IL MANAGER DIETRO DI ME: UNA STORIA DI NATALE

Ieri sera, tornando da Torino a Roma, sono nuovamente capitata nella situazione più pericolosa per chi viaggia in treno: non la signora che parla al telefono con tutta la famiglia, non il gruppo di amici che grida e ride, neppure il signore che guarda i video delle partite senza auricolare.
La cosa peggiore che possa capitare, infatti, sono i manager. I manager sono quelli che appena seduti aprono il computer, lanciano excel e cominciano, se va bene, a compilarne ogni campo. Finché è così, non è un problema, a meno che il manager in questione non sia seduto accanto a te, e ti prenda volentieri e managerialmente a gomitate.
Se va male, e va spesso malissimo, sono quelli che trascorrono le ore del viaggio in call con altri manager invisibili a cui si rivolgono urlando, perché anche se hanno gli airpod non sanno come usarli.
I manager sono quelli che discutono col collega seduto accanto a me di chi licenziare: mi è capitato, una volta. La licenziante era una signora bionda e affilata, il co-licenziante un giovane in giacca e cravatta. E dopo mezz’ora in cui ho ascoltato le mancanze caratteriali di quello e lo scarso rendimento di quella ho chiamato mio marito e a voce alta, anche io, ho detto che avevo una gran voglia di parlare di libri e di musica e invece ero capitata in compagnia di due tagliatori di teste. Ha funzionato: la signora è sbiancata e hanno cambiato discorso.
Ha funzionato anche la mia reazione davanti a un altro manager che stava discutendo in dettaglio un contratto da stringere. Dopo mezz’ora l’ho guardato, lui ha guardato me e “sto lavorando”, ha detto secco, per mettere le mani avanti. “Oh, anche io”, ho risposto. “Ma se fossi della ditta concorrente? Saprei tutto del contratto che sta per chiudere”. E’ sbiancato anche lui, e ha smesso.
Ma ieri ero molto stanca, dopo cinque giorni di trasferta.  Pensavo, peraltro, ad alcuni racconti che studenti e studentesse Holden mi hanno sottoposto, dove si prefigurava una società distopica in cui si vince il sonno per poter lavorare almeno 23 ore su 24. E pensavo a quanto ci siamo vicini, dal momento che erano le otto di sera (e poi le nove, e poi le dieci) del 19 dicembre, e qua e là un gruppo di avvocati romani discuteva di rogiti e udienze, e un po’ più giù due nonsocosa sempre romani prendevano appunti a voce alta su nonsoqualelavoro.
Così ho infilato i miei auricolari, praticamente unica in tutto il vagone, e mi sono detta “guardati un film, prendila comoda”. In effetti, ho guardato “Il mondo dietro di te”, trovandolo per altro interessante.
A Bologna sale una coppia, tutti e due capelli rossi, tutti e due belli e allegri. Aprono i computer e cominciano a ridere e a chiacchierare a voce abbastanza alta da oltrepassare i miei auricolari, ma non abbastanza da farmi capire cosa dicevano.
Arriviamo a Firenze, è notte, ho voglia di una sigaretta. Mi alzo per approfittare della sosta e si alza anche la coppia. Sento cosa dicono, finalmente. Non parlavano d’amore. Parlavano di partite, pezzi da vendere, concorrenza, guadagni.
Ci sono rimasta  male, io che speravo in una rara isola di umanità in uno scompartimento dove non si smette mai di lavorare, di pianificare strategie, di ipotizzare guadagni.
Lo so: è sciocco, romantico, ingenuo, tutto quello che volete. Ma non sarei quella che sono se non sognassi altro, se non desiderassi altre strade, se non mi incantassi sui miei vecchi e nuovi amori, i figli, il marito, i gatti, i libri, le amiche e gli amici, il mio giardino, i giardini di Calipso, la toccata dell’Orfeo, il cielo della Luna di Dante, l’anello di Angelica, le due commedie in commedia di Andreini, il fa sovracuto della Regina della Notte, la cavatina di Tancredi, la Maddalena penitente di Tiziano, la voce di Cathy Berberian.
Ma anche le persone che si tengono per mano, a qualsiasi età, senza parlare, per una volta, di capitali e di investimenti, o che abbandonano la testa sul sedile per guardare le luci che sfrecciano nel buio.
C’è molto che non mi piace, nel mondo che abbiamo intorno. Per fortuna, c’è ancora bellezza, ma tocca evocarla ogni volta.

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