IL DIO CHE ARMA LE MANI DI FOLGORI: REVIVAL DI STEPHEN KING

“Ai margini dell’abisso regnerà la schiuma stagnante, e si raccoglierà intorno ai gusci e alle ossa di creature morte che un tempo abitarono le acque”.
E’ l’ultimo racconto di H.P.Lovecraft, The Night Ocean. Quelle due parole, schiuma stagnante, “sono” l’intera opera di Lovecraft, sono il nostro terrore, e sono il senso ultimo di Revival di Stephen King (traduzione di Giovanni Arduino, Sperling&Kupfer).
Detta semplicemente, la profondità dell’orrore in Lovecraft non è nell’inconcepibile atrocità dei suoi dei folli e delle sue creature abissali: è nell’ipotesi che l’esistenza umana non abbia senso. Non abbia un fine. Non abbia, infine, speranza alcuna. E una volta conclusa, non sia che schiuma stagnante che avvolge morte conchiglie.
Stephen King ha, fin qui, raccontato la possibilità, se non di una redenzione, di addolcire il dolore della separazione. Nei suoi romanzi ci sono fantasmi gentili che indirizzano la mira del pistolero improvvisato (Roberta ne Le creature del buio) o salvano situazioni altrimenti fatali (di recente, Dr.Sleep, il più fiducioso nella possibilità di una vita ultraterrena) o semplicemente approdano alla luce (Insomnia, per citarne uno solo). Ci sono, certo, anime inquietissime che dalla morte ritornano o chiedono giustizia o ricordo. Raramente c’è la disperazione per un’assenza irrimediabilmente definitiva: affiora nel finale de Il Miglio verde per esempio, ma in quello stesso romanzo sembrano esserci varchi per pensare che un giorno quelle carezze, quegli sguardi, quella voce (come scrive oggi Susanna Tartaro qui, è la voce di chi abbiamo amato e perduto a dannarci di malinconia) torneranno a essere presenti, non importa dove o come.
Nell’introduzione che Stephen King scrive nel 1977 per la raccolta A volte ritornano, del resto, è detto chiaramente cosa significhi scrivere horror e perché l’horror ci fa paura. Perché parla di morte. Certo, lo fanno anche scrittori non horror, dice King:
“Le opere di Edward Albee, di Steinbeck, di Camus, di Faulkner, trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori (James Joyce, di nuovo Faulkner, poeti come T.S.Eliot, Sylvia Plath, Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell’inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo”.
Quale è, secondo King, il compito di uno scrittore dell’orrore? In sostanza, fare da filtro fra quello che possiamo interiorizzare senza pericolo e quello di cui dobbiamo sbarazzarci. Raccontare, cioè, la paura numero uno: la forma del cadavere sotto il lenzuolo. Il nostro cadavere. Il motivo per cui chi scrive fantastico ha sempre goduto di scarsa considerazione, dice ancora  King, è proprio questo: è perchè affronta la prova generale della nostra morte. Certo, anche gli autori mainstream parlano di morte: ma chi si avventura nel territorio del non reale si spinge più avanti. E, forse, colpisce più duro.
Fino a Revival, la durezza era, a mio parere, stemperata. Ma nell’ultimo e più lovecraftiano (dichiaratamente, con decine di riferimenti espliciti) dei suoi romanzi, non sembra esserci speranza, a meno di una menzogna sovrannaturale che è messa nel conto ma a cui sembra difficile credere.
Come già detto in precedenza, Revival ruota attorno all’antico sogno di dominare la forza primordiale dell’elettricità, come avvenne in Frankenstein di Mary Shelley e come avvenne realmente nella vita di Nicola Tesla, così come raccontata in  Lampi di Jean Echenoz, e così come immaginata da Christopher Priest in The prestige, poi (strepitoso) film di Nolan. L’elettricità, specie quella segreta e primordiale, fornisce il potere. A cercare il potere, in Revival, è il pastore metodista Charles Jacob, che il protagonista James Morton conosce bambino e che, nel giro di pochissimo tempo, vedrà sbriciolarsi la propria fede in Dio dopo la morte della moglie e del figlio bambino. Se Dio permette una sofferenza così inconsolabile, dice Jacob, è un ingannatore che ci intrattiene con la promessa di una possibilità ultraterrena, ma mente. Al tentativo di scoprire se quella possibilità esiste davvero, Jacob dedica la sua intera esistenza: non importa quanti corpi o anime dovrà utilizzare, non importa quanto il suo stesso corpo verrà consumato nell’impresa. Se il Dio della Bibbia “arma le mani di folgori” (Giobbe, 36,32), Jacob userà la stessa arma.
James è legato a lui fin dal primo incontro, quando la sua ombra oscura il campo di battaglia dei suoi soldatini, fino all’ultimo di cui, come è giusto, occorre tacere, così come si tace di quel che si intravede oltre la porta incorniciata da edera morta, quella che sguardo umano non deve scorgere, pena il desiderio di aprirla e vedere cosa c’è al di là.
Revival è dunque un romanzo sulla fede e sulle prove che una fede chiede: niente patti, niente peccati di orgoglio, così è, se vuoi. Ed è un romanzo sulla mancanza di fede e sulla disperazione di chi eventualmente potrebbe scoprire che la forma sotto il lenzuolo è soltanto quella che si tocca. Una forma fredda, senza più traccia di respiro, sogni, gioia, amore, e destinata a dissolversi, schiuma stagnante e priva di senso.
E’ un romanzo terribile e per questo bellissimo, intessuto della nostalgia che attraverso la musica viene veicolata, e che nel giro di poche pennellate restituisce i mutamenti di cinquant’anni. Forse, azzardo, è il romanzo più alto che King abbia concepito. Anche per questo, si resta stupefatti leggendo l’articolo di Alessandro D’Avenia apparso su Tuttolibri di sabato scorso: è corretto e normale che lo scrittore-recensore non lo abbia nè amato nè capito. Un po’ meno normale ridurre l’horror a fessure nei muri e solai misteriosi che si contrappongono alla “Dea ragione”: l’horror (leggere, oltre alla citata introduzione per A volte ritornano, almeno Danse Macabre dello stesso King) è portare il cuore del lettore nel crocicchio delle emozioni e dei terrori più profondi. Il resto – le cripte e le catene e le tombe scoperchiate –  è armamentario, e non necessariamente dei migliori: se si rimpiange questo (o si ritiene che “gli adepti” di King rimpiangano questo) e si sostiene che il vecchio scrittore è stanco, si commette un errore persino più marchiano di quello dove si scrive che (sic) Morton ha la morte nel cognome (dall’inglese to mort, certo). Pazienza.

15 pensieri su “IL DIO CHE ARMA LE MANI DI FOLGORI: REVIVAL DI STEPHEN KING

  1. Beh, basterebbe solo quell’affermazione sul cognome “Morton” per inficiare qualsiasi altra cosa detta o scritta in quel contesto!!! Dopo aver letto una perla del genere, credo che farò l’Intellettuale Italico di professione (ma mi devono paga’ bene, eh!!)…

  2. L’uso di “mort” nel senso di “morte” o “morto” è attestato nella lingua inglese, anche se non di recente http://www.oed.com/view/Entry/122428?rskey=uvzSRq&result=1&isAdvanced=false#eid. Più frequente nell’aggetivazione, però: “Mortal combat”, “We are all mortals”, “Save my mortal soul” – etc.
    E tuttavia non c’entra con Morton (nome e/o cognome) che proviene da “by the moor” (accanto alla brughiera) http://www.surnamedb.com/Surname/Morton. Dubito che ad un lettore anglofono morton richiami “mort” nel primo significato.

  3. Ma non è una recensione: c’è una premessa sulla nascita dell’horror che dice con chiarezza che di horror D’Avenia non ne sa una cippa, e crede di cavarsela con uno schemino sull’illuminismo e i suoi nemici che neanche sui Bignami; poi il racconto della trama, e infine una chiusa del tipo: boh, m’hanno detto di leggerlo e recensirlo, a me non è piaciuto, se vi piacciono i mattoni fatti vostri. Che di King conosca ben poco lo si vede, per dire, dal solo fatto di non sapere quanto il rock è importante nella narrativa del Re (vogliamo limitarci a “It”?). Perché il libro non funzioni, non lo spiega, neanche ci prova: il recensore non era all’altezza dell’incarico, e il risultato è all’altezza del recensore. Di che stiamo a parlare?

  4. Come ho già scritto altrove trovo molto scorretta questa “recensione”: si suppone che un lettore si accosti a questo lungo articolo per farsi un’idea se valga la pena o meno leggere il libro, e perché. No, dice il recensore alla fine, non vale la pena (sul perché invero è un po’ laconico). Ma, aggiunge, casomai non foste convinti, o se foste così decerebrati e masochisti da volerlo leggere comunque ignorando il mio parere, in via preventiva dedico mezzo articolo a spiattellarvi praticamente l’intera trama, così da rovinarvi ben bene il piacere della lettura. Tiè!

  5. Premetto di non essere altro che una lettrice, non una critica, ma concordo sul fatto che come libro Revival non ha nulla da invidiare ai precedenti di King. L’orrore non passa solo attraverso le crepe nei muri. King tratta la fede e la fiducia in molti dei suoi romanzi, questa volta l’ha resa più protagonista di un mostro con gli occhi infuocati. Può piacere o meno, ognuno ha le sue preferenze, ma mi sembra che il Re non sia stato ancora detronizzato.

  6. vabbè, parliamo di D’Avenia, su. Mica ci possiamo aspettare chissà che. Anche se non sono in linea con la recensione (anche se sono una constant reader, non tutto ciò che pubblica lo zio lo prendo come oro colato), mi è piaciuta molto leggerla…diversa dalla mia, ma sono punti di vista. Quando (prima o poi) rileggerò il libro, magari cambierò idea ^_^

  7. Non ho letto il libro né la recensione di Avenia, e neppure so valutare la traduzione perché King l’ho letto sempre e solo in inglese, ma faccio sommessamente notare che nel nobile idioma di Shakespeare esistono parole quali mortal, mortician, mortuary, ecc. Forse King non voleva evocarle, forse sì, ma da qui a sghignazzare sulla crassa ignoranza del recensore ce ne passa. Lipperini, mi sa che la toppa l’ha presa lei.

  8. Ho letto il commento, che però non chiarisce affatto “il punto” ed è giustamente dubitativo. King usa il nome Morton, e nel testo quel nome c’è, quale che fosse l’intenzione dell’autore. Dopodiché sta agli interpreti decidere se la suggestione (possibile) va presa in considerazione o no. Avenia dice di sì, lei di no. Ma perché fare quelle ironie sul verbo “to mort”? P.S. Non so cosa ci sia di misterioso nel mio nome.

  9. Provo a dirimere la questione Mort, o comunque ad aggiungervi un tassello. D’Avenia, se non vado errato, “nasce” dal master di scrittura che si tiene presso l’Università Cattolica di Milano. Tra i testi lì studiati, c’è un manuale di sceneggiatura di John Truby, “Anatomia di una storia”, con un paragrafo che parla dei nomi contenenti la radice “mort”. Che la riflessione nasca proprio da quel paragrafo? Boh.

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