Quando si ama una persona, che sia una madre, un compagno, un’amica, non si vorrebbe sapere come è morta. Non si vorrebbe trattenere nella memoria il momento del limite, quello che ci porta irreparabilmente a coniugare al passato, un secondo prima “é” e un secondo dopo “era”. Vorremmo trattenere, invece, il sorriso, il tono della voce, il movimento delle mani, il profumo, il modo in cui taglia una pizza o sorseggia una birra.
Quando qualcuno ti racconta come una persona amata è morta, si vuole al tempo stesso sapere e non sapere, e nel momento in cui si apprende ci si sente inesorabilmente voyeur, l’ospite ingratissimo che spia e non dovrebbe, la moglie di Barbablù che gira la chiave nella toppa e la lascia cadere – perché altro è impossibile fare – nella pozza di sangue per portarsi le mani al volto.
Anselmo Terminelli è il marito di Chiara Palazzolo. Scrivo “è” e non “era”, perché così è giusto. E’ anche un giornalista esperto in politica sanitaria, e per due anni e mezzo ha lavorato al racconto delle ultime due settimane di vita di Chiara, ricoverata al Policlinico Gemelli e trattata, come leggerete, come un esperimento fallito, come una sconfitta professionale e non come persona cui spettavano empatia, rispetto, informazione, assistenza.
Anselmo ha scritto un ebook che si chiama Tanto ormai, le parole che si è sentito dire nel corso dell’ennesima telefonata in cui chiedeva (e anche Chiara lo faceva, perché fino alle ultime ore ha avuto la lucidità necessaria per sentirsi persona e non “cosa” in procinto di essere smaltita) notizie e aiuto: questa, scrive Anselmo, è “l’espressione che alcuni medici e infermieri continuano a pronunciare con le parole e con i fatti quando si trovano davanti malati terminali. Questo accade oggi anche in alcuni ospedali d’eccellenza, nonostante sia in vigore in Italia dal 2010 la legge sulle cure palliative, che obbliga invece i sanitari ad attivare una serie di prestazioni per eliminare la sofferenza di questi malati. Grazie a questa legge, “ogni paziente inguaribile è curabile”.”
Tanto ormai è liberamente scaricabile dal sito tantormai.it. Racconta quelle ultime due settimane in cui nessun beneficio, clinico e umano, è stato ricevuto da Chiara. Due settimane in cui Chiara chiedeva, interrogava, inviava sms ai medici senza ricevere risposta, respingeva il pesce fritto che le veniva servito (mentre stava morendo di tumore ai dotti biliari), era costretta all’immobilità per flebo non funzionanti e cateteri dimenticati chiusi. Ogni episodio viene accompagnato da un racconto preciso e implacabile di cosa prescrive la legge e di quali dovrebbero essere i doveri etici e deontologici dei sanitari. Non è solo lo sfogo di un compagno lasciato solo, ma un’inchiesta, che chiede infine di istituire la presenza in ogni ospedale di un Garante per la tutela della dignità del malato con la funzione di ripristinare le cure appropriate quando emergono negligenze, oltre alla formazione pratica e obbligatoria per tutti i sanitari sul rapporto con il malato stesso.
E con chi lo accompagna nel suo ultimo viaggio. Come leggerete, dopo la gelida constatazione della morte di Chiara, il marito è stato lasciato solo per quattro ore, senza alcuna offerta di conforto o una parola di cordoglio, senza neppure quel bicchiere d’acqua con qualche goccia di calmante che io, invece, mi sono vista porgere, con una mano sulla spalla, dal cardiologo di mia madre. Gli è stato impedito di vegliarla in camera mortuaria. Gli è stato impedito di vestirla. Gli è stato impedito di pregare per lei nel più cattolico fra i complessi ospedalieri.
Chiara lo intuiva. Nelle sue ultime ore diceva al marito di sentirsi “in un oscuro labirinto senza uscite, popolato da orchi”. E così è stato. Leggete questo passaggio, e poi scaricate il libro, e diffondetelo:
“(nell’ultimo giorno di vita), con funzioni cerebrali ormai compromesse, continuava a raccontare storie, “per restare vigile” diceva, utilizzando un vocabolario ormai limitato di parole. Parole semplici e concetti elementari con i quali, attraverso storie apparentemente fantastiche, descriveva metaforicamente la terribile realtà che stava vivendo e il suo stato d’animo ferito.
Uno dei suoi ultimi racconti, nella tarda serata di domenica 5 agosto, è stata la storia degli orchi che ci rincorrevano in un labirinto senza uscite. Chiara diceva che da solo non sarei riuscito a portarla fuori. Era necessaria un’altra persona: suo padre, morto molti anni prima. Solo voi due insieme riuscirete a portarmi fuori dal labirinto, concluse il racconto.
In realtà, continuando la triste metafora, il padre è riuscito a portare fuori solo lei. Mentre io da allora continuo a vagare tra i meandri oscuri del labirinto, senza ancora aver trovato nessuna via di uscita”.
grazie per la testimonianza…
la mia famiglia ha avuto più fortuna e uno dei rari periodi in cui negli ultimi anni mi sono sentita in un paese pienamente civile, é stato quello di luglio agosto 2012, ultime tre settimane di vita del mio babbo, malato di tumore, e accolto assieme a tutti noi familiari all’Hospice Seragnoli di Casalecchio sul Reno (Bologna).
Un luogo di rispetto e accoglienza.
Grazie Loredana
Sai, per Chiara è avvenuto tutto in fretta, e quel che chiede, giustamente, Anselmo è che non solo negli Hospice ci sia rispetto e cura. Ma anche negli ospedali, in tutti gli ospedali. Un abbraccio
Una terribile testimonianza ma così forte nella sua fredda realtà. Con mia madre ho avuto più fortuna. In un “certo modo” lei aveva “scelto” e la sua scelta è stata capita rispettata. Ma ripeto è stata una questione di fortuna. Grazie per questo scritto. Mirka Bonomi
Grazie Loredana.
Grazie Anselmo Terminelli per aver avuto il coraggio di scrivere e denunciare questo clima fosco troppo diffuso nella nostra sanità, grazie Loredana Lipperini per aver scritto di questa storia terribile. Infine Onlus esiste anche per mettere fine al cinismo burocratico che permette che le persone possano morire male, umiliate e trattate come rifiuti, e che i familiari siano lasciati abissalmente soli nel dolore. La diffonderò più possibile.
Che dire? Raccontare questo lo dobbiamo a tutte le persone che ci hanno lasciato: in un modo che noi sappiamo, e capivamo, avrebbe dovuto essere diverso. Come tante altre cose nella malattia. Per molto tempo il dialogo di mia madre con gli elfi che vivevano su un albero che si vedeva da una finestra dell’ospedale è stato molto più onesto, credibile e logico di tutto ciò che avveniva intorno a lei. C’è ancora tanto da fare, tanta formazione, ma non solo. Grazie per questo post.
Grazie Marina Sozzi per quanto fai. Speriamo che la dignità di chi muore venga infine riconosciuta. E grazie a voi, tutte e tutti.
grazie, con empatia…
Grazie! Solo grazie… e qualcuno lassù dove io sono certa sia dopo l’inferno quaggiù… quello stesso inferno di Chiara, quel qualcuno sa perché.
Grazie, è profondamente inumano non alleviare la sofferenza che impedisce di ragionare, di parlare, di lasciare chi si ama e ciò che si ama. Condivido.
Avevo un fratello atleta, benché 68enne. Si stava allenando per le prossime olimpiadi Master (tante medaglie d’oro già accumulate nel Decathlon). E’ morto d’infarto in pochi secondi sulla pista del campo di atletica, al termine di un soddisfacente allenamento. Quando l’ho raggiunto al pronto soccorso (ormai esanime) pareva dormisse. Servirà del tempo anche a me per capire che la cosa è successa davvero. Ma le persone a cui abbiamo voluto bene restano vive nella nostra mente, se le abbiamo interiorizzate come meritavano. Accludo un noto testo:
“La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.” [S. Agostino o il reverendo inglese Henry Scott Holland (1847-1917)?]
Sono nella stanza accanto, o meglio Lucio. Condoglianze per tuo fratello, anzitutto, di cuore. Quel testo, pensa, è stato scelto da Anselmo per l’immagine che ricorda Chiara. Per una non credente come me, sarebbe meraviglioso crederci. Perché, purtroppo, non trovo mai chi vorrei nella stanza accanto. Abbracci
Nemmeno io sono credente, però ritengo che la perdita del senso del sacro, per quanto riguarda nascita e morte, sia fra le sconfitte più gravi della cultura laica occidentale. Io l’attimo in cui si dà quel punto cieco che chiamiamo “morte” lo voglio vedere, e molto bene: quando mi è successo, oltre al senso dell’assurdo, si è manifestato anche qualcosa che chiamerei “mistero”, col quale questa società ha un pessimo rapporto. Diversi anni fa ho assistito mia nonna (che mi ha cresciuta) nei suoi ultimi momenti in ospedale: sconvolta da ciò che ho visto attorno a noi, l’ho raccontato in un articolo (http://www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=459): qui pongo una serie di domande alle quali il mondo medico potrebbe rispondere, se non fosse anch’esso vittima di una cultura davvero povera da un punto di vista umanistico e umano… Ma tale povertà temo sia un problema comune, e riguarda anche la nascita. Per questo, a mio parere, sarebbe necessaria una riflessione anche filosofica: dove attinge la pietà umana? Dove radica il senso del sacro? Cosa è sacro, e come tale va protetto a tutti i costi? Cosa ci impedisce di rispettare il mistero, quando questo si manifesta?
Cara Linda, il sacro è andato perduto perché manipolato e artefatto ad arte da istituzioni religiose che lo hanno sfigurato e piegato ai loro interessi terreni. Quel che va recuperato (dopo averlo compreso, però) è il “senso del sacro”, come tu giustamente scrivi. Grazie per queste riflessioni da un ex-credente in viaggio verso l’agnosticismo e forse l’ateismo.
Un grazie a Loredana e a Marina Sozzi per le loro testimonianze e le loro azioni.
Quel che mi colpisce leggendo gli accadimenti funesti che ti hanno più toccata, Loredana, è la distanza umana di chi svolge professioni e mestieri legati alla sofferenza e alla morte. Personalmente ho vissuto di recente due perdite importanti e, prima di esse, ho rischiato la vita in prima persona, eppure in un solo singolo caso ho “sfiorato” quella freddezza e quel cinismo; per il resto ho visto tanti operatori sensibili e calorosi sia con me che con familiari, amiche e amici. Linda parla di recupero del senso del sacro (anche e soprattutto in senso laico), credo abbia ragione. Forse bisognerebbe aggiungere anche quello dell’etica umanista. O magari, banalmente, basterebbe riscoprire e praticare una sana empatia?
Sono una volontaria dell’ Hospice Kairos di siracusa di cui è responsabile il dottore Giovanni Moruzzi,mi intristisce sempre leggere di queste mancanze da parte del personale ospedaliero che dovrebbe accudire i malati ma sono anche orgogliosa di fare parte di un sistema di eccellenza in una realtà del sud come siracusa. Qui da noi la legge sulle cure palliative non solo viene rispettata ma direi che è una missione, la dignità del malato e della sua famiglia sono la nostra priorità, dico nostra perché non solo i medici e gli operatori ma anche noi,”semplici volontari” siamo costantemente attenti ad ogni bisogno dei pazienti e delle loro famiglie, la nostra fortuna è quella, oltre che di aver incontrato medici e personale altamente specializzato, di essere formati dalla dottoressa Giusy Digangi psicologa e psicoterapeuta che ci prepara durante incontri periodici e continui e ci insegna la delicatezza che mettiamo in ogni nostro gesto e incanala la nostra generosità altrimenti spontanea per riuscire a “sollevare ed accudire” chi vive momenti così delicati
Insieme a Salvatore, mio marito, all’Hospice di Siracusa abbiamo capito cosa vuol dire ” Kairos”. Abbiamo vissuto momenti molto intensi……dopo tanto girovagare, tante illusioni e delusioni, qualcuno ci ha preso per mano, ci ha protetto, ci ha voluto bene, ci ha considerato “persone”, ci ha coccolati, in un momento di tanta fragilità. La presenza discreta e costante del personale medico, degli infermieri, dei volontari ci dava sicurezza, e noi potevamo abbandonarci al nostro dolore, alla nostra impotenza, ai nostri ricordi e piano piano all’accettazione di un qualcosa che non si può cambiare. La “fortuna” nella “sfortuna”……..mai un …..”tanto ormai”, ma sempre un vivere l’attimo, ogni attimo in modo unico e irripetibile