancora esorcizzata (dai suoi avversari), le buone pratiche diventano non tentativo condiviso, ma terreno di scontro: dove le ingiurie a sfondo razziale diventano prassi.
Lo abbiamo visto lo scorso anno, quando ripetutamente la Ministra dell’Integrazione, Cécile Kyenge – portatrice con il suo dicastero, il suo ruolo e la sua persona di elementi di novità nella politica italiana – è stata insultata o per il suo colore della pelle, o per la sua (presunta) appartenenza etnico-razziale. Il metodo era sempre lo stesso: prima si lanciava l’insulto, l’improperio, l’assalto verbale, poi molto blandamente si tentava di minimizzare, chiedendo talvolta scusa, e assicurando che il razzismo non c’entrava nulla, che si trattava o di boutade non estranee alla dialettica politica.
Ma basta ripercorrere brevemente alcuni episodi per verificare che il razzismo non solo c’entrava, ma si articolava proprio intorno a certi stilemi ricorrenti, a certi stereotipi, a certe parole, espressioni e concetti chiave.
Le prime offese contro Kyenge arrivano ad appena due giorni dalla sua nomina, il 27 aprile 2013. Pesanti insulti fanno la loro immediata comparsa sui siti della galassia di ispirazione neo-nazista: «Scimmia congolese», «Governante puzzolente», «Negra anti-italiana», sono ad esempio le espressioni che si leggono su Stormfront, Duce.net e le pagine dei tanti gruppi di destra attivi su Facebook. Negli stessi giorni, l’europarlamentare leghista Mario Borghezio conia lo slogan «ministro del bonga bonga», coniazione per la quale sarà poi successivamente espulso dal suo gruppo a Strasburgo (l’EDF). E ancora. Il 2 maggio 2013, sul muro esterno del liceo scientifico Cornaro, a Padova, compaiono frasi ingiuriose contro la ministra (tra cui «L’Italia non è meticcia: Kyenge rimpatriata subito»), mentre quattro giorni dopo è la volta di un consigliere leghista di Prato, che sempre su Facebook indirizza contro Kyenge l’epiteto «nero di seppia» (a cui segue un’improbabile autodifesa: «era soltanto una zingarata», dirà l’autore). Ma, tra gli episodi più sconcertanti, va senz’altro ricordato il post di Dolores Valandro, consigliera leghista padovana che ancora su Facebook, il 13 giugno, riserva parole inusitate alla titolare del dicastero dell’Integrazione: «Ma mai nessuno che la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato?». Ancora più disarmante la sua giustificazione:
«Non sono cattiva, era solo una battuta».
Neppure le polemiche che si scatenano a seguito di questi episodi frenano però gli animi, a cominciare da quelli degli esponenti del Carroccio. Dalla pagina ufficiale Facebook della sezione della Lega di Legnano (Verona) parte infatti un nuovo attacco a Kyenge. Colpevole di aver definito gli immigrati una risorsa, la ministra si sente apostrofare:
«Se sono una risorsa… va a fare il ministro in Congo! Ebete». È di metà luglio, però, il caso forse più grave dal punto di vista istituzionale. Perché ne è autore il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli. Questa volta l’indignazione politica è bipartisan. «La Kyenge? Sembra un orango», dice alla festa leghista di Treviglio Calderoli. Maroni condanna l’episodio, ma il suo partito non forza la mano e Calderoli resta al suo posto. «Solo una battuta simpatica, ho telefonato per scusarmi» dirà poi l’interessato prima di consegnare platealmente un mazzo di fiori in Aula al ministro. La ridicola retromarcia, tuttavia, non gli evita di essere indagato per diffamazione e discriminazione razziale. E il suo caso arriva fino agli uffici di Ginevra dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, che tramite un suo portavoce definisce “scioccanti” le parole del senatore leghista.
Questa sequela sembrerebbe abbastanza nutrita da consigliare anche ai più esagitati una pausa di riflessione, di silenzio. Ma quella leghista per Kyenge sembra una vera ossessione. Tanto che il 18 luglio è la volta di Agostino Pedrali, assessore al comune di Coccaglio (Brescia), che scrive su Facebook: «Sembra una scimmia». «Parassita», è invece l’insulto che le riserva Luciano D’Arco, consigliere indipendente (ma ex leghista) di Casalgrande, nel Reggiano. Senza contare le migliaia di commenti a post su social network e nei blog di alcuni quotidiani che gli elettori-lettori – non solo leghisti – si sbizzarriscono a scrivere. Sembrano saltati non soltanto tutti i limiti della decenza politica e istituzionale, ma anche della vergogna e della reticenza: coperti da identità virtuali, giustificati dal degrado del discorso pubblico, si dice (e si legge) di tutto, e anzi ci si vanta di usare un linguaggio finalmente senza fronzoli, politicamente “scorretto”.
Gli epiteti, intanto, finiscono presto nel dimenticatoio (e i loro autori, generalmente, rimangono al loro posto). Anche perché solo raramente vengono sanzionati come sarebbe stato lecito aspettarsi. E dire che gli strumenti legali esistevano ed esistono anche in Italia. Sarebbe bastato e basterebbe applicarli.
(…)
Ma non si tratta solo di scrivere o applicare le sentenze. Per un atto linguistico “discriminante” o razzista sanzionato, altri cento passano sotto silenzio, con troppa facilità e rapidità, in tutti i contesti. Perché manca ancora – appunto – una cultura e una prassi non discriminante e antirazzista solida e diffusa (e largamente condivisa), di cui gli aspetti legali dovrebbero essere, come è altrove, soltanto l’extrema ratio.
Manca ancora, d’altronde, un’informazione non viziata da stereotipi, pregiudizio, pigrizia intellettuale. Sappiamo quanto l’Associazione Carta di Roma ha lavorato in questi anni per sensibilizzare giornalisti e redattori. E nei confronti di certe cattive pratiche consuetudinarie (l’uso indiscriminato del termine clandestino, ad esempio) un percorso virtuoso è stato parzialmente fatto. Ma molto rimane da fare.
Da una ricerca condotta dalla Ong NAGA di Milano nel 2013 è emerso un quadro piuttosto sconfortante relativo alla rappresentazione mediatica di rom e sinti, ricavato dall’analisi di un corpus consistente di articoli estratti da nove quotidiani nazionali e locali tra il giugno 2012 e il marzo 2013. Non soltanto si nota una visibilità marcata per episodi negativi di cui i rom si sono resi protagonisti (a partire dal titolo, dall’evidenza di alcuni elementi paratestuali), ma anche un’associazione sistematica tra rom e fatti negativi che però non li vedono direttamente coinvolti: perché inserire i rom in articoli che parlano di fatti di cronaca nera – furti, danneggiamenti, violenze – a prescindere dall’accertamento del loro eventuale coinvolgimento è un’abitudine molto diffusa su tutti i giornali (indipendentemente dal loro orientamento).
In molti articoli, quale che sia la testata di provenienza, si avverte lo stesso zoppicante impianto retorico: le stesse debolezze sul piano dell’argomentazione.
Si va – tanto per fare gli esempi più ricorrenti – dalla “fallacia di autorità” (talvolta addirittura rovesciata: non solo il giornalista di turno si fida ciecamente di un commento altrui, facendolo proprio, ma vi attribuisce autorevolezza incurante della reale auctoritas del testimone, che può essere un qualsiasi passante, un qualsiasi vicino di casa, un qualsiasi guardiano di condominio, ecc.) alla “fallacia ad metum” (ovvero, il ricorso ad argomenti che fanno appello alle emozioni e agli stati emozionali invece che alle ragioni), dai cosiddetti argomenti “ad populum” (il patetismo che fa appello a una presunta indignazione della maggioranza, della “gente”, genericamente citata), alla frequente “fallacia di non causa pro causa” (l’interpretare un fatto come causa di un altro anche se non sussistono relazioni documentate), non dissimile dalla “fallacia di correlazione illusoria” (del tipo “se sono aumentati i furti, allora ci saranno più zingari in giro per il quartiere”; “gli zingari… vanno e vengono a decine, [quindi] sono pericolosi”, ecc.).
Si procede troppo spesso per generalizzazioni indebite (“un esercito di 600 persone che non lavorano”), per associazioni ingiustificate (come nell’articolo del «Corriere della Sera» del 25 novembre 2012, dove l’accostamento fra due domande rivolte da un giornalista a un consigliere comunale – una sui furti in un quartiere di Milano, e una sul “Piano Rom” della Giunta – introduce arbitrariamente un legame che non trova alcun riscontro nel brano), per vere e proprie manipolazioni, a partire – e non è un caso – dal titolo («Il Giornale», 30 ottobre 2012: «rom rapisce una bambina e spara all’eroe che la salva»; ma nel testo non ci sono riscontri oggettivi né circa il coinvolgimento di un rom, né circa il rapimento), senza alcun distinguo tra ciò che è successo realmente e ciò che qualcuno suppone sia successo.
Spesso queste associazioni raggiungono livelli discriminatori – la separazione netta, anche in termini di diritti di cittadinanza e di diritto alla difesa, tra “noi” e “loro”, due gruppi diversi ontologicamente, che non si intersecano e il cui benessere viene presentato come alternativo – e vengono fatte ricorrendo a generiche dichiarazioni riportate tra virgolette. Si prenda ad esempio il discorso riportato (spesso senza dichiarare la fonte) che veicola non solo lo stereotipo più trito, ma che diventa, in mancanza di confini chiari, e specie in presenza di un discorso indiretto, pure il punto di vista del giornalista: un modo semplice ma stilisticamente brillante per far dire ad altri ciò che si vorrebbe (ma non si potrebbe, per deontologia professionale) dire in proprio, o anche – riprendendo un commento di Tullio De Mauro – un modo per avvolgere «in un fumo opaco le fattezze e i connotati precisi delle cose di cui si parla» o si dovrebbe parlare. E questo fumo opaco genera spesso pericolose ambiguità. Come quella che si ritrova sul «Corriere della Sera» dell’11 febbraio 2013, chiara fin dal titolo «Allarme furti in casa al quartiere Mecenate. “Assediati dai Rom”». Assediati dai rom? E quale sarebbe la fonte? Chi l’avrebbe detto? A proposito di che cosa? In quale contesto? Dalla lettura dell’articolo non è dato sapere. Con conseguenze nefaste sull’affidabilità dell’informazione, e sulla percezione del lettore rispetto all’argomento.
Leggendo i giornali presi in esame ci siamo rese conto, inoltre, che le affermazioni discriminatorie nei confronti dei rom vengono lasciate scorrere senza che suscitino alcuna reazione né personale né collettiva. Il pregiudizio verso i rom appare talmente radicato nella cultura dei lettori (e dei professionisti dell’informazione) da non essere neanche più riconosciuto, e da aver raggiunto quasi un livello ontologico: è sufficiente essere rom per essere qualcosa di negativo, a prescindere da ciò che si fa, dalle azioni che realmente si compiono (e documentare). I vademecum, le linee-guida, gli interventi per suggerire di usare un linguaggio meno ambiguo e connotato possono certamente essere utili. Ma quando la discriminazione è così radicata, non basta sostituire un termine con un altro (rom al posto di nomade, che già aveva in parte sostituito zingaro). Bisognerebbe rovesciare come un guanto non tanto il linguaggio, quanto le politiche sociali e territoriali, la percezione dei fenomeni, la formazione dell’opinione pubblica.
Bisognerebbe, tanto per cominciare, chiedere a chi fa informazione di dare voce, e spazio, anche ai diretti interessati, ai rom. Perché un tentativo di empowerment mediatico (o almeno, un riconoscimento all’esistenza e alla soggettività) faciliterebbe sia una migliore informazione (da parte dei gior- nalisti) e una migliore conoscenza (da parte dei lettori), sia l’articolazione di un dialogo sul piano dei diritti di cittadinanza fra tutti gli attori coinvolti nel sistema della comunicazione, nelle istituzioni, sul territorio. Invece di agili
– quanto provvisorie, e incomplete – ricette, servirebbero politiche di inclu- sione, o meglio di “negoziazione”. Gli esempi non mancano, anche se fuori dai circuiti degli addetti ai lavori se ne parla poco. Non solo percorsi educativi nelle scuole, non solo percorsi formativi nelle redazioni dei giornali, ma percorsi di cittadinanza (per tutti) nella realtà. All’interno di un processo del genere, anche la discriminazione linguistica, quella che passa per le parole – forse – verrebbe declassata ad aneddoto spiacevole e inopportuno: rigettato dalla prassi, prima ancora che dai commentatori.
FEDERICO FALOPPA
Department of Modern Languages and European Studies
University of Reading

5 pensieri su “IL FUMO OPACO DEL LINGUAGGIO RAZZISTA

  1. Usare un linguaggio razzista credo sia un rischio per tutti. Anche magari in luoghi che non ti aspetti, è facile trovare espressioni che tendono a isolare e segregare la persona al momento avversaria, degradandola in ranghi subumani, se non proprio animali. Ma “certa gente” a volte se lo merita. O forse no.
    L’altra mattina a Radio Maria, padre Livio nella rassegna stampa ha parlato anche del caso dell’uomo che ha sparato nel tribunale di Milano.Si è un po’ provocatorio citare qui padre Livio , ma effettivamente la cosa mi ha colpito, perché sulla strage di Milano, non si sente dire altro che follia sicurezza, falle nel sistema di sicurezza, follia controlli tornielli, metal detector. E lui ha in effetti sottolineato come un monito, quanto sia pericoloso per qualsiasi persona, in realtà per ciascuno di noi, lasciare entrare l’odio nel cuore .
    ciao,k.

  2. Buongiorno Loredana, ieri sera a Report nuova puntata sull’Anas. Lunga intervista a Pietro Ciucci di Giovanna Boursier. Rapido accenno alla Quadrilatero. Un operaio ha denunciato che una galleria è stata costruita con una volta poco sicura, lui dice ai figli di non passarci. La solita faccenda di cemento poco rinforzato. Smentita sdegnata di Ciucci.
    Buona giornata
    Rossella Grasselli

  3. Verissimo, k. Esattamente come è pericoloso aizzarlo e rinfocolarlo, quell’odio, magari in nome di qualche Verità con la “v” maiuscola o di qualche “Valore (sempre in maiuscolo) non negoziabile”.

  4. Daniele grazie per l’attenzione, forse volevo dire che il linguaggio razzista non è unicamente quello rozzo e volgare, dei cori da stadio, o della politica populista, ma lo stesso può essere magnificamente contenuto anche in ambiti più raffinati e colti dove, sfumato nell’aere delle frasi erudite risulta molto meno riconoscibile ( anche a chi lo usa) e per questo forse ancora più pericoloso.
    ciao,k.

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