Pubblico un estratto dal lungo, documentato articolo sulla Buona Scuola scritto da Girolamo De Michele per Euronomade: qui trovate l’integrale, compreso di note. Ecco, coraggio.
Entriamoci dentro, in questa Buona Scuola (senza dimenticare il caschetto, visto il flop del Piano Scuole Sicure).
La porta d’accesso, come indica un bravo studioso di cose scolastiche, è il metodo: che è anche il merito. Il presidente del Consiglio «ha deciso con cinismo e spregiudicatezza di scaricare le responsabilità sul Parlamento, al quale è stato rivolto un vero e proprio ricatto: se non sarà in grado di approvare il disegno di legge in tempi brevissimi si assumerà la responsabilità di compromettere l’assunzione di centomila precari e di impedire che, finalmente, la scuola “cambi verso”, e a quel punto il governo sarà costretto – suo malgrado, naturalmente – a sostituirsi a un organo inaffidabile e inadempiente adottando un decreto legge».
Lo strumento del decreto legge, peraltro, è di fatto sostituito da quello della legge delega, che riguarda un novero enorme di materie (copincollo dal capo VII art. 21 del ddl, così Giannini e Puglisi capiscono che l’ho letto):
a) riordino delle disposizioni normative in materia di sistema nazionale di istruzione e formazione.
b) rafforzamento dell’autonomia scolastica e dell’ampliamento delle competenze gestionali, organizzative ed amministrative delle istituzioni scolastiche.
c) riordino, adeguamento e semplificazione del sistema per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria per l’accesso alla professione di docente, in modo da renderlo funzionale alla valorizzazione del ruolo sociale del docente, nonché delle modalità di assunzione a tempo indeterminato del personale docente ed educativo per renderlo omogeneo alle modalità di accesso al pubblico impiego.
d) riordino delle modalità di assunzione e formazione del dirigente scolastico nonché del sistema di valutazione dello stesso conseguentemente al rafforzamento delle proprie funzioni.
e) adeguamento, semplificazione e riordino del diritto all’istruzione e alla formazione degli alunni e degli studenti con disabilità e bisogni educativi speciali (BES).
f) adeguamento, semplificazione e riordino della governance della scuola e degli organi collegiali.
g) revisione dei percorsi dell’istruzione professionale, nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione, nonché ai fini del raccordo con i percorsi dell’istruzione e formazione professionale.
h) semplificazione del sistema formativo degli istituti tecnici superiori.
i) istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni, costituito dai servizi educativi per l’infanzia e dalle scuole dell’infanzia statali, al fine di garantire a tutti i bambini e le bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali, nonché al fine di garantire la conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro dei genitori, la promozione della qualità dell’offerta educativa e della continuità tra i vari servizi educativi e scolastici e la partecipazione delle famiglie.
l) rendere effettivo il diritto allo studio su tutto il territorio nazionale nel rispetto delle competenze delle regioni in materia.
m) adeguamento, semplificazione e riordino della normativa concernente gli ausili digitali per la didattica e i relativi ambienti.
n) revisione, riordino e adeguamento della normativa in materia di istituzioni e iniziative scolastiche italiane all’estero.
o) adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, nonché degli esami di Stato anche in raccordo con la normativa vigente in materia di certificazione delle competenze.
Tradotto in due parole: su tutti questi argomenti – didattica, diritto allo studio, disabilità, assunzione e valutazione del personale, valutazione degli apprendimenti, governance della scuola – il ddl non contiene alcunché, se non l’enunciazione della scatola vuota nella quale, una volta ottenuta la delega, il governo sarà autorizzato a mettere qualsivoglia contenuto senza alcun passaggio o controllo da parte del Parlamento (e del Presidente della Repubblica, che immagino ci sia ancora – il Presidente, voglio dire).
Dice Renzi: «la scuola è delle famiglie, non dei sindacati». Come se la scuola fosse di qualcuno, e non di tutti; come se fosse un oggetto di cui si può sancire possesso, e conseguente alienazione (infatti…); come se anche gli insegnanti, essendo padri (tipo me, per esempio) e madri, non fossero, oltre che insegnanti, famiglia (e non famigli, o famuli); come se questa solfa della famiglia non fosse una bischerata da ciellini. Ma al netto delle bischerate: dov’è scritto, all’interno di questa lista di “faremo, faremo, faremo” senza alcun contenuto specifico, che questa riforma difende gli interessi delle famiglie?
Quanto alle riserve di ordine costituzionale sull’uso della legge delega, lascio volentieri, in nota, la parola a Boarelli, e non perché i suoi argomenti siano di poco rilievo – anzi: ma ve ne sono di ancor maggiore gravità.
Dentro questa lunga teoria di scatole vuote c’è tutto ciò che attiene alla didattica e al suo esercizio. Vale a dire che in questo ddl non si parla di scuola, non si parla di didattica, non si parla di istruzione: non se ne parla perché queste cose verranno scritte dopo. Non si parla neanche delle tanto sbandierate meritocrazia, perché anche su questo si delibererà dopo.
E allora, di cosa stiamo parlando?
Di tre cose: di decostituzionalizzazione, di autoritarismo, e di valutazione.
A. La valutazione: in assenza di contenuti (chi, come cosa, su quali criteri, in quali sedi, con quali conseguenze si valuterà?), diventa un valore in sé. Parafrasando il vecchio Kerouac: l’importante è valutare, non importa come. È la scuola dei “devoti della misurazione”, il cui centro non è la “testa ben fatta”, ma l’esistenza di test che premiano «una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati» (Chris Hedges, qui).
Il dogma dei devoti della misurazione consiste nel negare l’esistenza di processi storici e sociali, o di soggetti collettivi e classi sociali, e considerare al loro posto solo entità atomiche quali gli individui, in quanto portatori di bisogni, di idee, di malattie, di conoscenze: la ratio dell’homo œconomicus, che è alla base di tutti i processi della valutazione. E su queste entità atomiche si costruiscono programmi di ingegneria sociale sotto l’egida di parole d’ordine quali efficienza, meritocrazia, problem solving, all’ombra delle quali ogni manifestazione soggettiva del valore come valore d’uso – che cosa so, cosa sono in grado di fare, quali forme di relazione posso instaurare con quel che so? – è mistificata nella forma oggettiva del valore economico, cioè di scambio – quanto vale sul mercato questa conoscenza?
Ma è bene ricordare che i processi interni alla scuola accadono anche in quella società con la quale, piaccia o non piaccia, la scuola è in rapporto osmotico. È il modo in cui il potere si esprime nella società globale, sottraendo spazi di vita e di libertà.
B. L’autoritarismo: ovvero, l’onnipotenza tirannica del dirigente scolastico. «Autonomia non significa autogestione», ha chiosato Renzi: dando ad intendere che l’alternativa al dirigente-tiranno sia l’autogestione (il che è retoricamente efficace, ma logicamente scorretto e moralmente disonesto), o forse che fino a oggi nella scuola ci sarebbe stata una sorta di autogestione. Ora, premesso che il dirigente eletto dai docenti è una cosa che esiste non nella Cuba di Fidel o nel Venezuela di Chavez, ma in Germania – ad oggi il dirigente scolastico, che è nominato dall’apparato aministrativo (un po’ come il prefetto è nominato dal ministro degli interni):
nomina, senza consultare i docenti il vicepreside, i collaboratori e lo staff (cioè l’intero governo della struttura); presiede il Collegio Docenti ed è membro del Consiglio d’Istituto, con amplissimi poteri de facto di indirizzarli e condizionarli; è responsabile dell’assegnazione delle cattedre e della distribuzione dell’orario, con la possibilità di attuare un mobbing di fatto nei confronti dei docenti “indocili” – fra i quali le RSU, cioè l’unico organo di controllo effettivo del proprio potere. È, insomma un Leviatano in sedicesimo rispetto ai propri sottoposti grazie alla riforma dei dirigenti pubblici10, che ne ha rafforzato i poteri in un quadro di privatizzazione della dirigenza pubblica attraverso atti datoriali-gestionali nell’esercizio della capacità del datore di lavoro privato: il dirigente-manager che amministra la scuola come fosse un’azienda ortofrutticola, e attua un vero e proprio pactum subjectionis fra sé e gli altri lavoratori della scuola, cui fa da pendant l’annunciato annichilimento degli organi collegiali, che vorrebbe sancire la fine di ogni residuo di collegialità e di discussione pubblica. Ancora la legge-Brunetta ha privato il lavoratore subordinato di alcuni gradi inteermedi di ricorso avverso alle decisioni del dirigente, contro il quale di fatto può ricorrere solo avventurandosi per via giudiziaria (con tutto quello che ciò comporta, anche in termini economici). Il tutto, con un salario che è due-tre volte quello di un insegnante.
Queste “competenze” (comprese quelle economiche) sono ancor di più “qualificate e potenziate in relazione al ruolo centrale che [il dirigente] assume nella gestione della scuola” (art. 7 ddl), senza che l’aumento del potere – con la conseguente diminuzione dei diritti dei lavoratori – sia controbilanciata: lo squilibrio del balance fra diritti e doveri (che sarebbe anche scritto nella Costituzione, ma tant’è…) è il segno distintivo dell’autoritarismo. Basti pensare al potere di assumere i docenti, avendo al tempo stesso quello di licenziarli (o di non rinnovarne, dopo tre anni, l’incarico): il che equivale a introdurre il contratto a tutele crescenti (o meglio: eventuali) nel pubblico impiego; al potere di selezionare i docenti-collaboratori, attuando uno scatto di carriera de facto; alla determinazione dei docenti meritevoli di incentivo economico in base a criteri stabiliti dal dirigente stesso.
Dice Giannini perché così Renzi le ha raccontato (mentre Puglisi annuisce): «Un preside che sbaglia perderà l’indennità e poi il ruolo, la valutazione li riguarda da vicino». Peccato che questo testo di legge non dica affatto ciò: sulla base dei criteri di «riordino delle modalità di assunzione e formazione [assunzione e formazione: NON “dispensa dal servizio” o “restituzione al ruolo di provenienza”, come invece per gli insegnanti all’art. 9)] dei dirigenti scolastici […] la dirigenza scolastica è valutata sulla base dei criteri e delle modalità di scelta dei docenti che lo stesso dirigente scolastico ha adottato [si, state leggendo bene: il grassetto è mio], nonché sulla base dei miglioramenti conseguiti dalla scuola con riferimento in particolare alle azioni poste in essere per il contrasto alla dispersione scolastica e alla valutazione degli apprendimenti» (art. 21 d).
Ciò che si disegna è un meccanismo perverso nel quale fra i servi mal pagati si incentiva una gara al tempo stesso orizzontale a porre laccio e inciampo al collega vicino, e verticale nel dimostrarsi servente e servile in massimo grado: nella quale la libertà d’insegnamento viene svenduta per una differenza salariale che farebbe schifo allo stesso Iscariota.
C. La decostituzionalizzazione: quattro anni or sono scrivevo (qui) che «La scuola non è immune (e perché mai dovrebbe esserlo?) da quel processo di decostituzionalizzazione che si riassume in alcuni tratti che valgono per il tutto come per le parti, sul globale come sul locale: “una tendenza alla progressiva sovrapposizione tra regole e tecniche di matrice americana e diritto globale”; un “lavoro di decostruzione e di ricostruzione dei sistemi giuridici particolari [che] procede attraverso networks organizzativi orizzontali indipendenti dall’autorizzazione o dalla delega sovrana; risponde in tempi brevissimi a interessi business driven; “spacchetta” lo Stato e ne utilizza i poteri domestici di normazione e di sanzione in termini di implementazione dei principi del rule of law“; infine, il moltiplicarsi di “prassi di gestione extragiuridica e extraistituzionale dei problemi” anche attraverso “agenzie non delegate che alimentano flussi multilaterali di governance e che contrastano vigorosamente con l’unità sistematica dell’ordinamento”. Come nei diversi segmenti interni all’orizzonte globale, anche nel piccolo orticello dell’istruzione (intesa tanto come trasmissione che come produzione) la vita viene catturata all’interno di dispositivi o apparati: quegli apparati di cattura di cui hanno dato una pionieristica descrizione Deleuze e Guattari in Mille Plateaux. Le successive ricerche di Michel Foucault in direzione di una descrizione critica della società del controllo, hanno fornito importanti strumenti di approfondimento e di eversione rispetto alle dinamiche di questi apparati».
Vale a dire, che su un piano generale dello studio dei dispositivi di potere si tratta non di chiedersi, con malcelato stupore (come capita ad alcuni pensatori contemporanei) come mai lo Stato sia sopravvissuto al sorgere degli apparati di disciplinamento e controllo, come mai non si sia sciolto (per la gioia di qualche liberale “tutto chiacchiere & David Friedman”) nella governance, ma di afferrare la profondità delle trasformazioni generate dalla governamentalizzazione dello Stato, dal suo essere attraversato da processi di disciplinamento e soggettivazione. Al limite, se il nome “Stato” sia ancora adeguato a denotare un’istituzione che privatizza e decostituzionalizza il lavoro, rinunciando a qualsivoglia mascheramento della propria reale subalternità al capitale (finanziario); che trasforma il momento elettorale in una mera conta delle mani privando il (fu) cittadino di ogni reale potere di scelta dei propri rappresentanti; che appiattisce sull’esecutivo il potere legislativo; che trasforma il diritto all’istruzione (costituzionalmente garantito) in una sorta di tessera a punti valida per l’acquisizione di (pseudo)-tecniche di problem solving, rimuovendo ogni riferimento alla dimensione critica della presa di coscienza dei problemi: in definitiva, un’istituzione che dismette il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3 c. 2 Cost.), e per la quale il nome “Stato” ha al più un valore connotativo o performativo di tipo retorico.
Il nocciolo della questione è qui
http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/04/28/news/la-buona-scuola-riforma-dai-mille-pregi-gli-insegnanti-non-vogliono-essere-giudicati-1.209880?ref=HEF_RULLO
Il nocciolo della questione è che ci sono quelli come te, Carlo Speranza, che hanno lo slogan pronto – gli insegnanti non vogliono essere valutati – e lo usano senza neanche sapere di cosa si sta parlando, dal momento che lo slogan serve giusto a questo: a esonerarsi dalla fatica di leggere e comprendere, prima di articolare un giudizio.
Invece di prendertela con Carlo Speranza, prova a replicare a Mario Rusconi sul problema della valutazione.
E fa attenzione a contrapporre le “regole tecniche di radice americana” con Foucault, a uscirne con le ossa rotte è Foucault
Anche perché Carlo Speranza non credo esista 🙂 Credo sia il terzo nick della stessa persona (che non è Foucault)
Il problema è che esiste chi prende per buone queste affermazioni
> una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati
Insomma si torna allo stanco mito romantico dell’individuo che senza conoscere le regole le supera e invanta il nuovo. Peccato che se vuoi diventare Leonardo allora devi imparare in modo analitico e preciso le regole che ti dà Verrocchio e imparare a dipingere secondo le sue regole, se vuoi diventare Rimbaud devi analizzare e imparare per anni da allievo modello le altrui poesie. E uno che possidede gli strumenti e impara a analizzare quello che gli viene messo sotto il naso, allora diventa un cittadino più scaltro nel valutare quello che gli verrà propinato. E la prima delle regole analitiche è guarda caso indentificare con chiarezza le assunzioni e il contesto in cui ci si trova, cioè proprio gli assiomi e le strutture esistenti. Non ha caso gli odiati americani, quelli cui dobbiamo cose come il problem solving, ti danno le regole e poi adorano e ergono retorici monumenti a quelli che le regole le violano, le capovolgono, perché senza capovolgimento delle regole non c’è una nuova frontiera da conquistare, non c’è una innovazione da trovare che mette in discussione e rende obsoleto l’esistente. E così vanno a inchinarsi all’ultimo di tanti feticci di sovvertitori di regole, cioè lo Steve Jobs.
@ Carlo Speranza
Cosa vuoi che replichi? Rusconi dice che i presidi saranno licenziati, e nel testo di legge questo non c’è scritto (l’ho già detto); dice che (cito) “I criteri precisi purtroppo non ci sono, perché come si sa questa è una legge delega: contiene i principi generali, e per attuarla ci vorranno dieci-quindici decreti attuativi”, e anche questo l’ho già detto. Poi però aggiunge che questi criteri che non ci sono “saranno chiari, trasparenti, verificabili, insomma rigorosi”, e vorrei tanto sapere come fa a dirlo, visto che parla di una cosa che non c’è. Insomma, lui parla pro domo sua per slogan propagandistici (e lo capisco: l’unica cosa chiara di questo ddl è che ci sono 12 milioni per quest’anno, e 35 annui a partire dal prossimo, per incrementare il suo stipendio), e tu dimostri di non aver letto la legge, e secondo me neanche l’articolo. Chi è Chris Hedges non sto neanche a spiegartelo, tanto non vale la pena.
PS: Un consiglio: cambia nickname, quello attuale dà l’idea di uno che quando muore non è bello da vedere.
@girolamo de michele
se concordi sul fatto che i decreti attuativi non ci sono, allora tutto il tuo punto due è basato sul nulla, essendo elocubrazione su qualcosa che anocra non è definito
Chris Hedges dal poco che hai citato di suo pare uno che si scandalizza perché a uno studente sono forniti gli strumenti analitici per esaminare in modo critico un qualsiasi problema e dimentica che questi strumenti lasciano ampio spazio e incoraggiano i lateral thinking, il thinking out of the box, l’uscire dagli schemi dopo averli appresi e averne capito i limiti di applicabilità. Mi pare che a te piacciano di più quelli che acriticamente accettano i tuoi slogan
Circa la tua osservazione finale, mi pare prefettamente allineato allo stile di confronto che sta prendendo piede dalle nostre parti, quello stigmatizzato dalla Lipperini nel post dal titolo “ALL PASSION SPENT”